Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXIII, 2: 5-30
Nel libro di Muhidin Saric, il compagno di prigionia nel lager serbo di Keraterm dice: «I media di tutto il mondo hanno parlato (...). È bello e umano. Grandi titoli sui giornali, discussioni animate alla radio, moniti e minacce alla televisione. Ma a cosa serve tutto questo? Gli assassini non leggono i giornali, non ascoltano la radio e non guardano la televisione. Gli assassini continuano a uccidere» (Saric, 1994, p. 92 e sgg.). È evidente che ai prigionieri di Keraterm non serve quel che viene detto dai media di tutto il mondo. Ciò di cui parlano è noto: «I diritti dell'uomo sono il concetto che gode oggi di maggior prestigio, che viene usato in maniera inflazionistica e demagogica» (Fisch, 1996, p.21). Parlano dei diritti dell'uomo che a Keraterm, come in innumerevoli altri luoghi nel mondo, in ogni tempo, sono violati in maniera orribile. Sul tema dei diritti dell'uomo si è da tempo parlato e scritto infinitamente a lungo. Devo unirmi al dibattito sui diritti dell'uomo, se non serve affatto a coloro che vivono nei luoghi in cui tali diritti sono negati in maniera orribile? Se coloro che pensano, scrivono o discutono dei diritti dell'uomo finora non sono riusciti a fare in modo che si attengano al diritto coloro che lo calpestano? Ho deciso tuttavia di parlarne e di discutere con Muhidin Saric. Spiegherò alla fine perché preferisco parlare, sebbene non abbia alcun potere di fare qualcosa contro la negazione dei diritti dell'uomo nel mondo. Farò dapprima delle considerazioni generali sul tema, in maniera non sistematica e senza alcuna pretesa di completezza. Poi sottoporrò il diritto dell'uomo alla critica di due scienze, la psicoanalisi e l'etnologia. Sono entrambe adatte a far luce su problemi che finora sono stati forse troppo poco chiari. Il punto di vista psicoanalitico aiuta a comprendere quali sono i fenomeni psichici che inducono al rispetto del diritto umanitario e quali invece quelli che inducono alla sua violazione. Il punto di vista etnologico, in particolare il confronto fra culture diverse, può aiutare a rispondere ad alcuni quesiti, e cioè se il diritto dell'uomo sia sempre diverso nelle varie strutture sociali, se in generale esistano diritti dell'uomo validi per tutti i popoli, oppure, se non è così se cioè il principio dei diritti dell'uomo si è affermato solo negli stati euroamericani, se si debbano imporre agli altri popoli i nostri, occidentali, diritti dell'uomo, e se ciò debba accadere attraverso un condizionamento oppure con la coercizione e la forza. In altre parole: sono l'influsso culturale, la supremazia politica e militare dell'occidente, in particolare dei poteri coloniali, ad aver imposto agli altri stati la propria concezione dei valori, oppure con i diritti dell'uomo vengono riconosciute ed espresse leggi indispensabili, universalmente valide, della convivenza umana? La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo dell'ONU contiene un gruppo di valori che si possono senz'altro riconoscere come universalmente validi, come il diritto alla vita e all'integrità del corpo, il diritto all'autodeterminazione politica e culturale della persona, il diritto di ogni bambino a un sano sviluppo, e altri ancora. Solo a questi farò riferimento nelle mie riflessioni. La Carta dell'ONU del 1948 con le successive integrazioni (fino al 1985) contiene altri «diritti» che evidentemente possono essere rispettati in maniera sensata solo nei paesi industriali «sviluppati», coma le regolamentazione dell'orario di lavoro, il diritto alle ferie e così via. Di essi non mi occuperò in questo contributo e mi limiterò al primo gruppo di diritti, che chiamerò diritti universali dell'uomo. I diritti dell'uomo sono stati definiti, integrati e riveduti dalle Nazioni Unite. Dell'ONU fanno parte, a eccezione della confederazione elvetica, tutti gli stati. Perciò all'incirca tutti gli abitanti del nostro pianeta sono tenuti a rispettare i diritti dell'uomo; le istituzioni politiche dei vari stati garantiscono, in linea di principio, che tutti i cittadini e cittadine che essi rappresentano rispettino tali diritti. Tuttavia la definizione e il riconoscimento formale non si sono dimostrati sufficienti. Ci sono innumerevoli e a quanto pare sempre più numerose ed efferate negazioni e violazioni dei diritti dell'uomo. Molte violazioni dei diritti dell'uomo sono presentate persino dalle istituzioni statali (autorità) come politicamente necessarie, motivate dalla temporanea necessità di agire «pragmaticamente», dalla legge di guerra, da tradizioni etniche, da argomentazioni storiche o psicologiche; sono definite inevitabili e dunque legittimate. Talvolta viene contestata persino la richiesta morale che i diritti dell'uomo siano rispettati. Non posso addentrarmi in questo contributo nel merito della dimensione etica del problema. L'idea dei diritti dell'uomo ha una storia; è la storia dell'Illuminismo. Le tappe più importanti del suo sviluppo sono all'incirca: il «bill of rights» di Oliver Cromwell nel diciassettesimo secolo, la prima costituzione degli Stati Uniti d'America, la grande Rivoluzione francese. Tutte le definizioni successive si rifanno a questa tradizione, come pure la Dichiarazione delle Nazioni Unite. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato il 10 dicembre del 1948 la «legge internazionale dei diritti dell'uomo» (The International Bill of Human Rights); essa è stata più volte perfezionata, ampliata e messa in vigore nel 1978, dopo essere stata ratificata, come previsto, da almeno dieci stati. Anche noi, naturalmente, ci atterremo a questa definizione, tuttavia dobbiamo mettere in guardia dagli equivoci derivanti dalla storia di questa idea e dallo sviluppo delle nostre concezioni. Dal momento che si tratta di un diritto, per di più fondamentale e universalmente valido, esso poteva, una volta riconosciuto, essere recepito solamente in un progetto di legge (bill). La «divisione dei poteri», l'indipendenza del potere giudiziario dagli organi del governo e dal corpo legislativo, il parlamento, non lasciava nessun'altra possibilità. La struttura delle Nazioni Unite comporta che questa legge differisca in modo sostanziale dalle leggi penali o civili. Il suo effetto viene descritto nella premessa del documento ufficiale delle Nazioni Unite del 1985 non come legge, bensì come idea entusiasmante e avvincente, il cui influsso è ampio e destinato ad aumentare sempre più. «Dal momento della sua votazione, la Dichiarazione (dei diritti dell'uomo) ha esercitato in tutto il mondo un influsso che si è sviluppato ampiamente, ha ispirato leggi, costituzioni nazionali, come pure accordi su svariati, specifici diritti. La Dichiarazione non ha avuto, all'epoca della sua votazione, alcun valore di legge, ma ha esercitato da allora un forte influsso sullo sviluppo del diritto internazionale, nella nostra epoca» (United Nations, 1985, p. 1; corsivo di P.P.). Le norme di attuazione (Implementation Measures) mostranochiaramente che dipende dalla buona volontà di ogni singolo stato osservare o no quelle norme. Il comitato per i diritti dell'uomo (Human Rigbts Committee) viene definito esplicitamente come organo d'inchiesta per «l'accertamento dei fatti» (fact finding body). Resta poi da vedere quel che può accadere al di là del mero accertamento dei fatti e della loro divulgazione. Ciò nonostante «l'Assemblea generale (dell'Onu) invita in futuro tutti gli stati ad aderire alla Convenzione (1966) e all' Optional Protocol (1976) in base ai quali essa (l'Assemblea generale) ritiene di poter potenziare in modo significativo la capacità delle Nazioni Unite di promuovere il rispetto dei diritti dell'uomo* (United Nations, 1985, p. 3). Dunque fin dal principio il progetto di legge (bill) delle Nazioni Unite è stato concepito non altrimenti che come un'idea bella e auspicabile. «Nessuno o quasi contesta il principio secondo cui i diritti dell'uomo debbano essere difesi» (Lukes, 1966, p. 30). Che non possa trattarsi di una legge, risulta evidente dal fatto che non è prevista nessuna possibilità di punire le violazioni del diritto. Si suppone che ci sia un ordinamento giuridico, un ordinamento come quello presente in uno stato caratterizzato dalla divisione dei poteri e dal monopolio del potere da parte delle autorità, definito stato di diritto. Tali presupposti ideali, che possono essere presenti in singoli stati, sono stati estesi dalle Nazioni Unite, in modo incauto e senza alcuna modifica, all'ordinamento giuridico internazionale. Anche se in pratica tutta la popolazione mondiale è organizzata in stati, solo una minoranza di stati sovrani merita pienamente il titolo di stato di diritto. Gli stati in cui le autorità violano quei diritti dell'uomo che dovrebbero essere validi a livello internazionale, sono sovrani, vale a dire che sul loro territorio essi soltanto devono decidere in materia di diritto. Nessun altro stato può ingerirsi. In linea di principio, è previsto che in caso di gravi ed estese violazioni, la sovranità non possa proteggere da un intervento straniero. In effetti nel nome dei diritti dell'uomo sono stati fatti alcuni interventi (Tribunale di