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Discussione del Caso Clinico

VIGANO': Far tre precisazioni, tre riflessioni, una riguardo alla presa in carico integrata, alla qualit di questa integrazione e alle varie scansioni, una relativa al transfert, e una di puntualizzazione diagnostica e terapeutico/strategica.
Per quanto riguarda la "rete", costituita da noi, dal Centro Diurno, dallo psichiatra, e dalla madre, anche se c'Ë stata collaborazione non posso dire che si trattasse di vera integrazione, tranne che fra noi tre del progetto di presa in carico che qui Ë stato riferito da Cosenza.
Per quanto riguarda gli altri due poli, e cioË lo psichiatra del CPS e il Centro Diurno c'Ë stato un affiancamento, e anzi in certi periodi, in particolare con il Centro Diurno che perseguiva un obiettivo molto specifico di riabilitazione - direi di normalizzazione, mirante al recupero delle capacit lavorative e adattive , molto fondato su criteri di premi/punizioni, ecc. - c'Ë stata chiara divergenza.
Questo elemento dell'integrazione direi pi sulla carta che reale, si collega con il secondo punto, del transfert e della domanda, in quanto bisogna dire che questo soggetto ha s accettato la nostra presenza, ha instaurato una buona relazione con noi, ma la domanda iniziale Ë stata della madre e tuttora Ë la madre che tiene le redini di tutta l'operazione, Ë lei che la finanzia, Ë lei in ultima analisi la regista, quella che integra e raccorda fra loro i diversi punti di vista. Fra l'altro Ë la madre che ha a lungo cercato di favorire e di perseguire la via della "normalizzazione", della riabilitazione sociale di Alberto, e a questo era legato un suo non voler mollare rispetto al Centro Diurno, nonostante i chiari segni di difficolt e di non tolleranza di Alberto a questo genere di prospettive. Il terzo punto al quale mi riportano queste considerazioni , Ë quello diagnostico e strategico, per cui la nostra lettura Ë quella di una psicosi schizofrenica, manifestatasi in Comunit, con quell'episodio acuto, subito rientrato, ma che faceva seguito ad un incontro (quello con l'omosessuale) che manda all'aria le fragili compensazioni immaginarie su cui si era retto fino ad allora l'equilibrio di Alberto. L'incontro con questo godimento non simbolizzabile ha spalancato l'impossibilit, per Alberto, a restaurare la sua identit di tossicodipendente trasgressivo, con cui si sosteneva in precedenza. Anche il rapporto con la donna, che in fondo non lo aveva mai chiamato in causa veramente, ora non pu pi essere restaurato, e vediamo che c'Ë un vero crollo dei punti di riferimento per questo soggetto, che, se anche smette rapidamente di delirare, fatica non poco a ritrovare dei punti per organizzare il proprio godimento e simbolizzare la realt. Si assister infatti, ad un progressivo decadimento dal punto di vista della funzionalit sociale, cioË non c'Ë pi la possibilit di un'organizzazione nevrotica della realt (come vorrebbe, per es. la madre).
In questo senso, direi che a questo punto anche a livello della conduzione della cura siamo arrivati ad un punto molto delicato, un punto che molto spesso ci si trova a dover gestire con le famiglie degli psicotici, in cui si deve prendere coscienza che il soggetto non sar in grado di organizzare fallicamente la realt, che non sar pi in grado quindi di lavorare o di vivere autonomamente, ma tuttavia la scommessa Ë quella di favorire un viraggio, che pur non insistendo a vuoto su una normalizzazione impossibile, non sacrifichi completamente la progettualit, arrendendosi a quella che viene chiamata "cronicizzazione".
Trovare una via alternativa alla cronicizzazione, un modo vivibile, condivisibile di organizzazione del godimento per questo soggetto, che lo rimetta in circolazione come soggetto seppure attraverso canali marginali, alternativi a quelli della societ produttiva, Ë la scommessa che ci troviamo ora a dover giocare con la madre.
Questa fase Ë sempre molto delicata, e presuppone la capacit da parte delle famiglie di elaborare la ferita legata all'impossibilit e all'ineluttabilit della posizione psicotica, tuttavia credo che tutta la clinica delle psicosi e in generale il lavoro di rete abbiano proprio questo obbiettivo specifico, di escogitare, inventare una vivibilit per lo psicotico che possa differenziarsi dal processo di cronicizzazione.
Per ora, in questo senso, abbiamo solo poche indicazioni, a livello del soggetto c'Ë solo questa attivit di compravendita, di oggetti elettronici usati, ma Ë un'economia direi a perdere dal punto di vista dello scambio reale, e che per ora risponde solo ad esigenze di contabilit pulsionale. E' la madre che tampona e praticamente finanzia queste operazioni che sono sempre in perdita.

