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Dibattito sulla Inter-Personal Therapy (IPT)

Prima parte di quattro parti

Per le altre parti, vai alla parte Seconda, Terza, e Quarta (bibliografia)

Introduzione di Paolo Migone
Come avevo preannunciato nella mia presentazione dell'area "Psicoterapie" di POL.it, il primo documento che qui viene pubblicato è questo dibattito sulla IPT, la Inter-Personal Therapy formulata da Klerman & Weissman (Klerman G.L., Weissman M.M., Rounsaville B.J., Chevron E.S., Interpersonal Psychotherapy of Depression. New York: Basic Books, 1984; trad. it., Psicoterapia interpersonale della depressione. Torino: Bollati Boringhieri, 1989) e sperimentata negli Stati Uniti nel ben noto studio multicentrico sulla terapia della depressione del National Institute of Mental Health (NIMH). Questo dibattito è avvenuto nell'aprile 1997 nella lista di discussione Psich-ITA, ed è quindi anche un esempio di come può essere proficuamente utilizzata la rete: una innocente richiesta di un collega (Danilo Di Diodoro) ha stimolato un acceso dibattito tra me e Giovanni de Girolamo, al quale si sono uniti anche alcuni altri membri della lista. Come accade sempre nelle liste di discussione, noi che abbiamo partecipato al dibattito abbiamo potuto scambiare delle idee in tempo reale e arricchirci reciprocamente, mentre i tanti altri collegi che ci leggevano potevano anch'essi trarre utili stimoli per le loro riflessioni ed eventualmente approfondire il tema con le letture che venivano citate da chi interveniva.

Ho fatto la scelta di lasciare il testo così come era nel dibattito, senza chiedere ai singoli partecipanti di correggerlo o migliorarlo, perché ciò sarebbe stato improponibile, e poi comunque sarebbe risultata un'altra cosa, diversa dal dibattito originale. Mi sono limitato a minime correzioni formali nei rari casi in cui mi sono accorto di piccoli errori di battitura, alcune volte ho eliminato brevi frasi che riguardavano altri temi, e ho messo in ordine logico quelle E-Mails che a volte erano "in parallelo". Ho lasciato anche quelle frasi scritte in lettere maiuscole, così come furono scritte, perché potevano denotare una maggiore enfasi da parte di chi le aveva scritte.

Inoltre, coloro che non hanno dimestichezza con la posta elettronica troveranno che a volte alcune frasi hanno a sinistra, dove inizia la riga, il simbolo ">": questo simbolo (che viene generato automaticamente dal programma di posta elettronica quando si vuole rispondere a una E-Mail) sta a significare che la frase così contrassegnata è una citazione presa dalla E-Mail alla quale si intende rispondere.

Come accennavo nella presentazione, questo dibattito tocca alcuni nodi teorici e clinici importanti, peraltro lasciati volutamente aperti nella loro complessità, quali la questione della "validazione scientifica" di una tecnica psicoterapeutica, della "efficacia" di un intervento, delle comprensibili pressioni dovute alla bilancia costi/benefici (per tutti questi problemi, vedi anche Migone, 1996, e de Girolamo & Migone, 1998), e soprattutto del legame tra teoria e pratica nel nostro operare di psicoterapeuti. Entriamo dunque nel vivo della discussione e ascoltiamo le ragioni dei vari colleghi.


15/4/97, Danilo di Diodoro:
Mi è stato chiesto di cercare uno psicoterapeuta nella zona di Trieste o Udine per una ragazza molto giovane con problemi depressivi. In particolare si cercherebbe uno psicoterapeuta di buona esperienza e ad orientamento cognitivo-comportamentale o interpersonale, con l'esclusione di quelli ad orientamento psicoanalitico. Qualcuno è in grado di darmi un suggerimento?

Grazie per la collaborazione.