Norimberga, Tribunale dell'Aja per la ex Jugoslavia, Tribunale dei diritti dell'uomo nel Ruanda Burundi, etc.). Quanto poi gravi ed estese debbano essere le violazioni del diritto perché un altro stato possa o debba, rispettivamente, ingerirsi e interferire, è una questione del tutto insoluta; d'altro canto nemmeno presso le Nazioni Unite è prevista un'istituzione che possa decidere in merito a un intervento, che possa ordinarlo o condurlo. Non è difficile dimostrare che, se è vero che i crimini devono essere puniti, l'affermazione del diritto può essere imposta solo dagli stati più forti. «Il criterio decisivo (per un intervento) è il potere degli interessati, delle parti in causa, non l'entità della violazione commessa ( ... ) la probabilità di subire un intervento è molto grande per gli stati più deboli e praticamente nulla per quelli più forti. Ciò che è possibile in Somalia, non lo è in Cina. ( ... ) Una condizione simile (è) sommamente ingiusta» (Fisch, 1996, p. 26). Persino gli stati che da più tempo e con grande energia si adoperano per l'affermazione dei diritti dell'uomo, ne violano i requisiti fondamentali: gli USA, cui nessuno può contestare l'appellativo di stato di diritto, permettono che in alcuni stati della confederazione si pronuncino pene capitali e che vengano eseguite in numero sempre crescente. Si viola in tal modo il fondamentale «diritto alla vita» e non si osserva, inoltre, il divieto di comminare «pene crudeli e inumane». Si potrebbe forse obiettare che la pressione di allineamento cui viene sottoposto ogni stato aderente all'ONU, ostacola il tempestivo adeguamento del sistema giuridico nazionale alle norme dell'ONU. C'è però un'eccezione, uno «stato di diritto» di costituzione democratica, che non fa parte dell'ONU (dopo un referendum che ha sancito un netto rifiuto dell'adesione all'ONU), e che non è esposto perciò alla pressione di allineamento: la Svizzera. Ovviamente la confederazione elvetica ha aderito a singole convenzioni, nel senso di un sistema giuridico umano, modificando conseguentemente le sue leggi e procedure. Tuttavia essa infrange uno dei diritti fondamentali dell'uomo, quello della concessione dell'asilo. Il nocciolo di ogni regolamentazione del diritto d'asilo è il principio del non refoulement: vale a dire che una persona fuggita dal proprio paese perché, a causa delle sue idee, dell'appartenenza etnica, della razza, religione, etc., aveva il fondato timore di subire in patria un trattamento crudele ' la morte, la persecuzione, e non poteva godere di un corretto procedimento giudiziario, riceve asilo, e non può essere in nessun modo rimpatriata nel paese da cui è dovuta fuggire premesso che tale pericolo personale sia accertato e che sussista al momento della concessione dell'asilo. Nella regolamentazione del diritto d'asilo della Svizzera (1971) il principio del non refoulement viene espressamente citato. Tuttavia, sotto la pressione dei partiti che si oppongono all'afflusso di nuovi profughi, esso viene aggirato per mezzo di un artificio diplomatico. Il pericolo che corrono in patria coloro che chiedono asilo, viene valutato non a seconda dell'effettivo stato di pericolo dei profughi, ma a discrezione dell'amministrazione confederale. Essa si basa, nella valutazione delle condizioni dello stato in questione, sui resoconti dei diplomatici svizzeri ivi accreditati, che a loro volta sono informati dalle autorità, vale a dire dal governo e dalla polizia dello stato incriminato. Forse non il primo caso, ma senz'altro il più spettacolare, è stato quello del professor Musey, un filosofo vissuto per molti anni in Svizzera, originario dello stato illiberale dello Zaire, ai tempi del presidente Mobuto Sese Seko. Il pericolo cui era esposto il professor Musey era evidente: mentre risiedeva all'estero in Svizzera! egli aveva aderito al governo di opposizione costituitosi in esilio, come Ministro per l'Educazione e la Cultura. Minacciata di espulsione, la sua famiglia era stata nascosta per circa un anno clandestinamente da una famiglia contadina elvetica, ma una volta rintracciata, fu arrestata dalla polizia confederale, con un gran dispiego di mezzi militari, e infine con un aereo speciale messo a disposizione a tal scopo, rimpatriata nello Zaire. Da allora questa prassi si è estesa gradualmente ad altri paesi. Attualmente gli Albanesi del Kosovo sono rimpatriati in Serbia dalla polizia, coloro che si oppongono sono costretti con la forza. Il governo serbo, che dal 1990 sottopone la popolazione albanese della regione a un incessante terrore poliziesco e militare, è interlocutore e garante dinanzi al governo elvetico dell'incolumità delle persone rimpatriate. In modo analogo si procede da tempo con i profughi provenienti dallo Sri Lanka, devastato dalla guerra civile, e con i Curdi provenienti dalla Turchia che, perseguitati per motivi etnici, sono accusati di sostenere un partito fuorilegge (Pkk). A ogni modo, ciò non significa affatto che tutti coloro che corrono pericolo vengano rimpatriati. Per interi gruppi di profughi provenienti da zone di guerra, che non ricevono asilo o che non ne fanno richiesta, sono state fatte delle eccezioni. Essi «temporaneamente» non vengono respinti o rimpatriati, a seconda di quel che ritiene opportuno il governo elvetico, e per tutto il tempo che lo ritiene opportuno, oppure vengono espulsi in seguito, volontariamente o con la costrizione fisica e psichica. In altre parole: la prassi non è sempre inumana; i profughi tuttavia sono sottoposti a una prassi del tutto arbitraria, il contrario di ciò che si richiede a un ordinamento legislativo. Da oltre un anno, soprattutto dall'inizio del 1997, la Svizzera è messa di fronte alle sue responsabilità durante la seconda guerra mondiale, e viene generalmente stigmatizzato come un crimine non semplicemente come un deplorevole errore il fatto che numerosi profughi ebrei (30.000 e più), provenienti dal Terzo Reich, furono respinti alla frontiera e destinati così a morte sicura. Come circostanza attenuante si sostiene che la Svizzera, circondata dalle potenze dell'Asse, era minacciata militarmente. Ma a rendere ancora più grave la sua posizione è il fatto che la presunta necessità di respingere gli Ebrei, secondo la parola d'ordine «la barca è piena», si rivelò in seguito un inganno o un pretesto. La barca non era affatto piena. Si menziona inoltre come aggravante il fatto che la prassi di respingimento per gli Ebrei era diversa, più rigida e selettiva, secondo idee razziste, rispetto a quella dei profughi «abituali», e che i passaporti e gli altri documenti degli Ebrei, in conformità a una disposizione della diplomazia elvetica, venivano contrassegnati dal marchio «J»1: i profughi venivano dunque ostacolati anche nel tentativo di raggiungere gli altri paesi, fin dal principio cioè erano stigmatizzati e discriminati. Questo excursus storico permette di confrontare la situazione odierna dei diritti dell'uomo in Svizzera con quella dei tempi della seconda guerra mondiale. Una minaccia militare oggi non c'è. Tuttavia, rispetto ai diritti dell'uomo, non si è verificato alcun progresso, ma sono da segnalare solo alcuni cambiamenti. La selezione delle persone destinate al rimpatrio non viene fatta a seconda della razza, ma della provenienza. Nel cosiddetto modello delle tre zone, i profughi non sono accolti o respinti per la gravità del pericolo che corrono nei paesi di origine, o a seconda della loro idoneità. Decide esclusivamente la Svizzera che i profughi provenienti dai paesi confinanti e da altri paesi occidentali in stato di bisogno, sono graditi, accogliendoli con alcune limitazioni, mentre quelli provenienti dai paesi orientali e meridionali, per esempio la Jugoslavia, sono sgraditi, come gli Ebrei nella seconda guerra mondiale come allora con alcune eccezioni. Nei documenti la «J» è sostituita dal marchio «R», che sta per «retourné» o «refoulé» (rimpatriato o respinto). Proprio come un tempo, la «R» veniva applicata indipendentemente dal fatto che i motivi della fuga fossero stati esaminati oppure no, ed eventualmente si perpetrava una discriminazione d'ufficio, senza alcun riguardo per le circostanze individuali, come invece richiedono i diritti dell'uomo2. I cambiamenti sono: provenienza invece che razza, «R» invece che «J», «troppi stranieri in Svizzera», invece che pericolo di «ebraizzazione». Se durante la seconda guerra
mondiale, l'allestimento dei campi profughi non violava, a mio avviso,
i diritti dell'uomo, la costruzione di luoghi di detenzione per i profughi
destinati all'espulsione, accanto all'aeroporto di Zurigo Kloten, rappresenta
una chiara violazione del divieto di allestire strumenti di tortura o strutture
che comportino un trattamento crudele di uomini che non devono rispondere
di un alcun crimine. In effetti tali luoghi di detenzione non si differenziano
dai penitenziari; essi sono sorti per custodire, fino a nove mesi, persone
il cui unico reato è quello di non avere documenti validi a parte
il fatto che la Svizzera intende espellerli perché sono entrati
nel paese, legalmente o illegalmente. Sulla prassi di tali strutture detentive
non c'è alcuna forma di controllo, né delle sentenze giuridiche.
