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LA DIAGNOSI DI DEPRESSIONE

Essendo la depressione uno dei disturbi che più frequentemente sono oggetto di studi clinici e psicofarmacologici, il primo problema che è necessario prendere in considerazione è quello della sua diagnosi, dell’identificazione, cioè, nell’ambito della popolazione generale e della sua differenziazione rispetto ai pazienti con altra patologia psichiatrica, del paziente con un disturbo inquadrabile come depressione. Gli attuali sistemi diagnostico-classificatori sono di tipo categoriale, il che vuol dire che lo psichiatra deve collocare il paziente in una o in un’altra categoria. Questo tipo di approccio ha innegabili vantaggi ma comporta, al tempo stesso, una certa dose di semplificazione poiché presuppone che i disturbi psichici siano delle entità nettamente separabili le une dalle altre. A questo tipo di approccio si contrappone quello dimensionale, che scompone il quadro psicopatologico nelle sue componenti elementari che poi ritroviamo, in maniera più o meno completa (certamente in misura più completa nella depressione maggiore), anche in altre condizioni psicopatologiche. Ognuno di questi approcci richiede specifiche modalità di valutazione. Per definizione, la diagnosi di depressione maggiore più affidabile è quella formulata dallo psichiatra esperto a seguito di un’accurata ed esauriente intervista con il paziente (ed eventualmente con persone che ne hanno una buona conoscenza). A fini, però, di studio e di ricerca, allorché è di primaria importanza la confrontabilità dei dati, assume un ruolo preminente la diagnosi basata su un’intervista strutturata, sempre che sia effettuata da personale adeguatamente preparato e che può dedicare all’intervista tutto il tempo necessario. Abbiamo ampiamente parlato delle interviste diagnostiche (Cap. 7) e non è azzardato dire che le più valide ed affidabili sono la SADS e la SCID, sempre che il clinico abbia una adeguata familiarità con il sistema diagnostico e sia addestrato all’uso dell’intervista strutturata. Più semplice e rapido, pur senza perdite significative di affidabilità, si è dimostrato recentemente l’impiego del M.I.N.I. Purtroppo, queste tecniche di valutazione richiedono generalmente tempi lunghi, scarsamente compatibili con le esigenze della routine clinica, ed è stato ipotizzato perciò il ricorso alle scale di autovalutazione le quali sono, però, assai deboli dal punto di vista diagnostico per cui sarebbe azzardato affidarci alla diagnosi fatta con questi strumenti. Nonostante ciò, alcune scale di autovalutazione si sono dimostrate sufficientemente affidabili, tanto da trovare utile collocazione in specifici contesti come, ad esempio, quando si voglia effettuare uno screening preliminare su popolazioni numericamente consistenti in modo da sottoporre ad una valutazione più approfondita soltanto coloro che hanno superato la fase di screening. Anche negli studi epidemiologici, quando si voglia selezionare i soggetti con probabile depressione maggiore o, meglio, escludere quelli senza depressione, questi strumenti possono essere utilmente impiegati. Certamente le scale di autovalutazione funzionano meglio quando devono discriminare depressi da non depressi (o, ancor più, depressi da soggetti che non presentano alterazioni psicopatologiche) piuttosto che quando devono distinguere sottocategorie diverse di depressione (p. es., depressione maggiore da distimia o da depressione atipica, eccetera). La SCL-90, ad esempio, è una scala che si è dimostrata sufficientemente affidabile nel discriminare fra tipi diversi di psicopatologia, mentre la CES-D - Center for Epidemiological Studies - Depression scale, di cui diremo più avanti, appare più adatta ad identificare la depressione maggiore nella popolazione generale. Possibili alternative alla CES-D possono essere considerate la Inventory to Diagnose Depression -IDD e la Plutchik-van Praag self-report depression scale - PVP entrambe basate sui criteri del DSMIII.

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