18/4/97, Paolo Migone:
Caro Danilo, non ti rispondo per darti il nome ti un terapeuta triestino, ma vorrei approfittare di questa tua richiesta per fare alcuni commenti che penso possano stimolare la riflessione su cosa secondo me è la psicoterapia oggi, anche da un punto di vista scientifico (so che tu sei sensibile ad un approccio scientifico alla psicoterapia). E' stato abbondantemente dimostrato che quello che conta per l'effetto terapeutico non è affatto l'orientamento del terapeuta, ma come è fatto lui come "persona" (per brevità, vedi il mio articolo sulla ricerca empirica sul n. 2/1996 della Rivista Sperimentale di Freniatria). E' per questo motivo che molti quando inviano un paziente a un terapeuta, pensano ad un terapeuta in carne ed ossa, non alla scuola a cui appartiene. Tu dirai che vi sono dei limiti, e sicuramente alcune scuole sono fuori dalla storia, ecc. Anche qui si potrebbe discutere, ma forse potremmo essere d'accordo sul fatto che tutti e tre gli orientamenti che tu citi offrono ottimi e pessimi terapeuti.

Limitare la scelta a un terapeuta di una scuola, oltre che a restringere la gamma dei possibili candidati (a danno della paziente), rischia di ripetere la logica (questa sì antiscientifica) delle parrocchie nel senso peggiore, nell'illusione che tutti i membri di una scuola siano bravi (o, se è per questo, non bravi o meno bravi) di un'altra parrocchia. Purtroppo la psicoterapia è ancora ad un tale stadio "prescientifico" (nel senso delle scienze dure) che le variabili in gioco sono ben più complicate, passano attraverso i cosiddetti fattori della "persona" (e questo, come ti dicevo, è sempre più "evidence-based").

Permettimi di fare alcuni altri commenti liberi, che rappresentano ovviamente dei punti di vista personali, riguardo ai singoli orientamenti che tu citi. Tu parli di "orientamento cognitivo-comportamentale". Secondo me non c'è niente di più impreciso, puoi trovare dei terapeutiche sono pericolosi, tanto quanto in psicoanalisi, soprattutto in Italia (ti parla uno che, anche se di provenienza "psicoanalitica", è molto interessato al cognitivismo e ha la massima stima di alcuni cognitivisti italiani: tanto per fare un esempio, io quando invio un paziente a un terapeuta di Roma, faccio sempre i nomi di Liotti o Semerari, due cognitivisti che stimo e di cui sono amico. Sono loro i miei punti di riferimento a Roma, con Liotti sto scrivendo un lavoro insieme (Psychoanalysis and cognitive-evolutionary psychology: an attempt at integration, International Journal of Psychoanalysis, 1998, 79, 6: 1071-1095), ecc., ma è un po' un caso, stimo anche molti cosiddetti "psicoanalisti").

Per quanto riguarda quello che tu chiami orientamento "interpersonale", è quanto mai una parola generica, un cliché. Se alludi alla Inter-Personal Therapy (IPT) di Klerman & Weissman, essa, nella migliore delle ipotesi, secondo me non è altro che una pallida e brutta imitazione di una qualunque psicoterapia dinamica. Quello che differenzia la IPT da una psicoterapia dinamica che non si chiama IPT è che la IPT è più riduttiva, più schematica, nata da un manuale ipersemplificato fatto per essere sperimentata nel noto studio multicentrico dell'NIMH (è questo il suo solo merito), e per essere insegnata meccanicamente e in fretta ad operatori non sofisticati, come assistenti sociali, ecc. Penso che Giovanni de Girolamo abbia peccato di ingenuità nell'enfatizzare la IPT in Italia per il solo fatto che è stata sperimentata (mi permetto di criticare a questo proposito apertamente Giovanni perché come sai lo stimo e sono molto suo amico da anni, e lui non è il tipo che si sottrae al dibattito). La ascesa della IPT nel panorama internazionale, e la sua accettazione acritica in certi paesi come l'Italia, è una cosa triste, un fraintendimento che tradisce anche un fatto grave: la non chiarezza su cosa noi intendiamo per "scienza" (e queste cose tra l'altro Giovanni le sa, e dovrebbe andare più cauto con il suo discorso sulla "evidence-based psychiatry" [ vedi comunque le nostre introduzioni ad alcuni documenti che abbiamo pubblicato nel sito web della SPR-Italia, cioè della sezione italiana della Society Psychotherapy Research, che come forse sai io stesso ho fondato]). Mi spiego: nel caso della IPT è proprio il caso di dire che un fenomeno diventa tanto più "scientifico" quante più variabili noi eliminiamo, tanto più lo riduciamo a una caricatura. La unica teoria che la IPT ha alle spalle è la psicoanalisi, con la differenza che si cerca di deenfatizzare le cose più importanti e utili della psicoanalisi (come ad esempio il parlare del rapporto col terapeuta, il "qui ed ora", cioè il transfert). La IPT va bene se fai uno studio su una terapia manualizzata, ma elevarla a nostra pratica clinica ideale lo trovo grottesco, penso significhi un po' non sapere cosa è la psicoterapia, significa non avere elasticità. Questa è almeno la impressione che ho avuto da un seminario sulla IPT organizzato appunto da Giovanni. A me fanno sorridere quelli che dicono che nella loro pratica privata "praticano la IPT", mi danno l'idea di non avere una cultura psicoterapeutica. A mio modesto parere, non esistono oggi molte alternative teoriche alla terapia dinamica, quella che si chiama così senza altri appellativi.