Osservazioni
psicoanalitiche sul problema dei diritti universali dell'uomo
È
stato affermato che i diritti universali dell'uomo sono
profondamente ancorati all'essenza dell'uomo, che l'uomo è
«buono per natura», e che soltanto l'ingiustizia della
società lo rende malvagio e cattivo (Jean Jacques Rousseau). Partendo da questa concezione, viene posto il problema
ontologico della costante «buono o cattivo», il problema
dell'Essere così, della dotazione dell'uomo, dei suoi
bagagli pulsionali. A ciò la psicoanalisi freudiana dà
una risposta chiara: tanto il comportamento amoroso (Eros), che
quello ostile al proprio simile (aggressività) sono contenuti
nel bagaglio pulsionale di ogni uomo. La costante antropologica non è
dunque «buono o cattivo», ma «buono e cattivo».
Il problema ontologico è dunque superfluo. Esso viene
sostituito dalla constatazione che la psiche, solo dopo un lungo e
complicato processo di sviluppo, produce ciò che noi
osserviamo come fenomeno: il modo in cui l'«uomo adulto»
si comporta, sente, pensa e agisce. Il problema se l'uomo sia «buono
o cattivo» è formulato spesso in maniera manichea, nel
senso di un aut aut. Tutte le «grandi» religioni e molte
scuole filosofiche hanno una risposta al riguardo. Non è
sorprendente che si cerchi continuamente di dare un giudizio etico al
comportamento adottato dinanzi ai diritti dell'uomo, e di sottoporre
questi a una morale. La psicoanalisi non è adatta a dare una
valida risposta al problema etico; ci risparmia la ricerca di un
principio morale. Essa cerca invece di esaminare nell'uomo adulto, e,
partendo da questi, nella famiglia, nella tribù, nel popolo,
vale a dire in ogni tipo di comunità umana, il risultato dello
sviluppo psichico. Cerca di scoprire, per esempio, quali strutture,
maturatesi nell'«apparato psichico» (come Freud ha
definito la vita interiore) promuovano, o al contrario riducano, una
disposizione e un comportamento conformi ai diritti universali
dell'uomo.
La
psicoanalisi non solo «non è adatta» a trovare una
risposta al problema di una legge morale (Ethos) valida o
universalmente valida; essa può dimostrare che il problema è
mal formulato. Sigmund Freud (1927) ha dimostrato a suo tempo che le
religioni, compreso l'Ethos che è loro inerente, sono
illusioni, che devono la loro origine al medesimo complesso e
inconscio processo di sviluppo da cui derivano i sintomi nevrotici; e
che da esse perciò non si può trarre alcuna legge
ragionevole. Peraltro il metodo etnopsicoanalitico ha dimostrato che
ogni sistema tradizionale di valori dell'individuo deriva
specificamente, e dunque in maniera univoca, da fenomeni storici e
sociali (Io del gruppo, coscienza del clan). Se oggi i Cinesi
dichiarano di fronte agli europei di avere dei «diritti
dell'uomo», diversi tuttavia da quelli europei, lo
psicoanalista dovrebbe obiettare: «Se si adducono argomenti di
carattere morale, senz'altro». I diritti dell'uomo, però,
sono qualcosa di diverso da un principio etico. Almeno in due
fondamentali sistemi di valori della sua cultura (cinese), il
marxismo e la dottrina dell'armonia di Confucio, si può
dimostrare che i diritti universali dell'uomo sono senz'altro
presenti come elementi costitutivi.
La
mia esposizione non può che essere sintetica e dunque
superficiale. Asserzioni certe e verificabili sono possibili nella
psicoanalisi solo attraverso singole analisi, lunghe e complesse. Se
si vogliono trarre da essa leggi generali sui processi interiori, le
affermazioni diventano ipotetiche, si avvicinano, per così
dire, a una filosofia psicologica speculativa. Nel suo fondamentale
lavoro di critica della cultura, «Il disagio della civiltà»
(1930), Sigmund Freud ha preso le mosse da un'ipotesi evidente dal
punto di vista fenomenologico, ma poco espressiva, e cioè che
la psiche si sviluppa in modo da rendere possibile la convivenza
degli uomini. Ciò nonostante, cercherò almeno di
illustrare in che modo la psicoanalisi si accosti criticamente al
problema dei diritti dell'uomo. Seguirò a tal scopo il modello
«strutturale» della «metapsicologia», mi
chiederò dunque in che modo si debba analizzare ognuna delle
tre istanze, l'Io, il Super io e l'Es, per spiegare la
particolare disposizione dinanzi ai diritti universali dell'uomo.
I
bagagli pulsionali non sono accessibili come tali; i bisogni
pulsionali derivano dall'Es, che la psicoanalisi ha in primo luogo
equiparato all'Inconscio. Essi devono essere esaminati indirettamente
dal loro sviluppo, dai destini delle pulsioni. Resta tuttavia
l'impressione che i bagagli pulsionali presentino poche differenze, e
che, per esempio, non trovi conferma il detto popolare secondo cui i
criminali, i cosiddetti «assassini passionali», sono
persone che mostrano fin dalla nascita un eccesso di energia
pulsionale aggressiva. Lo sviluppo psichico, che è
caratterizzato da un andamento fasico nelle crisi epigenetiche (René
A. Spitz), può determinare tuttavia una tendenza duratura a
mete pulsionali aggressive o crudeli (fissazione). Eccessive
frustrazioni nella fase di separazione del bambino piccolo dalla
madre, durante il conflitto edipico e soprattutto nell'adolescenza,
possono far sì che le pulsioni erotiche si indirizzino
prevalentemente sul proprio Sé, e che le persone di
riferimento siano avvicinate non per il soddisfacimento di fini
erotici, bensì prevalentemente per il soddisfacimento di
pulsioni crudeli (sadiche). In effetti nelle persone che tendono a
violazioni particolarmente ripugnanti dei diritti universali
dell'uomo, sono stati spesso riscontrati tali disturbi «narcisistici»
della personalità. Tuttavia il fatto che si arrivi davvero a
un'efferata violazione dei diritti universali dell'uomo non è
da ascrivere, per quanto riguarda le cause, alla sola fissazione
narcisistica. Questa è piuttosto una di una serie
complementare di fattori: modelli particolari, personalità di
leader e ideologie aggressive, come pure un ambiente (sociale) in
grado di scatenare angoscia e furore inerme, fanno sì che i
«caratteri narcisistici» diventino colpevoli e violino
regole e norme di valori universalmente valide.
Al
Super io viene ascritta la funzione di rappresentare
l'istanza che, nel corso dello sviluppo psichico, fa sì che si
stabilisca una potente voce interiore, la quale a sua volta fa in
modo che i valori eterni, trasmessi dalla tradizione, diventino
principi regolatori del comportamento. Il Super io si manifesta
attraverso le leggi e i divieti interiori; quando le sue richieste
sono ignorate, nasce il senso di colpa. Per questo motivo, esso viene
equiparato alla coscienza. Coloro che violano i diritti universali
dell'uomo, si afferma, non hanno una coscienza oppure hanno una
coscienza difettosa. Lo sviluppo interiore avrebbe fallito nella
formazione del Super io. Si è supposto anzi che non tutti
i tipi di socializzazione, nei vari popoli o strutture sociali,
portino alla formazione dell'istanza del «Super io».
Quest'ultima obiezione non è però convincente. Non sono
quasi conosciuti modelli tradizionali di socializzazione che
risparmino agli adolescenti la formazione dell'istanza del Super io
o che la rendano impossibile. Uomini «senza coscienza»
non ci sono in nessuna cultura. Al contrario, esistono forme di
Super io che trasmettono sistemi di valori e norme di
comportamento completamente diversi da quelli che sarebbero necessari
per il rispetto dei diritti universali dell'uomo. Nelle caste di
guerrieri per esempio si trasmettono concezioni di valori che
contraddicono quelle dei diritti universali dell'uomo; lo stesso vale
per i maschi allevati in una cultura del machismo (patriarcale).
D'altro canto anche un Super io troppo rigido, al servizio di
una morale cristiana radicale o di un'altra «buona causa»,
come per i comunisti fanatici, può motivare la persona a
violare i diritti dell'uomo. L'Io si pone al servizio del «buon»
fine. I riformatori fanatici possono ben diventare assassini.
