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L’uso clinico degli antidepressivi noradrenergici

Aguglia E., Anzallo C., Ballatore A.

Istituto di Clinica Psichiatrica - Università di Trieste

 

INTRODUZIONE

GLI ANTIDEPRESSIVI NORADRENERGICI NON SELETTIVI

GLI INIBITORI SELETTIVI DELLA RICAPTAZIONE DELLA NORADRENALINA (NRI)

CONCLUSIONI

BIBLIOGRAFIA

 

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (NRI)

Fanno parte di questa classe la viloxazina e la reboxetina.

La viloxazina presenta un’attività noradrenergica, un’attività antistaminica centrale ed in misura minore anticolinergica. La documentazione clinica, a sostegno dell’efficacia della viloxazina, è di scarso rilievo; alcuni studi indicano un’azione simile a quella dei triciclici, ma con una minore incidenza di effetti indesiderati, soprattutto per quelli di natura cardiovascolare ed anticolinergica (Szapiro, 1995). Gli effetti indesiderati di più frequente riscontro sono nausea e vomito e sembrerebbero essere dose dipendenti, altri effetti indesiderati quali emicrania, vertigini, sonnolenza e xerostomia sono decisamente poco frequenti. Il rischio di morte associato a tentativi di suicidio con viloxazina è comunque inferiore a quello con i triciclici (Szapiro, 1995).

La reboxetina: attualmente è sicuramente il farmaco con la più alta selettività nella capacità di inibizione del reuptake della noradrenalina ed inoltre presenta attività trascurabile per quanto riguarda i recettori adrenergici, colinergici e istaminergici, tali dati suggeriscono che la reboxetina, a livello del SNC, agisce esclusivamente sulle cellule noradrenergiche. La potenziale attività antidepressiva della reboxetina è stata dimostrata oltre che da studi in vitro, anche mediante tests comportamentali considerati predittivi di attività antidepressiva. La reboxetina è infatti capace di antagonizzare il blefarospasmo e l’ipotermia indotti da reserpina e clonidina (Brunello e Racagni, 1998). Anche studi di legame recettoriale così come quelli sui sistemi di trasduzione intracellulare ed ancora quelli che utilizzano metodiche elettrofisiologiche e di microdialisi (i dati di queste ultime sono ancora in progress) suggeriscono, da parte della ricerca di base, che la reboxetina rientra nel panorama dell’armamentario terapeutico per il disturbo depressivo.

Per quanto riguarda l’utilizzo clinico della reboxetina, diversi studi dimostrano l’efficacia della molecola nel disturbo depressivo; una prima evidenza è data dalla scarsa interazione della reboxetina con il citocromo P450 (Nemeroff, 1996), enzima alla base dei meccanismi che permettono la degradazione di varie molecole.

In uno studio in doppio cieco in pazienti affetti da depressione maggiore (DSM-III R) (Berzewski, 1997), la reboxetina alle dosi di 8-10 mg/die vs imipramina alle dosi di 150-200 mg/die, ha dimostrato un’efficacia equivalente all’imipramina. Efficacia confermata anche nei sottogruppi di pazienti che presentavano oltre alla depressione severa la melancolia. La reboxetina mostrava una ridotta incidenza di effetti anticolinergici (xerostomia, ipotensione) e cardiovascolari (tachicardia), così come una ridotta incidenza di drop-out.

In uno studio comparativo di reboxetina, amitriptilina e placebo, condotto in doppio cieco su dieci pazienti (Hindmarch, 1998), i quali ricevevano 0.5, 1 o 4 mg/die di reboxetina, e 25 mg/die di amitriptilina con alcol (0-6 gr/kg) o alcol placebo, sono state valutate dopo 3-5 ore dalle somministrazioni, la performance psicomotoria e le funzioni cognitive. La reboxetina è risultata comparabile con il placebo e superiore all’amitriptilina, dimostrandosi così non dannosa nei confronti delle funzioni psicomotorie e delle funzioni cognitive anche in associazione ad alcol.

Inoltre la reboxetina in studi di confronto con la fluoxetina ha evidenziato un miglioramento della qualità della vita, in termini di funzionamento sociale. Nei pazienti trattati con reboxetina si è assistito ad un notevole miglioramento dei parametri cognitivi (memoria, attenzione e vigilanza) ed ad una precoce ripresa delle funzioni sociali intesa in termini di capacità relazionali, di rinnovato interesse per attività produttive e di ripresa del rendimento lavorativo. In un recente studio, in doppio cieco reboxetina (4-8 mg/die) versus desimipramina (100-200 mg/die) o placebo eseguito su un campione di 258 soggetti affetti da depressione maggiore (DSM-III R) si è potuto dimostrare come l’efficacia di reboxetina, sia stata statisticamente significativa sia nei confronti del placebo che nei confronti di desimipramina. La tollerabilità valutata attraverso vari parametri di laboratorio, della reboxetina era equivalente al placebo e a desimipramina (Ban et al., 1998).

Gli studi clinici hanno messo l’accento su due caratteristiche peculiari della reboxetina: la breve latenza di comparsa dell’effetto terapeutico e l’elevato profilo di tollerabilità (Tabella 2). Nel primo caso la differenza con il placebo si nota dopo una settimana e dopo due rispetto ai triciclici e SSRI. Nel secondo caso, il profilo relativo agli effetti collaterali mette in evidenza che la prevalenza di eventi avversi è pari al placebo e si presenta in misura meno evidente che nel gruppo trattato con imipramina e con fluoxetina (Sacchetti, 1998).

Conclusioni

La ricerca nell’ambito della psicofarmacoterapia del disturbo depressivo è volta a trovare nuove molecole che aiutino il paziente a combattere quella che è ormai definita una delle malattia di interesse mondiale. Lo strumento ideale che deve essere messo a disposizione del clinico è quindi un farmaco capace di alleviare le sofferenze causate dal disturbo depressivo nelle sue varianti polimorfe. Raggiungere tale obiettivo non è facile, infatti riuscire a trovare in un’unica molecola, tutte le soluzioni al problema depressivo in termini di efficacia terapeutica ed assenza di effetti collaterali ai fini anche di una buona compliance del paziente, rimane lo scopo primario della ricerca psicofarmacologica. Tale farmaco ideale non deve limitare la sua azione alla semplice risoluzione della sintomatologia; ma dovrebbe contribuire a migliorare la qualità di vita del paziente agendo in maniera globale anche sul suo funzionamento sociale. Facciamo riferimento in particolare al recupero delle sue funzioni cognitive (memoria, attenzione, concentrazione, ecc.) oltre che alle sue potenzialità relazionali e alle sue ritrovate capacità di produttività sociale. Un farmaco capace di soddisfare queste aspettative contribuirebbe sicuramente ad attenuare le sofferenze del paziente che in tempi brevi così potrebbe riacquisire il suo ruolo sociale con una evidente positiva ricaduta sui costi sia diretti che indiretti.


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