Stesse cose potrei dirle a proposito della Dialectial Behavior Therapy (DBT) della Linehan per i borderline. Ti parlo ancora sotto l'influenza dei tre interessantissimi giorni passati assieme a Clarkin al corso che ho organizzato alla Clinica Psichiatrica della Università di Parma sui disturbi di personalità, sotto gli auspici della Society for Psychotherapy Research (SPR), della SPR-Italy e della Società Italiana di Psichiatria (SIP). Conoscevo già il lavoro del gruppo di Kernberg, ma sono rimasto veramente impressionato dalla loro straordinaria esperienza clinica. Ma non voglio allungare troppo questa lettera e appesantire la lista che è già fin troppo carica.

20/4/97, Giovanni de Girolamo:
Caro Paolo, la tua lettera -- stimolante come al solito -- meriterebbe un sacco di osservazioni, che purtroppo in questo momento non ho il tempo di fare in extenso. Mi limito solo ad alcuni punti brevissimi.

1. Quello che emerge, dalle tue osservazioni, è la ben nota tesi (rivista, tuttavia, ad usum delphini) che "Tutti hanno vinto e tutti hanno diritto ai loro premi" (il "verdetto di Dodo", come lo chiamò Luborsky, ricordando quel personaggio di Alice nel paese elel meraviglie): ossia, tutte le psicoterapie sono uguali, quel che conta è lo psicoterapeuta, ecc. La realtà è ben diversa da ciò. NON TUTTE LE PSICOTERAPIE SONO EGUALI: IN PARTICOLARE LE EVIDENZE DI EFFICACIA DI PSICOTERAPIE SPECIFICHE PER IL TRATTAMENTO DI DISTURBI SPECIFICI (e non per il trattamento di indeterminati ed indeterminabili malesseri esistenziali, come sono in larga misura quelli che afferiscono alla maggior parte degli studi psicoanalitici) SONO STRAORDINARIAMENTE DIVERSE. Non accettare tale dato di fatto, come purtroppo anche i seri ricercatori di matrice psicoanalitica come te fanno, conduce ovviamente ad una serie di gravi bias. Ma su questo tema vorrei rimandare ad un libro che ho acquistato di recente, What Works for Whom? A Review of Psychotherapy Research, di Roth & Fonagy, New York: Guilford,1996 (Psicoterapie a prova di efficacia: quale terapia per quale paziente. Roma: Il Pensiero Scientifico, 1997 -- non devo certo spiegare a te chi è Fonagy!); tale volume (peer-reviewed da un gruppo internazionale) fornisce una eloquente e chiara dimostrazione dell'assunto di cui sopra, e -- ahimè -- giunge alla conclusione che LE EVIDENZE DI EFFICACIA DEI TRATTAMENTI DI "TIPO" PSICOANALITICO (psicoanalisi, psicoterapia psicoanalitica, psicoterapia di ispirazione psicoanalitica, e chi più ne ha più ne metta) SONO PURTROPPO INESISTENTI, al contrario di quelle relative ad altre psicoterapie.