Come
contro altre istanze interiori, si possono stabilire meccanismi di
difesa dalle richieste del Super io, che le rendano
temporaneamente o definitivamente inefficaci, così da far
tacere il senso di colpa. L'esempio più noto è quello
della formazione del soldato. In tutti gli stati che dispongono di
forze armate, le reclute sono formate, sul finire dell'adolescenza, a
violare, in determinate circostanze, il comandamento universale di
«Non uccidere». La formazione del soldato viene fatta
attraverso processi di apprendimento (disciplina, rigido
addestramento) e attraverso l'identificazione con ideologie o con i
loro esponenti, leader, ufficiali, e così via. La difesa dalle
richieste del Super io è così efficace che la
maggior parte dei soldati in quasi tutte le guerre erano (e sono)
convinti di combattere per una giusta causa e uccidono i nemici senza
sensi di colpa. Per gli assassini di Keraterm, è presumibile
che l'indottrinamento da parte della direzione politica e militare
abbia avuto un ruolo molto importante, e che la disciplina non sia
stata imposta attraverso l'apprendimento e il rigido addestramento,
come accade generalmente nella formazione del soldato. In questo
contesto si sono rivelati, quali fattori psicologici di immediata
efficacia, l'identificazione con i comandanti subalterni e la
pressione di gruppo, nelle comunità cospiratrici di
combattenti e criminali. Nelle bande delle cosiddette truppe
paramilitari, il Super io dei membri viene ampiamente sostituito
dall'identificazione con i capi e i gregari criminali, i quali, a
loro volta, si difendono dalle richieste del Super io aderendo
al piano criminale della direzione suprema e alla sua esasperata
ideologia nazionalistica. Naturalmente la paura e la minaccia da
parte dei propri camerati e capi sono molto importanti negli
assassinii «barbari ed efferati». Le confessioni che
talvolta vengono rese in seguito, magari dopo anni, come è
accaduto, per esempio, in Argentina, da parte di ufficiali che
avevano torturato, lasciano supporre che il Super-io di questi
assassini era stato soltanto reso inattivo, non completamente
annientato. Passata la paura, caduta la pressione di gruppo,
svalutati il capo (il generale) e l'ideologia allora dominante,
sembra che talvolta affiorino in alcuni assassini il senso di colpa e
il bisogno di confessare ed espiare i propri crimini, secondo le
richieste del Super io.
All'Io,
la struttura cui la psicoanalisi attribuisce (accanto ad altre
funzioni) quella di mediare tra l'Es, il Super io e il mondo
esterno reale, spetta il compito principale nel determinare il
rispetto o la violazione dei diritti universali dell'uomo. Come
«organo» di adattamento tra esterno e interno, l'io
fallisce, se tale accordo viene attuato a spese dell'adattamento alle
note richieste di rispetto dei diritti universali dell'uomo. In altre
parole, non le tre strutture, ma l'accordo ottimale tra esse
determina il comportamento e l'atteggiamento emotivo e spirituale.
Purtroppo dalle conoscenze psicoanalitiche non è possibile
trarre alcun modello generale di sviluppo che porti alla formazione
di un Io «buono», invece che di un Io forte, dominante;
di conseguenza non esiste un modello di educazione o istruzioni
pedagogiche particolari da seguire. Si arriva anzi alla paradossale
constatazione che le condizioni giuste per lo sviluppo psichico
sarebbero date solo se tutti gli educatori, tutto l'ambiente umano
del bambino, si fossero già sviluppati in tali ipotetiche
«giuste» condizioni. In realtà ogni tipo di
socializzazione, o quasi, può dare inizio a una formazione
psichica che porterà a un comportamento sociale accettabile.
«Saremmo buoni e non malvagi/ ma all'atto pratico
facciamo stragi!» (Bertolt Brecht3) .
Di
tanto in tanto sono apparse personalità il cui spirito ed
energia sono stati posti completamente al servizio dei diritti
dell'uomo (Gandhi, Tolstoj), quasi che su di un'unica persona si
fosse concentrato il compito della cultura di onorare e affermare i
valori del diritto dell'uomo. Questo sembra indicare che una forma di
consapevolezza dei diritti dell'uomo è presente in maniera
latente anche in culture in cui essa non si è finora
manifestata; nelle osservazioni etnologiche ritornerò sul
problema della validità universale dei diritti dell'uomo.
Sappiamo che anche gli scopi più puri ed elevati dei
riformatori del mondo non offrono garanzie che questi al
servizio della buona causa non commettano a loro volta dei
delitti, una volta raggiunte delle posizioni politiche di potere. Osservazioni
etnologiche sul problema dei diritti universali dell'uomo
L'assunto
di fondo dell'etnologia (anthropology) è che l'uomo è
un essere sociale. Tutte le culture (cultures) studiate
dall'etologia, per quanto si differenzino nello spazio e nel tempo,
si fondano sulla capacità dell'uomo di organizzare e regolare
la convivenza con i propri simili. Diverse ipotesi fanno derivare lo
sviluppo del genere umano, la sua evoluzione e separazione dalle
grandi scimmie (i primati) da una fase determinata dell'evoluzione:
l'andatura eretta, l'uso di utensili, l'acquisizione del linguaggio,
e altro ancora. A me sembra che il momento decisivo dell'evoluzione
che ha portato alla formazione dell'essere umano consista nel fatto
che la convivenza con i propri simili è stata determinata non
dall'istinto e dalla sua configurazione (provocata da stimoli,
imprinting, processi di apprendimento, etc.), bensì da
tradizioni culturali, per lo più trasmesse e modificate,
rispettivamente, per mezzo di sistemi simbolici, e adattate alle
condizioni naturali. Naturalmente l'uomo non può produrre
niente se gli manca la dotazione genetica. La molteplicità
delle più diverse strutture sociali (cultures)
testimonia della capacità di adattamento dell'uomo alle
condizioni climatiche, geografiche, etc. D'altro canto nelle più
diverse culture sviluppatesi nella storia sono documentabili modelli
di comportamento (patterns of culture) analoghi o persino
simili, che si possono, a mio avviso, mettere in evidenza
analiticamente nella molteplicità di situazioni, compiti,
istituzioni e tradizioni.
La
mia tesi è che i diritti universali dell'uomo, in quanto
presupposto e compito della vita nella società (gruppo), sono ubiquitari, vale a dire che essi sono presenti in nuce e
documentabili ovunque. Al primo e anche al secondo sguardo non lo si
supporrebbe. Al contrario. Tutte le culture che oggi conosciamo sono
organizzate in maniera da assicurare gli adattamenti all'ambiente
naturale e a quello umano circostante. Se così non fosse, esse
sarebbero da tempo scomparse, come per esempio gli Etruschi, che
hanno lasciato ricche tracce della loro cultura, o i Celti in Europa,
o i Telem nella regione del Dogon (Mali), le cui tombe sono le esigue
testimonianze rimaste di culture «tramontate». Ogni
giorno siamo testimoni del fatto che interi popoli, con il proprio
territorio, la propria lingua e le proprie specifiche istituzioni,
perdono la propria natura; alcuni popoli si estinguono fisicamente,
altri si disperdono in popoli più forti nella capacità
di sopravvivenza, altri ancora lasciano esigue testimonianze, per
esempio modificando in parte le istituzioni tradizionali dei popoli
che li hanno sottomessi, assorbiti, o che sono loro subentrati.
Sembra quasi che tutti quei popoli che si sono dimostrati vitali e
ben delimitati, si comportino come se ignorassero i diritti
universali dell'uomo, figurarsi poi se li rispettano. Tali popoli
sono paragonati all'egoista che impone i propri interessi in maniera
«utilitaristica» contro gli altri, senza tenere alcun
conto dei propri congiunti, vicini o amici. La regola di Darwin con
cui si spiega lo sviluppo evoluzionistico delle specie animali, fino
alla varietà differenziata, the survival of the fittest,
è stata estesa alla vita sociale, riadattata e riorganizzata
nella teoria del darwinismo sociale. In questa ideologia, che
riprende la teoria dell'evoluzione per lo più con la formula
erroneamente tradotta della «sopravvivenza del più
forte» sono riassunti spiegazioni e modelli di
legittimazione che a un'osservazione superficiale mostrano una certa
evidenza. Se tuttavia le istituzioni e i modelli spiegati con il
darwinismo sociale si esaminano in maniera più approfondita,
si nota che essi mancano di quel valore chiarificatore che ha,
invece, la teoria biologica dell'evoluzione. Si ha la netta
impressione che tale ideologia non abbia altro scopo che quello di
legittimare i fenomeni sociali che violano i diritti universali
dell'uomo. A che scopo, mi chiedo, tale dispendio di propaganda,
demagogia e falsificazione, se i diritti universali dell'uomo non
avessero un peso nell'organizzazione della vita sociale?
Nell'ambito
di questo contributo non è possibile analizzare, sotto questo
aspetto, le istituzioni di tutte le strutture sociali del presente e
del passato, per stabilire se in esse sia documentabile, in maniera
esplicita o implicita, l'azione dei diritti universali dell'uomo. La
mia tesi potrebbe essere dimostrata solo con un'esposizione completa
e sistematica. Con i seguenti esempi, non voglio dimostrare nulla, ma
mostrare semplicemente delle istituzioni particolarmente evidenti,
che possono essere esaminate alla luce di due opposte tendenze: una
che induce al rispetto dei diritti dell'uomo, l'altra che invece li
delimita, li disconosce o sopprime. Questo metodo si può
definire dialettico. Bisogna accettare il fatto che gli esempi scelti
saranno illustrati al di fuori del loro contesto storico o di altra
natura, estrapolati per così dire dal contesto culturale, e
raggruppati solo in relazione a un determinato diritto dell'uomo,
valido a livello universale.