FRENI: Credo che queste tue precisazioni siano veramente preziose, e vorrei subito aggiungere qualcosa. Intanto devo ancora una volta rammaricarmi del fatto che i riferimenti al lavoro integrato con la psichiatria siano sempre cos poveri, e testimoniano veramente anche nello stile espositivo, il fatto che questa benedetta integrazione Ë veramente ancora tutta sulla carta, come dici tu, tutta da costruire. Non si capisce bene come sia stato fatto questo passaggio al CPS, il soggetto era consenziente? qualcuno gli aveva chiesto che cosa si aspettasse da questo trattamento? Cosa sapeva di questa iniezione mensile di moditen, che cosa si aspettava che potesse dargli? Poi c'Ë anche tutta la questione della tossicofilia e dell'abuso farmacologico. Quali erano i farmaci di cui abusava e con cui ha tentato il suicidio? Come se li era procurati? Gli erano stati prescritti?
Sempre collegandomi a queste considerazioni vorrei anche dire qualcosa della diagnosi, magari poi anche Smeraldi potr aggiungere quello che pensa, ma a me sembra che ci siano pochi dati per parlare di psicosi schizofrenica. Che cosa ti fa fare questa diagnosi? C'Ë un solo episodio dissociativo acuto, in condizioni particolari, e non c'Ë altro su cui appoggiarsi. Certo l bisognerebbe sapere che cosa ha spinto lo psichiatra a prescrivere il moditen depot, che Ë un farmaco che gi implicitamente fa pensare ad una resa alla cronicit, Ë un farmaco pesante, che difficilmente si prescrive agli esordi, e poi con il rilascio lento presuppone una mancanza di compliance che invece non sembra reale in questo soggetto. E' un ragazzo puntuale, disponibile, certamente come dici tu non ha fatto ancora una sua domanda personale di trattamento, ma dargli un farmaco depot Ë il modo peggiore per lavorare su una possibile condivisione del processo terapeutico. Poi c'Ë tutta la questione della madre, che tu metti in luce molto bene. Sembra in fondo che, al di l delle apparenze, ci sia stata una specie di collusione fra lo psichiatra del CPS e voi, su uno scivolamento verso la cronicit, laddove invece io credo che quando si parla di riabilitazione in psichiatria, bisognerebbe guardare avanti il meno possibile, recuperando un po' l'atteggiamento dei fisioterapisti, che lavorano giorno per giorno, senza mai dare per scontato un risultato finale, perchÈ i risultati dipendono dall'impegno quotidiano e possono essere sorprendentemente diversi da caso a caso.