2. Nel caso specifico citato da Danilo, egli chiedeva -- in maniera straordinariamente corretta, a mio avviso -- se vi fosse un terapista in una data area che impiega (tralascio, per mancanza di tempo e di spazio) TECNICHE PER IL TRATTAMENTO DI UN DISTURBO SPECIFICO (la depressione) CHE SIANO EVIDENCE-BASED: non devo certo spiegare a te che sia la terapia cognitiva che l'IPT sono tecniche ampiamente evidence-based per il trattamento della depressione maggiore (vedi lo studio NIMH-TDCRP), mentre la psicoanalisi (nelle sue varie declinazioni, non è purtroppo, per il trattamento della depressione maggiore, evidence-based). Inoltre, nel caso delle prime due tecniche si tratta di terapie a durata limitata, oltre la quale si raccomanda al paziente una eventuale alternativa (es. farmaci, o l'altro tipo di psicoterapia); nel caso della psicoterapia psicoanalitica si tratta di un intervento di durata (e di costi) illimitata, differenza che finalmente -- nel 1997 -- si apprezza in tutte le sue numerose implicazioni.

3. Le tue critiche sull'IPT sono purtroppo scientificamente del tutto improprie e fuorvianti, e se dovessi abbozzarne una interpretazione (per riderci, ovviamente!) penserei che nascondono una qualche invidia per una tecnica che, pur potendo beneficiare (dal punto di vista della formazione personale) di una conoscenza della psicodinamica, non ha nulla a che vedere con essa. Purtroppo, caro Paolo, piaccia o no, l'IPT è -- oggi, aprile 1997 -- la psicoterapia con i più ampi margini di "evidenza" oggi disponibile, in quanto è stata testata nei due più ampi, sofisticati e lunghi trials che hanno mai coinvolto una qualsivoglia tecnica psicoterapeutica (ossia il NIM-TDCRS e lo studio di Pittsburgh sulla terapia di mantenimento della depressione). Se una qualche tecnica di marca psicoanalitica fosse stata testata in un trial di dimensioni pari a solo 1/5 di uno dei due trials succitati, la psicoanalisi non si troverebbe nell'impasse attuale! E' inutile che Ti ripeta quanto tu sai molto bene (cosa che ho avuto modo di verificare di recente negli USA), ossia che negli USA la psicoanalisi è di fatto sparita dalla circolazione, e psicoanalisti eminenti (come Donald Cohen ed Arthur Green) con cui ho parlato quasi non la menzionano più! Infine, a proposito dell'IPT, se fossi venuto ai due illuminanti seminari di Ellen Frank e di David Kupfer, avresti visto a che punto è oggi la ricerca sull'IPT: giusto per fare un esempio, Kupfer ha riferito i risultati di uno studio straordinario fatto a Pittsburgh (unpublished), in cui sono riusciti a dimostrare che i depressi non-responders all'IPT hanno un Delta Ratio (una particolare misura EEGgrafica relativa al rapporto tra sonno REM e NON-REM, e tra fasi del sonno REM) diverso da quello dei responders! Questa è ricerca seria che finalmente stabilisce una connessione (operazionale e non solo teorica) tra mente e cervello!

Con i più cari saluti. Giovanni.