Una
corrente di ricerca etnologica classifica tutte le culture conosciute
secondo il rapporto che esse hanno con l'idea di giustizia. Questo
procedimento può essere utile a inquadrare in un ordine
sistematico tutte le culture finora descritte; tale procedimento è
simile a quello che intendo seguire. Si considera un'idea immanente,
l'idea di giustizia, senza esaminarne all'inizio l'origine, la
formazione, lo scopo e la dinamica. Il diritto alla vita sembra
essere riconosciuto in tutte le culture. Dare la morte può
essere ammesso solo in condizioni particolari. Là dove si è
sviluppato il diritto penale, soltanto questo ha il privilegio di
dare la morte per l'espiazione di un delitto. Sigmund Freud (1913) ha
fatto notare a suo tempo che la condanna capitale pronunziata da un
tribunale consente di soddisfare il bisogno di vendetta della
società. Nelle culture che non conoscono il diritto penale, ma
la «giustizia distributiva», come ad esempio presso gli Akan, popoli dell'Africa occidentale, l'omicidio volontario o
l'assassinio deve essere in qualche modo risarcito ai parenti
dell'ucciso, la perdita deve essere pareggiata. L'entità del
risarcimento non dipende dai motivi dell'assassinio, ma viene
stabilita da coloro che hanno subito la perdita, dalla gravità
che le attribuiscono, da quanto ne debbano soffrire. Gli stessi
popoli Akan (e molti altri) attribuiscono ogni morte violenta, ma
anche i casi di morte per vecchiaia e malattia, quasi senza
eccezione, alla magia nera e a influssi immateriali negativi, che
provengono dai vivi (streghe, maghi) o dagli spiriti dei defunti.
Perciò le violazioni del diritto alla vita sono sottoposte a
un sistema che, in linea di principio, permette delle contromisure
(magia bianca, e così via).
La
molteplicità delle cerimonie e procedure di purificazione in
tutte, o quasi tutte, le culture mostra che coloro che hanno ucciso,
per poter tornare a vivere tra i propri simili, devono essere
ritrasformati in «veri e propri» membri della società.
È noto che nei popoli «animistici», con sistemi
magici di pensiero, ogni uccisione, anche quella delle prede, persino
quella degli alberi, richiede una riparazione, una purificazione. Là
dove sviluppati ordinamenti giuridici e leggi di guerra che regolano
il diritto di dare la morte, sembrano rendere superfluo il principio
cardine dei diritti universali dell'uomo, il diritto alla vita, resta
comunque la stigmatizzazione di colui che dà la morte: si
pensi ad esempio alla condizione di proscritto del boia. Tutte le
religioni hanno istituzioni che hanno il compito di trattare
l'ingiustizia della soppressione della vita: suppliche per ricevere
il perdono o la grazia, classificazione secondo un principio
superiore che dia legittimazione (crociate contro i pagani, caccia
alle streghe, agli eretici, e così via) e infine i più
svariati dogmi per poter attribuire l'omicidio al volere di Dio, al
destino predeterminato (Kismet), alla vendetta degli dei o ad altre
istanze indipendenti dall'uomo che dà la morte. Persino il
rapporto più illuminato con la morte reca le tracce di una
magia che deve mitigare l'oltraggio dell'uccidere. Anche tra noi è
valido il detto: «De mortuis nil nisi bene».
L'istituzione di duelli tra maschi è presente in molte
culture tradizionali. Quali possano essere i fondamenti ideologici
l'imposizione di un ordine gerarchico, il concetto di onore e di
offesa all'onore essi sono, senza alcuna eccezione,
rigidamente ritualizzati: dal duello cavalleresco, al duello degli
stati cristiani dell'età moderna fino ai combattimenti
sportivi di pugilato dei nostri tempi. L'interpretazione psicologica
era che la società metteva a disposizione dell'inevitabile
aggressività e rivalità dei giovani maschi della stessa
cultura, ceto o subcultura, un sistema di regole che ne consentisse
lo sfogo. Tutti i rituali, pur nella loro varietà, dispongono
di regole «leali» che devono impedire, possibilmente,
l'assassinio dell'avversario.
Sebbene
non mi addentri in questo contributo nei conflitti tra stati che
danno luogo al diritto internazionale o al diritto di guerra,
desidero menzionare una forma di guerra fra tribù confinanti,
le guerre finte, mock battles, un'istituzione delle tribù
montane che vivono nelle vallate dell'altopiano della Papua Nuova
Guinea. Con un ritmo determinato dai rituali si svolgono delle vere e
proprie guerre concordate. I giovani vengono agghindati, armati di
armi da guerra e preparati spiritualmente al combattimento. Le
battaglie sono combattute con forza e astuzia. Appena però un
guerriero viene ucciso o gravemente ferito, la guerra si interrompe.
Entrambe le parti si ritirano e piangono lo spargimento di sangue
finché non arriva il momento di combattere un'altra battaglia.
Né
i conflitti per il possesso del territorio, di beni o donne, né
altri conflitti di interessi, sembrano provocare le guerre finte. Si
tratta piuttosto di prestigio, di autorappresentazione e
dell'esercizio della forza di combattimento. In ogni caso viene
garantito periodicamente lo sfogo dell'aggressività dei
giovani maschi. Il rispetto della regola di risparmiare la vita, il
diritto universale dell'uomo alla vita, sembra affermarsi nonostante
il pieno scatenamento della combattività e del coraggio. I Jivaro, una tribù della foresta vergine
dell'Amazzonia
peruviana, sono «cacciatori di teste». Il loro chiuso
mondo di regole magiche è così lontano per noi che non
corriamo il pericolo di giudicare il loro comportamento secondo la
nostra morale eurocentrica. Per diventare adulti, gli adolescenti dei
Jivaro devono uccidere un uomo di un popolo confinante e portarne via
la testa. Quanto più in vista e ricca di esperienza è
la vittima, tanto più la sua testa giova al cacciatore che
riesca nell'intento; perciò la testa di un anziano è il
bersaglio più ambito di un assassino rituale. L'età
adulta non può essere raggiunta in nessun modo senza il trofeo
della testa cacciata. Tuttavia sono previste delle eccezioni alla
regola, se all'adolescente ripugna uccidere un anziano innocente,
oppure se delle considerazioni di carattere politico inducono i
Jivaro a evitare provocazioni al popolo confinante con cui
commerciano. L'adolescente può uccidere, invece che un
anziano, un bradipo, una preda che si può cacciare senza
problemi. La testa del bradipo sostituisce perfettamente il potere
magico di un anziano: perché? Perché il bradipo si
muove lentamente e con circospezione, come un anziano dotato di molta
esperienza. Il diritto universale dell'uomo alla vita si manifesta
proprio là dove una coerente, specifica istituzione considera
la caccia delle teste come un elemento imprescindibile della propria
cultura (cfr. Harner, 1973).
Maltrattamenti
crudeli che violano il diritto all'integrità del corpo
rivelano, quali possano esserne le motivazioni, l'intento di
conservare o rafforzare l'integrità della propria società.
Un tipo di maltrattamenti viene compiuto direttamente per assicurare
in maniera drastica l'appartenenza, la coesione e la delimitazione
rispetto ad altri individui che si trovano al di fuori della
struttura sociale desiderata: si pensi alla circoncisione degli Ebrei
e Maomettani, alle mutilazioni e produzioni di cicatrici, soprattutto
nei rituali di iniziazione, per sancire la definitiva appartenenza a
un determinato gruppo (tribù, etc.). Là dove la
mutilazione, in quanto operazione crudele, riguarda solo la sfera
sessuale delle donne e ragazze, si vuole confermare e consolidare,
attraverso l'appartenenza al gruppo, un ordine sociale riconosciuto
come l'unico umano e giusto (il dominio degli uomini sulle donne). La
rigida regolamentazione rituale reca già in sé
l'indicazione che una cosa del genere non può accadere in
nessun modo al di fuori di quell'ordine umano. Nei paesi in cui gli
organi di stato torturano per estorcere confessioni, ciò viene
fatto sempre per impedire qualcosa di «peggio».
L'intenzione di atterrire gli oppositori è destinata sempre a
scontrarsi con le misure adottate per tenere nascosti o negare i
misfatti più gravi. I torturatori non potranno mai liberarsi
del proprio marchio di infamia, quasi siano consapevoli di aver
violato un diritto fondamentale dell'uomo. Anche il politico francese
Le Pen, che pure ha riscosso molti successi, non potrà mai
liberarsi del marchio di infamia, per aver torturato durante la
guerra in Algeria, per conto e disposizione delle forze armate
francesi. La polizia turca che tortura i criminali e gli esponenti
del popolo curdo, fa questo con la giustificazione che solo questo
mezzo possa recare pace e sicurezza a tutto il popolo. Si tortura
sempre al servizio di una «giusta causa». Ma a dispetto
del grande dispiego di propaganda, menzogne, rinnegamento, i conti
non tornano. Accanto a tutte le azioni raccapriccianti compiute dalla
crudeltà delle istituzioni, resta pur sempre qualcosa, quasi
«sapessero ciò che fanno»: nella prassi più
brutale è presente la consapevolezza di aver violato un
diritto fondamentale.