SMERALDI: Sono molto d'accordo con quello che dici, anch'io vorrei dire qualcosa sulla diagnosi e sulla terapia. la diagnosi di schizofrenia si appoggia sull'episodio isolato delle allucinazioni visive dei peni sulla parete della Comunit, e oltre tutto con le allucinazioni visive bisogna sempre andare molto cauti, e caso mai possono far pensare a qualche danno organico, ipotesi che, in questo caso, dato anche l'abuso di droghe cos come Ë stato descritto, mi sembra un ipotesi da prendere molto seriamente. Anche noi abbiamo esperienza di soggetti del genere, che non riescono a strutturare un profilo e una carriera da classico "tossicodipendente", pur magari facendo un uso massiccio e spesso sconclusionato di sostanze; sono fra l'altro soggetti che, come quelli del caso descritto, non riescono a reggere una psicoterapia, in fondo perchÈ dimostrano di mancare di quel substrato, di quel supporto cognitivo e intellettivo che Ë necensario per agganciarsi ad un lavoro introspettivo. Questi soggetti ad un certo punto cominciano ad avere fenomeni allucinatori o comunque psicotici, e allora c'Ë il viraggio alla psichiatria, proprio come in questo caso. Io credo, e la statistica lo conferma, che si tratti di quel trenta per cento circa di casi in cui un danno funzionale determina deficit cognitivi che vengono mascherati nell'adolescenza dall'uso di sostanze, sostanze che per altro vanno a peggiorare ed estendere il danno, che poi si manifesta appunto con questi scompensi e le conseguenti gravi problematiche adattive che questi soggetti presentano, dopo lo scatenamento.
Se questa ipotesi Ë corretta, non vedo proprio perchÈ ricorrere subito ad un antipsicotico, e soprattutto al moditen depot, il cui uso Ë giustificato solo nei casi di soggetti violenti, agitati, e altamente non collaboranti. In questo caso, se l'ipotesi cui accennavo Ë giusta, il neurolettico rischia di peggiorare la situazione dei recettori, e di aggiungere danno su danno.

FRENI: Bisogna stare molto attenti, effettivamente, quando si prescrive un neurolettico, perchÈ nei casi in cui la diagnosi Ë corretta, l'ipotesi Ë quella di andare a modificare un certo funzionamento dei recettori, legato ad una modificazione della chimica dei neurotrasmettitori; ma se la diagnosi non Ë corretta, il rischio Ë anzi quello di andare a creare o a peggiorare un danno funzionale magari gi in atto. In questo caso poi l'uso del moditen, che Ë un farmaco bomba, oggi per lo pi abbandonato anche per i fastidiosi e massicci effetti collaterali, mi sembra davvero poco giustificato.
E' interessante quello che dicevi (rivolto a Smeraldi), perchÈ anche io ho trovato in letteratura (cita il testo) la descrizione di questi pseudo-adattamenti adolescenziali, che pi che basati su veri processi di identificazione, adottano condotte adesive per poi scompensarsi tardivamente, dopo aver assunto caratteristiche fenomenologiche pseudo/nevrotiche, come l'abuso di sostanze o i comportamenti devianti o borderline.
In questo caso, fra l'altro, io sull'asse II vedrei senz'altro un grave disturbo Borderline. Ma comunque, diagnosi a parte, mi sembra davvero che il rapporto con lo psichiatra, il senso di questo invio e di questa presa in carico psichiatrica non sia per niente "dinamizzato". Cosa ha significato per il soggetto questo passaggio allo psichiatra?.

VIGANO' : provo a dare alcune informazioni, e poi continuiamo senz'altro la discussione. Dico subito che accetto totalmente queste critiche, che mi sembrano importanti e tendono a mettere in risalto una zona d'ombra cruciale, in questo caso, che Ë quella della condivisione del progetto. In particolare, rispetto allo psichiatra del servizio pubblico, devo dire che noi abbiamo accettato piuttosto acriticamente la terapia farmacologica, e fra l'altro, quando ci siamo sentiti telefonicamente, il collega sembrava poco disposto a problematizzare il caso, poco desideroso di inserirsi in un discorso di integrazione che andasse al di l della mera prescrizione, e in questo adduceva motivazioni legate al carico di lavoro, all'estrema difficolt di far fronte alle continue emergenze, e anche l'ammissione di una fondamentale difficolt a barcamenarsi con casi difficili e con nuove terapie. Aveva chiaramente indicato che per una presa in carico pi soddisfacente sarebbe stato necessario e auspicabile rivolgersi "altrove". Questo collega per altro era una persona onesta, una brava persona.