20/4/97, Paolo Migone:
Caro Giovanni, ti ringrazio per la pronta e attenta risposta. Io non avevo mai messo indubbio che la IPT funzionasse, anche perché era stato dimostrato dalle ricerche. Ma -- questo era il mio ragionamento -- se la IPT è un "distillato", un "concentrato", della psicoanalisi, allora dovrebbe funzionare anche la psicoanalisi, e magari di più. Il fatto che non siano possibili ricerche così accurate su terapie dinamiche a lungo termine non implica necessariamente che esse non funzionino. Su un punto però hai ragione: mentre sappiamo cosa è la IPT, non sappiamo bene cosa è la psicoanalisi così come viene praticata (è un calderone di tecniche diverse, ecc.), per cui tu puoi dire che la IPT tutto sommato dà più affidamento. Io aggiungerei che se conosci uno psicoanalista di persona e ti dà affidamento, puoi assumere che lavora bene. Mi rendo conto però che non vi sono controlli affidabili, "evidenze". Nel mio discorso volevo sottolineare poi che la IPT mi sembrava molto schematica, forse al prezzo di peggiorare un po' la tecnica (lo stesso problema è vero per il manuale di Luborsky, quello di Kernberg, ecc.). Ma questo è il punto, come tu sai: sono maggiori i vantaggi di uniformare e chiarire bene una tecnica, o gli svantaggi di lasciarla più complessa e aperta, meno manualizzata, col rischio che molti singoli terapeuti poi facciano anche errori a causa di questa maggiore complessità e apertura loro permessa?

Quanto al libro di Roth & Fonagy, avevo visto il manoscritto l'estate scorsa a Toronto a un congresso, e sicuramente è un libro importante che spero di avere tra le mani presto. E' incredibile quante cose sia riuscito a fare Fonagy in questi ultimi anni. Grazie ancora per la tua interessante risposta, e per i dati sulla Delta Ratio, che non conoscevo, e mi dispiace non essere stato presente a quel seminario. Paolo

20/04/97, Giovanni de Girolamo:
Caro Paolo, sono molto d'accordo con quanto saggiamente affermi; il mio unico dissenso (del quale avremo, spero, occasione di riparlarne a lungo e di persona) si riferisce alla tua affermazione secondo cui l'IPT "è un distillato della psicoanalisi". Purtroppo non è così, e ne esiste una importante dimostrazione sperimentale, che rappresenta secondo me -- al pari del discorso sulle differenze tra responderse non-responders legato ai ritmi del sonno -- una dei più stimolanti risultati della ricerca in psicoterapia mai conseguiti.

Mi riferisco alla straordinaria analisi che è stata fatta a Pittsburgh, nell'ambito del Maintenance Study of Recurrent Depression, su tutte le sedute audioregistrate dei pazienti trattati con IPT (solo gli americani possono fare queste cose!): dei valutatori blind hanno fatto un rating delle sedute, stabilendo in che misura l'IPT era di "bassa" o "alta" qualità, a seconda che il focus della seduta fosse quasi sempre e coerentemente rivolto alle tematiche interpersonali scelte (lutto complicato, transizione o conflitto di ruolo) o che invece fosse rivolto a tematiche diverse, tra cui la relazione paziente-terapista. Quel che è venuto fuori è che i pazienti trattati con IPT di alta qualità (focus sempre sulle tematiche interpersonali prescelte per il trattamento) hanno presentato un tasso straordinariamente minore di ricadute rispetto a quelli trattati con IPT di "bassa" qualità (attenzione spesso ed ampiamente rivolta anche a tematiche non interpersonali ed extra-setting, come ad esempio le dinamiche transferali e controtransferali). Tale differenza dimostra che, almeno nel trattamento della depressione, l'IPT è tanto più efficace quanto più si rifà alla tecnica specifica e manualizzata e quanto meno impiega tecniche che -- credo a parere unanime -- sono tuttora considerate centrali nei trattamenti di derivazione psicoanalitica (analisi delle dinamiche transferali e controtransferali).

Naturalmente -- e correttamente -- tu potrai però asserire che ciò è stato dimostrato per la depressione, e che non automaticamente vale per altri disturbi: si potrebbe addirittura congetturare che per altri disturbi una psicoterapia specifica è tanto più efficace quanto più evita le tematiche interpersonali e focalizza su quelle paziente-terapista!

Con i più cari saluti. Giovanni.