Devo
esprimermi più concisamente e menzionerò soltanto
singoli fenomeni che ho scelto arbitrariamente, in cui si rivela
senz'altro il diritto dell'uomo che è alla loro base,
nonostante la sua apparente violazione; il tessuto sociale è
per così dire trasparente, e lascia Le
limitazioni, o persino la soppressione totale, del diritto
all'autodeterminazione dei popoli assoggettati militarmente,
politicamente e/o economicamente, costituiscono eventi ridondanti
della politica del ventesimo secolo, che ha inventato nuovi sistemi
giuridici legittimandoli «scientificamente» o
storicamente (per esempio con le teorie razziali), i quali, accanto
agli scopi economici e «utilitaristici», sono rivolti, in
tutta la varietà dei loro mezzi, contro un unico comune
avversario: il diritto universale dell'uomo
all'autodeterminazione. Vorrei citare un esempio famoso, quello
della Turchia dell'Asia Minore, ricostruzione dell'impero ottomano
ormai obsoleto: gli Armeni dovevano essere fisicamente sterminati
(1915) perché restasse soltanto il popolo dei Turchi e
l'autodeterminazione potesse diventare tautologia. I popoli curdi
furono soppressi a livello semantico come popolo (con le proprie
lingue, tradizioni, etc.) e chiamati Turchi delle montagne;
attualmente essi sono sottoposti a un gran dispiego di misure, che
hanno motivazioni giuridiche, militari e politiche, volte a impedire
l'autodeterminazione del popolo e degli individui. Tutto ciò
si può dedurre, nella maniera più immediata, da quei
meccanismi di repressione che non lasciano
L'abolizione
della schiavitù, nella forma che ha assunto nell'età
moderna, è considerata a ragione una delle tappe più
importanti del progresso della civiltà. Il divieto della
schiavitù fu ascritto, al di là dei mutamenti economici
in atto (lo sviluppo industriale), all'influsso morale
dell'Illuminismo (guerra civile americana) e alla dottrina religiosa
protestante in esso confluita (movimento abolizionista). Il processo
dell'abolizione dello schiavismo e della tratta degli schiavi non si
è ancora concluso: la liberazione degli schiavi si deve
affermare nel mondo intero attraverso la pressione politica ed
economica. Nei luoghi e nelle epoche in cui lo schiavismo sembrava
essere un fenomeno indiscusso e naturale, bisogna tuttavia
riconoscere che la schiavitù mostrava alcuni elementi del
diritto all'autodeterminazione. Nelle forme così diverse della
servitù della gleba (dai servi della gleba contadini in Europa
e nell'impero zarista fino ai captifs dei nomadi del Sahara)
sono sempre stati previsti cambiamenti di stato validi a livello
giuridico (liberazione e simili) che consentono agli schiavi
l'indipendenza. Là dove, cosa abbastanza frequente, lo status
di servo della gleba si mescola a forme di reciproca dipendenza,
sulla base del diritto di famiglia, il diritto di disporre della
propria persona prevale sulla dipendenza familiare, da cui, com'è
noto, ci si può liberare solo attraverso cambiamenti
nell'organizzazione familiare (il matrimonio). La tratta degli
schiavi per il mercato caraibico e americano si basava sulla
collaborazione con i cacciatori di schiavi, e costituiva un settore
economico dei popoli della costa dell'Africa occidentale, che
venivano pagati per le loro consegne. Gli Ashanti e altri popoli Akan
consideravano i prigionieri neri una merce, una mercanzia priva di
propri diritti. Con un'unica eccezione. I prigionieri dovevano spesso
attendere, nelle mani dei loro rapitori lungo la Costa d'Avorio,
l'arrivo della nave successiva che li avrebbe portati, nella misura
in cui sopravvivevano, ai loro compratori in America. In quel periodo
i loro temporanei padroni non potevano disporre della loro forza
lavoro. Gli Ashanti li avrebbero utilizzati volentieri come
lavoratori nelle loro piantagioni o come schiavi domestici. Il
rispetto dell'autodeterminazione al fine dell'autoconservazione
ammetteva una sola possibilità di conservare l'interesse di
entrambe le parti, l'autodeterminazione dello schiavo e lo schiavista
come datore di lavoro. Lo schiavo/la schiava doveva essere accolto
attraverso il matrimonio nell'organizzazione familiare. Se ciò
accadeva, il problema era risolto per entrambe le parti del deal:
liberi congiunti, imparentati dal matrimonio, mettevano senza
alcuna limitazione la propria forza lavoro a disposizione
dell'organizzazione familiare, che ora era divenuta la propria.
Il
diritto di ogni bambino a un sano sviluppo, così come
viene stabilito nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo,
corrisponde perfettamente nella sua interpretazione all'attuale
modello degli stati «sviluppati» (divieto del lavoro
minorile, diritto all'istruzione elementare gratuita). La «pedagogia
nera» è caduta in discredito solo da poco tempo nella
nostra cultura, e non è scomparsa dalla prassi. Nell'oscura
preistoria dei «primitivi» dai tropici agli Inuit, gli
Eschimesi dell'Artico canadese non esistono etnie prive di
istituzioni che definiscano questo diritto o per lo meno ne lascino
intuire l'azione. Nei riti iniziatici di ogni tipo, i diritti dei
bambini e le corrispondenti cure della famiglia o società,
sono nettamente distinti dai diritti riconosciuti ai figli che
entrano gradualmente nella condizione di adulti. In non poche
culture, per esempio presso i Maya in Messico, viene stabilito il
diritto del bambino ancor prima della nascita, attraverso una serie
di norme, stabilite da specifici rituali della vita quotidiana delle
gestanti; dopo la nascita è prevista la, pausa per
l'allattamento e per le cure che la madre deve prestare al lattante.
Nel moderno stato del Messico l'insegnamento elementare non è
affatto accessibile a tutti i bambini; i bambini maya che vivono
nelle zone della foresta tropicale crescono, per la maggior parte,
senza una formazione scolastica. Dato che i bambini non sono in grado
di costituire un pressure group e la società avverte
solo in maniera indiretta gli effetti della scarsa considerazione dei
loro diritti, bisogna supporre che il diritto universale del bambino
si affermi là dove gli «illuminati» diritti
dell'uomo non sono affatto conosciuti. (In Svizzera non è
stata ancora introdotta, per motivi politici ed economici, una
assicurazione per la maternità).
Infine
nella mia enumerazione tratterò dei diritti dell'uomo che sono
al centro del dibattito politico degli stati europei occidentali e
degli Usa: la maniera di accogliere lo «straniero»,
l'ospite, il profugo, l'immigrato, uomini che per la loro origine
«non fanno parte del paese», è prevista nel
diritto universale dell'uomo. Non conosco nessun popolo che non
sappia distinguere tra stranieri e propri membri. Diversi popoli
denominano i propri membri con la parola che significa persona
(lingue bantu) o uomo (inglese). Ciò non significa affatto che
gli altri siano considerati a priori nemici, esseri inumani o
non umani. Esistono infine varianti di modelli culturali che
stabiliscono da una parte il diritto dello straniero all'ospitalità
e dall'altra le regole per poter accogliere, «integrare»
gli stranieri nella comunità. Le regole morali che dovremmo
seguire secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ci giungono,
per così dire, troppo tardi storicamente, sono state superate
in termini utilitaristici. Lo straniero pacifico viene rispettato
perché è un ospite (diritto di ospitalità),
contro l'interesse economico. (In Svizzera l'industria del turismo ha
assorbito e scalzato l'istituto dell'ospitalità che si era
sviluppato per tradizione nelle zone alpine, come in tutte le regioni
particolarmente inospitali). Il diritto d'asilo, nella prassi, è
presente in nuce presso molti popoli, anche quando si espongono in
tal modo a dei pericoli o ne ricavano svantaggi. Molto prima della
fondazione degli stati nazionali, quando si ignoravano del tutto i
concetti del diritto internazionale di sovranità e di trattato
internazionale, sono sorte istituzioni che garantivano una pacifica
convivenza con i vicini. I Dogon, un popolo di agricoltori, sono
legati al popolo di pescatori dei Bozo, sul Niger, da una durevole
amicizia attraverso la nota «parentela per scherzo»
(parenté à plaisanterie). Anche altri popoli
dell'Africa occidentale hanno simili istituzioni. I Trobriander, i
famosi «Argonauti del Pacifico», hanno una pace duratura
con i popoli insulari limitrofi grazie al Kula, un rituale di baratto
descritto da Malinowski, e sono attualmente sul punto di sostituire
in parte questo rituale con una sorta di campionato di calcio (cfr.
Maier, 1996).
La
discussione sfiora a questo punto problemi di diritto internazionale,
il quale può basarsi solo sul diritto universale degli
individui, allo stesso modo che questo può essere rispettato
solo attraverso l'adozione del diritto internazionale. Nonostante
siano strettamente connessi, non posso addentrarmi nei problemi del
diritto internazionale. Essi sono troppo distanti dal punto di vista
dell'etnologia, e devono essere analizzati piuttosto dal punto di
vista delle scienze politiche e della filosofia del diritto.