20/4/97, Paolo Migone:
Caro Giovanni, se così stanno le cose, hai ragione: secondo le ricerche che citi, una psicoterapia che tocca maggiormente i rapporti extra-transferali, evitando il più possibile di commentare il rapporto terapeuta-paziente, nella depressione funzionerebbe di più di una terapia che include anche interventi che non esitano a mostrare al paziente quanto lui possa ripetere, nel "qui ed ora" (il transfert), determinati pattern comportamentali patologici. Non riesco a capire perché, dato che altri studi (tra cui quelli del gruppo di Kernberg che ci ha ricordato Clarkin al corso che abbiamo appena fatto a Parma, per non citare Luborsky, ecc.), e anche il buon senso e l'esperienza clinica di molti, indurrebbero a pensare che è molto utile e massimamente terapeutico lavorare in vivo su determinate tematiche dell'hic et nunc, con l'affettività ai livelli alti, anche allo scopo di favorire la memorizzazione e la interiorizzazione della "nuova esperienza" e a modificare quindi più efficacemente gli schemi cognitivi e comportamentali.
Una vecchia critica infatti che si faceva ai terapeuti cognitivi era quella che loro parlavano spesso e volentieri solo dei rapporti "con gli altri", trascurando il transfert, e cadendo a volte in razionalizzazioni difensive, mentre il paziente, secondo il ben noto adagio di Freud, quando parla di qualcun altro parla sempre anche del terapeuta, perché è il pattern relazionale che viene attivato, pattern che entro una certa misura è simile in tutti i rapporti. Mi sembra allora che se la IPT considera un aspetto centrale della tecnica quello di non parlare mai della relazione col terapeuta, effettivamente non è "psicoanalitica" negli intenti (anche se non mi piace esprimermi in questi termini, per i motivi che ti spiegherò dopo). In effetti avevo sentito dire da alcuni autori che non la considerano una terapia "psicoanalitica", ed era forse per questo.

Ritengo comunque che possano esservi delle spiegazioni (che lasciano il tempo che trovano perché rimangono delle ipotesi difficili da dimostrare empiricamente). Te ne accenno una: i depressi tendono a riattivare con molta facilità il loro senso di colpa, e parlare del rapporto col terapeuta può esporli al rischio di sentirsi in colpa, "responsabili" dei loro stati emotivi, mentre parlare sempre dei altri, "dare la colpa agli altri" (al marito insensibile, al capoufficio tiranno, ecc.) li risolleva, grazie al rinforzo della difesa proiettiva ("il cattivo è lui, non sono io"). Se il terapeuta si comporta correttamente, è difficile per un paziente "dargli la colpa", e una breve analisi dei significati della depressione porta inevitabilmente al rischio che la proiezione venga demolita e quindi cresca la depressione. Lavorare con pazienti affetti da depressione maggiore è delicato, perché a volte se solo li fai riflettere sulla contraddittorietà delle loro motivazioni si mettono a piangere (è capitato a me un mese fa con una mia paziente molto depressa e con un equilibrio affettivo estremamente precario: non capivo bene cosa aveva detto, e le chiedevo solo di spiegarmelo meglio, ma lei si è sentita accusata, ha pianto tutta la seduta e ha quasi pensato di interrompere il trattamento; sono allora rimasto zitto per due o tre sedute, senza commentare le sue solite lamentele degli altri, e lentamente ha riacquistato l'equilibrio -- da notare che è una donna molto intelligente) (tranquillizzo subito i biopsichiatri dicendo che è in antidepressivi a dosi piene). Tra l'altro è risultato poi che aveva "la coda di paglia", cioè la cosa che non avevo capito era una sua contraddizione in cui cercava di far passare che -- per l'ennesima volta -- "la colpa di qualcosa era di un altro". Negli anni è passata attraverso tutti i più noti psichiatri della città, provando varie terapie farmacologiche senza successo. Io la sto "aggredendo" da due anni con la psicoterapia, convinto che si tratti di una depressione caratterologica, ottenendo risultati peraltro minimi.

Ma quello che volevo dirti in queste mie mails è questo: ogni terapeuta dinamico, degno di questo nome, sa quanto è importante e utile la "paranoia" per alcuni pazienti, ed è un dovere procedere molto delicatamente, perché non possono reggere il confronto eccessivo delle loro contraddizioni. E' possibile che Klerman, che era uno psichiatra di grandissima esperienza, così come pure gli altri autori del manuale della IPT, avessero capito bene queste problematiche: è meglio uniformare la tecnica dando direttive precise a tutti i terapeuti a non toccare il transfert (non parlare mai veramente di sé) coi depressi, perché così si hanno maggiori chances di successo nel breve periodo. Io ragionavo però in un altro modo: se il problema è quello dell'autostima, degli spunti persecutori (o, come dicono quegli analisti affezionati alla metapsicologia, dell'aggressività proiettata, ecc.), mi sembra che ai terapeuti vadano insegnate queste cose, cose utili per lavorare con tutti i pazienti, usare cioè queste variabili ("cliniche", non metapsicologiche) come guida per i nostri interventi. Se invece diciamo a tutti, senza troppa elaborazione concettuale (come ho visto fare in un corso sulla IPT) che quello che si deve fare è non parlare mai del transfert senza spiegare bene perché, cioè senza inserire questo tipo di intervento all'interno di una cornice teorica più generale della psicoterapia e del funzionamento psichico, alla lunga si possono fare degli errori, delle mosse controterapeutiche (il mio interesse è altrettanto pratico, come per i fautori della IPT).

Tra parentesi, ricordo che in quel corso sulla IPT (che tu organizzasti) io chiesi al conduttore come è possibile non parlare della relazione col terapeuta se per caso il paziente dice che è depresso proprio perché nella seduta precedente era stato ferito dal terapeuta stesso (il conduttore aveva appena detto che in ogni seduta bisogna chiedere al paziente di parlare di quello che è successo nelle settimana precedente con gli altri, di parlare degli episodi possibile fonte di depressione, ma non del rapporto col terapeuta), e in effetti non c'era una risposta facile a questa domanda, data la regola di evitare il "qui ed ora" della IPT. Se invece insegnassimo che si può parlare di tutto, ma evitare di far sentire in colpa il paziente se lui non lo tollera -- così ragionavo io -- si insegna una tecnica più efficace, perché si fornisce un rationale più coerentemente inserito in una teoria generale della terapia.

Ma può darsi che qui mi sbagli: forse coi depressi paga di più, in termini di rischi, dare l'indicazione di non toccare mai il "qui ed ora", perché se tu insegni la psicoterapia come la vorrei insegnare io magari tanti terapeuti non la capirebbero bene e parlerebbero in modo inappropriato del transfert a tutti i pazienti, creando solo danni, colpevolizzazioni, intrusioni, o facendo la caricatura del "gioco del piccolo psicoanalista" che non fa altro che parlare delle implicazioni transferali insultando anche la intelligenza del paziente (quindi facendolo sentire stupido).

Per finire questa mail, ti dico perché prima ho detto che non mi piace pensare alla IPT come ad una terapia non dinamica. Come tu sai (avendo letto il mio libro) ritengo, un po' provocatoriamente, che "non esistono terapie non dinamiche", così come non esiste alcuna differenza tra psicoanalisi e psicoterapia. E' obbligatorio ragionare in termini psicoanalitici, perché "non si può ignorare un transfert di cui ci accorgiamo"; il transfert esiste comunque, e "il far finta che non ci sia lo porta solo ad esercitare ancor di più i suoi effetti senza che noi cene accorgiamo". La psicoterapia (non psicoanalitica) praticamente non esiste, perché non dà chiare indicazioni su come comportarci in modo coerente col paziente, una volta riconosciute certe premesse ormai accettate da quasi tutti gli orientamenti... "E' un errore insegnare a un principiante a star lontano dal transfert, perché ne è sempre coinvolto, ed è impossibile insegnargli a non gestire un transfert di cui si accorga. Non vi è un'alternativa all'insegnamento della psicoanalisi, poiché essa è più facile da apprendersi della psicoterapia, la quale non offre una chiara teoria della tecnica riguardo a come comportarsi nei confronti delle ubiquitarie manifestazioni transferali" (queste erano frasi di Gill [1984], che, come sai, è stata una figura chiave nella mia formazione).
Capisci adesso perché provavo irritazione verso certi aspetti della IPT?

Un abbraccio. Paolo.

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