Cerco
di riassumere i concetti che emergono allorché
si considerano l'analisi psicoanalitica e quella etnologica. Si
devono menzionare allora quelle forze che sono indirizzate contro
il rispetto dei diritti universali dell'uomo, che ne impediscono
o ne ostacolano il rispetto o anche solo la percezione, che ne
determinano la scomparsa in maniera così notevole che si può
parlare della invisibility dei diritti dell'uomo
analogamente all'espressione invisibility of women, con cui
viene definita la scomparsa delle donne dalla ricerca etnologica. La
II Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1793) dei Giacobini
che prometteva «uguaglianza, libertà, sicurezza e
proprietà», ebbe per molto tempo una cattiva fama.
Secondo questa, il principio egualitario, l'uguaglianza prima
della libertà, avrebbe tradito una concezione etico
volontaristica che recava in sé la minaccia di un
governo del terrore. In seguito il diritto dell'uomo si sarebbe
trasformato col bolscevismo in necessità rivoluzionaria.
Recentemente gli storici hanno dimostrato che si era inteso non un
egualitarismo livellatore, bensì la parità di diritti
di tutti i cittadini e cittadine (cfr. Gross, 1997). L'errore
storico è stato da tempo corretto. La stessa libertà,
gli stessi diritti per tutti significherebbero soltanto che i diritti
dell'«altro» devono essere considerati alla stessa
stregua dei propri. Con questa indispensabile, realistica
limitazione, i diritti dell'uomo avrebbero dovuto rivendicare una
valenza universale. La loro fama tuttavia non migliorò, ma
divenne qualcosa di diverso: i diritti dell'uomo sarebbero
espressione di un pensiero ingenuo, irrealistico utopistico.
Può
sembrare ingenuo anche il mio tentativo di dimostrare, partendo da un
procedimento analitico, scelto in maniera arbitraria, i valori del
diritto universale dell'uomo là dove, a una visione
distaccata, sembrano essere assenti. Il «sano buon senso»
può senz'altro accettare i diritti dell'uomo come un'esigenza
morale e troverà degni di ascolto la Carta delle Nazioni Unite
e i principi del Consiglio Europeo. Resta però un mistero chi
e in che modo possa imporre e garantire l'osservanza dei diritti
universali dell'uomo. Al contrario è possibilissimo menzionare
quelle forze che in ogni struttura sociale, in pace come in guerra,
si oppongono all'applicazione dei «bei» principi. Intendo
le istanze che determinano ogni tipo di convivenza, non solo la forma
particolare di organizzazione e le costituzioni statali. Sono
interessi di potere, spesso dotati del monopolio delle forze
militari, di polizia e di altro tipo ancora. Essi sono spesso al
servizio di interessi economici, quando non coincidono
completamente con essi. Dato che l'economia di regola non dispone di
un proprio apparato di potere, può procedere senza scrupoli,
dunque in maniera «immorale», essendo intrinsecamente
connessa al potere statale. Nell'economia del «libero mercato»
l'applicazione dei principi del Fondo Monetario Internazionale è
garantita fino a quando la polizia e le forze militari degli stati
che si fanno «risanare» l'economia, domano la popolazione
insoddisfatta c/o sofferente. Un'azione materialmente non così
evidente, ma senz'altro rilevante contro l'applicazione dei diritti
dell'uomo, è esercitata da quelle idee che determinano il
comportamento politico e sociale dei membri di una nazione o di
un'altra comunità. Sono ideologie nazionalistiche e
religiose, soprattutto quelle che vengono diffuse da una
religione di stato o da una chiesa, così da conseguire il
consenso della maggioranza. Confluiscono entrambe le une nelle altre,
non solo in uno stato teocratico. Le convinzioni nazionalistiche e
religiose sono inseparabili quando si parla di popoli eletti, di
grande nazione, dei Tedeschi dello stato hitleriano, degli
Ebrei, degli Sciiti iraniani, o delle nazioni che hanno elaborato per
sé la pretesa della santità e dunque una innata
superiorità sugli altri popoli (Serbi).
Interessi
di potere, interessi economici, ideologie nazionali e religiose, li
riassumo col termine di «forze», a significare che il
loro influsso contro il rispetto dei diritti universali dell'uomo e
la loro applicazione, è chiaramente documentabile. In tempo di
pace si formano sempre movimenti che si oppongono alle «forze»
tradizionali, organizzate nelle istituzioni. Alcuni sono orientati in
senso transnazionale, come i movimenti di emancipazione femminile
contro l'ideologia e l'istituzionalizzazione del patriarcato, altri
lottano per un cambiamento all'interno di determinate istituzioni: il
movimento per l'apertura della chiesa cattolica come chiesa del
popolo o le correnti tolleranti dell'Islam; e naturalmente tutte le
diverse aspirazioni socialiste, che si adoperano per il miglioramento
dell'ordine economico capitalistico, per esempio per un'economia
sociale di mercato, a prescindere da coloro che vogliono invece
sostituire nella lotta di classe l'ordine capitalistico, (o
monetario) con un altro, del tutto diverso. Poiché tutti
questi movimenti possono tutt'al più avere successo solo a
lunga scadenza, ci si dovrebbe attendere che in tempo di guerra,
quando cioè sono note violazioni gravissime dei diritti
dell'uomo, si verifichino progressi più rapidi e significativi
nell'applicazione dei diritti dell'uomo. Com'è noto,
l'invocazione dei diritti dell'uomo è certamente più
forte, viene udita nel lager di Keraterm, l'effetto, tuttavia, è
modesto. Un solo esempio: nell'agosto del 1997, sei anni dopo
l'inizio della guerra di aggressione e annientamento nell'ex
Jugoslavia, la stimata società Human Rights Watch ritiene che
sarebbe un progresso per i diritti umani, se i peggiori criminali
conosciuti fossero deferiti a un tribunale, e vede in ciò
«un'opportunità per fondare un sistema giuridico
internazionale in grado di dissuadere coloro che in futuro potrebbero
commettere crimini di guerra contro l'umanità» (Human
Rights Watch, 1997). Tutto ciò non sembra essere una
dichiarazione autorevole, né una promessa di una rapida
svolta.
Non
è stato ancora dimostrato che la minaccia di punizioni abbia
dissuaso dei potenziali criminali dalle loro azioni. Si dovrebbe
forse imputare alla Human Rights Watch la responsabilità di
aver contribuito a «produrre una falsa coscienza nelle masse»
(Erdheim, 1984)? Produrre una falsa coscienza nelle «masse»
è considerato uno degli strumenti più importanti del
potere per stabilire e consolidare ideologie utili a conservare il
potere. La richiesta di pene per i criminali di guerra, la loro
condanna e pena, ha lo scopo però di rafforzare la coscienza
di quanto sia ingiusta la violazione dei diritti universali
dell'uomo. Dato che, secondo la nostra analisi, tali elementi sono
contenuti come antitesi in tutte le istituzioni e ideologie, dato
inoltre che la psicoanalisi attribuisce alla formazione dell'Io e al
Super io le funzioni che promuovono, eventualmente, il rispetto
dei diritti universali dell'uomo, anche se soltanto nel corso di un
lungo sviluppo, tali dichiarazioni non sono affatto a priori inutili
o inefficaci. Per questa ragione ho deciso di prendere parte anch'io
al dibattito con Muhidin Saric. In molti stati si levano le proteste
di singoli individui o si formano gruppi di cittadini e cittadine che
si adoperano per i diritti dell'uomo. Dipende dalla condizione
attuale e dalla struttura più o meno autoritaria e chiusa, se
questi rappresentanti dei diritti dell'uomo sono discriminati come
dissidenti, perseguitati o tollerati. Negli stati democratici
liberali sono investiti ufficialmente del compito di difendere i
diritti dell'uomo, ed eventualmente sostenuti da istituzioni
giuridiche. Essi devono prepararsi, a ogni modo, a una lunga lotta, e
potranno vantare solo pochi successi, in casi particolari. Le
istituzioni tradizionali che agiscono contro i diritti dell'uomo,
opporranno resistenza, sebbene, a nostro avviso, contengano
anch'esse, in forma di compromesso, delle norme del diritto
dell'uomo.
Le
«grandi» religioni sostengono un'etica che è
concepita essenzialmente in modo tale da farla coincidere con i
diritti universali dell'uomo, sicché una difesa di essi
risulterebbe superflua, se solo tale morale fosse rispettata da tutti
i membri della chiesa. Tuttavia le violazioni dei diritti dell'uomo
più vaste e più gravi sono accadute proprio nel nome di
una religione, per lo più riconoscendo i diritti dell'uomo
solo agli «ortodossi», e negando agli altri (atei,
eretici, pagani, etc.) lo status di essere umano e dunque la
rivendicazione di tali diritti. La tolleranza viene forse predicata,
ma a stento praticata. I dogmi impongono dei limiti. Anche in tempo
di pace la libertà religiosa si imbatte nei tabù (si
pensi ai crocifissi nelle scuole bavaresi) e contesta il diritto di
disporre del proprio corpo, a favore di una pretesa di potere,
ammantata di ideologia (l'interruzione di gravidanza viene definita
un delitto). In ciò le religioni non sono più liberali
di quelle ideologie totalitarie che, richiamandosi alla storia, alla
tradizione o ad altre idee, considerate valide in maniera assoluta,
erigono a dogma i propri ordinamenti nazionalistici o
socialistico egualitari. I diritti universali dell'uomo non sono
affatto dei sistemi di valori sviluppatisi in determinate tradizioni,
né si possono equiparare all'amore cristiano del prossimo,
alla tolleranza buddista, o alla giustizia di una teocrazia; sono
anche al di là degli ordinamenti «razionalistici»
di una società. È necessario liberarli da quelle forme
complesse di compromesso in cui sono finiti, e ricondurli nell'ambito
dello sviluppo psichico degli individui, perché siano validi.
Non c'è alcun ordinamento sociale, che abbia motivazioni
religiose o altrimenti ideologiche, in cui si sia obbligati ad
accettare la violazione dei diritti dell'uomo, perché così
è l'usanza.
La
libertà religiosa comprende certo l'esercizio di determinati
rituali. Donne e ragazze di fede islamica portano il velo in molte,
ma non in tutte le comunità musulmane. Se si mettono in atto
punizioni corporali crudeli, in conformità alla Sharia,
bisogna esigere che venga abolito il dogma che è alla base
della Sharia. Recentemente mi è stato posto il seguente
quesito, se sia lecito abolire l'escissione delle ragazze, nei popoli
africani, e se ciò non equivalga all'annullamento della loro
cultura una prosecuzione del potere coloniale. Tanto più che
la maggior parte delle ragazze e donne rispettivamente desidera e
approva la dolorosa mutilazione. Rispetto a quest'ultima osservazione
desidero ricordare che le punizioni crudeli dei bambini (bastonature,
birching, spanking, ceffoni) nell'ambito della pedagogia nera,
sono elementi apparentemente indispensabili della nostra cultura,
nella scuola e nella famiglia. Conosco personalmente diversi
esponenti dei nostri stati occidentali, che vivono nella tradizione
cattolica e protestante, che rammentano con «gratitudine»
questi maltrattamenti e non esitano a infliggerli ai propri bambini.
Queste crudeltà sono generalmente scomparse dalle scuole e
dall'organizzazione familiare. Le condizioni culturali non hanno
sofferto di questo rinnovamento. I Tedeschi non sono cambiati dal
punto di vista culturale, né dal punto di vista morale, da
quando il bastone è stato bandito dalla scuola e dalla
famiglia. Quando si parla dei diritti universali dell'uomo, e
si dà alle organizzazioni internazionali l'incarico di
tutelarli, si ha non solo il diritto, ma anche il dovere di
intervenire dinanzi a delitti così crudeli, e di così
vasta portata, come quello dell'escissione del clitoride. Dipende da
fattori politici, dai rapporti di potere se questo è possibile
o attuabile.
«Cosa
sono in realtà i diritti dell'uomo?» è necessario
chiedersi. La risposta è di volta in volta diversa, a seconda
della persona cui questa domanda viene rivolta. Per i redattori della
Carta dell'O In
base all'analisi etnologica si può affermare che i diritti
dell'uomo sono parte costitutiva di tutte (o quasi tutte) le
istituzioni delle varie culture, e che, in linea di principio, non
esistono impedimenti per richiederne il rispetto, in culture in cui
essi sembrano mancare in parte o del tutto. Non si apporta, cioè,
nulla di nuovo, di estraneo dal punto di vista culturale, ma si cerca
di favorire il riconoscimento e la manifestazione di una tendenza
alla quale si oppongono «forze più potenti». Parlo
dei diritti universali dell'uomo, senza stabilire se li consideri
«innati» o «acquisiti», risultato cioè
di un processo di incivilimento. Il fatto che i diritti dell'uomo
siano documentabili in tutte le culture farebbe ritenere che sono
«innati»; il fatto che siano indispensabili dei processi
educativi perché diventino efficaci, farebbe pensare che sono
«acquisiti». La questione «innati» o
«acquisiti» non apporta grandi risultati. Paragono i
diritti universali dell'uomo all'evoluzione del linguaggio, a
proposito del quale Sigmund Freud (1933, p. 241) sostiene: «È
il patrimonio universale dell'umanità ( ... ), familiare a
tutti i bambini ( ... ) e suona uguale in tutti i popoli a dispetto
delle diversità di lingua4». Per la definizione dei
diritti universali dell'uomo, mi servirò delle «analogie».
Nonostante la diversità delle formazioni sociali, i diritti
universali dell'uomo si presentano ovunque, devono tuttavia essere
acquisiti attraverso uno sviluppo sociale e individuale perché
diventino efficaci.
La
psicoanalisi non mostra soltanto che l'uomo è in grado di
rispettare e insieme di negare i diritti dell'uomo, e perché.
Sa che l'uomo è modificabile e che sono modificabili anche le
forme della convivenza umana e la costituzione degli stati, tuttavia
sa anche che sono necessari tempi lunghi, molte generazioni e sforzi
incredibili, perché si producano tali auspicabili cambiamenti.
Sollecitato da Albert Einstein a dare il proprio parere sulla «natura
dell'uomo», Sigmund Freud si mostrò alquanto scettico.
Egli ammise che i cambiamenti sono possibili ma aggiunse: «È
triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente
muore di fame prima di ricevere la farina5».
Riassunto.
L'Autore, dopo una serie di considerazioni generali sul tema
inerente i diritti dell'uomo, si sofferma sull'analisi di problemi
messi in luce da due scienze, quali la psicoanalisi e l'etnologia.
Mentre il punto di vista psicoanalitico aiuta a comprendere quali
sono i fenomeni psichici che inducono al rispetto o alla violazione
del diritto umanitario, quello etnologico, mettendo a confronto
diverse culture, permette di rispondere a quesiti riguardanti la
diversità dei diritti dell'uomo nelle varie strutture sociali,
la loro validità comune a più popoli, l'eventuale
imposizione o condizionamento, tramite anche l'uso della forza, di
diritti differenti a quelli di una precisa situazione culturale.
Parlandone e discutendone con Muhidin Saric, l'Autore cerca di dare
una spiegazione a fatti ancora troppo poco chiari.
Summary.
After a number of general considerations regarding the subject
ofhuman rights, the author lingers ori the analysis of the questions
focused by two different disciplines: psychoanalysis and ethnology.
While the psychoanalytic perspective contributes io the understanding
of the psychic phenomena ai the basis of the respect or of the
violation of the humanitarian right, the ethnological one, through a
confrontation of different cultures, allows us io answer the
questions connected with the diversity of human rights among the
different social structures, their validity for many peoples, the
possible imposition or conditioning, after the use of violence, of
rights different than those typical of a particular situation. In his
conversations with Muhidin Saric, the author tries io give an
explanation to some facts which are still unclear.
Erdheim, M. (1984), Die gesellschaftliche Produktion von Unbewusstheit. Frankfurt a. M.: Suhrkamp. Fisch, J. (1996), Darf man Menschenrechte mit Gewalt durchsetzen? In, Kursbucb, Heft 126, Dezember 1996. Freud, S. (1913), Totem e tabù. OSF, vol. 7. Torino: Boringhieri, 1975. Freud, S. (1927), L'avvenire di un'illusione. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978. Freud, S. (1930), Il disagio della civiltà. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978. Freud, S. (1933), L'Uomo Mosé e la religione monoteista. OSF, vol. 11. Torino: Boringhieri, 1979. Gross, J.P. (1997), Der egalitäre Liberalismus der jakobiner. In Le Monde diplomatique/taz/woz, September 1997. Harner, Mj. (1973), The Jivaro. Garden City, New York: Anchor Press Doubleday. Human Rights Watch (1997), Arrest now! Brüssel. Lukes, S. (1996), Fünf Fabeln übers Menschenrechte, In, Shute, S., Hurley, S. (a cura di) Die Idee der Menschenrechte. Frankfurt a. M.: Fischer. Maier, C. (1996), Das Leuchten der Papaya. Ein Berick von den Trobriandern in Melanesien. Hamburg: Eva. Saric, M. (1994), Keraterm. Erinnerungen aus einem serbischen Lager, übers. Von K. D. Olof. Klagenfurt: Drava Verlag. United
Nations (1985), The International Bill of Rights. New York.
Note
l.
Iniziale di Juden, Ebreo. (N.d.T.).
2.
Sembra che attualmente, per le proteste sollevatesi all'estero e
all'interno del paese, la «R» non venga più
apposta nei documenti.
3.
1 versi sono tratti da Die Dreigroschenoper, GW., St. 2, S.
432, Frankfurt a. M.: Suhrkampf, 1967. Trad. it., L'Opera da tre
soldi. Torino: Einaudi, 1963, trad. di E. Castellani (N.d.T.).
4.
La citazione è tratta da Der Mann Moses und die
monotheistische Religion, GW., Bd. XVI, S. 577. Trad. it., L'uomo
Mosé e la religione monoteistica. In OSF, Torino:
Boringhieri, 1979, vol. 11, pp. 448 449, trad. di P.C. Bori, G.
Contri, E. Sagittario (N.d.T.).
5.
La citazione è tratta da Warum Krieg?, GW., Bd. IX, S.
284. Trad. it, Perché la guerra?. In OSF, Torino:
Boringhieri, 1979, vol. 11, p. 301, trad. di S. Candreva, E. Sagittario (N.d.T.). Vai al sito ufficiale della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
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