FRENI: Sono abbastanza costernato, e direi scandalizzato. Spero che nessuno di voi (si rivolge agli specializzandi), per quanto oberato dal lavoro e schiacciato dalla quotidianit, si trovi mai a dare una risposta del genere. Purtroppo questo Ë uno degli aspetti della realt dei Servizi. Esistono ancora sacche di profonda disinformazione e approssimazione, anche nell'uso dei nuovi neurolettici, per quanto riguarda i dosaggi, ecc., e questo Ë un fattore che va molto spesso ad incidere pesantemente sui destini e sugli esiti prognostici delle psicosi.

BARRACCO (dalla sala): Questa madre regista dell'intervento, che tiene insieme l'operazione e paga l'intervento a domicilio, si accontenta di uno psichiatra cos impotente?

FRENI: Effettivamente questo punto Ë cruciale, perchÈ forse permette di mettere in luce quello che dicevo prima, cioË la mia ipotesi di una collusione fra l'intervento domiciliare e lo psichiatra, che sono andati entrambi nella direzione di un disinvestimento evolutivo sul caso, e che di fatto hanno coinciso con il desiderio inconscio della madre. C'Ë un testo (cita il testo) che analizza e chiarisce la posizione che inconsciamente assumono queste madri, che si fanno carico dei loro figli psicotici, manovrando per sempre le cose in modo che il loro gran darsi da fare non produca realmente dei cambiamenti, il chÈ permette di ottenere una sorta di assoluzione del proprio ruolo, della propria implicazione nella sofferenza del figlio, la cui causa verrebbe alla fine fatta ricadere nella pacificante concezione organicistica ("Non c'Ë niente che si sarebbe potuto fare e che io non abbia fatto per mio figlio, nessuno ha potuto farci niente perchÈ non c'Ë niente da fare").

BARRACCO (dalla sala): Vorrei fare una domanda al prof. Smeraldi. Lei dice che in questo caso, come in una certa percentuale di casi di tossicomania, tossicodipendenza o comportamenti tossicofilici o di abuso in genere, si determinano danni organici, o si aggravano danni preesistenti, e che questo, come nel caso di oggi, spiegherebbe i fenomeni psicotici. Tuttavia sarebbe interessante sapere come lei mette in connessione la questione organica o funzionale con quello che il relatore chiamava "congiuntura di scatenamento", perchË non mi sembra che la precisazione della psicosi organica, per quanto possa essere una condizione necessaria per inquadrare il caso e rettificare l'intervento farmacologico, non mi sembra per condizione sufficiente per rendere conto dell'evoluzione del caso, in cui direi che gli elementi messi in luce da Cosenza, in particolare la questione legata all'identit sessuale, una certa stereotipia dei comportamenti che questo soggetto adotta con l'altro sesso (il mazzo di fiori, per es.), fino all'incontro cruciale con l'omosessuale in Comunit, sono indispensabili per individuare l'articolazione in questo soggetto dei registri immaginario/simbolico e reale.
Rispetto allo scatenamento forse potr dirmi qualcosa di pi Vigan o Cosenza, che forse potrebbero effettivamente, a partire da queste precisazioni, rendere conto meglio della loro ipotesi diagnostica. Tuttavia, mi interesserebbe che, tenendo buona e quindi rimanendo all'interno dell'ipotesi diciamo organicistica, del danno funzionale, potesse illustrare come si articolano, come Ë possibile e se Ë possibile articolare un raccordo con i dati accidentali o episodici dello scatenamento, legati anche a fattori della personalit del soggetto. Altrimenti temo comunque che si cada nell'ipervalutazione di dati strutturali (che sono comunque indimostrabili e credo anche molto difficili da trattare) e si rischi invece di sottovalutare il dato concreto di come attualmente si organizza il reale per questo soggetto, a partire da quali problematiche si Ë dissolta l'organizzazione simbolica pseudo/nevrotica precedente, e a partire da cosa Ë possibile pensare ad una qualche modalit di supplenza.

SMERALDI: Rispondo per quanto mi concerne, anche se effettivamente la questione esula un po' dal caso specifico, e riguarda una considerazione generale di ordine diagnostico.
Intanto tengo a precisare, se non fosse stato sufficientemente chiarito dal mio intervento, che non tutti i tossicodipendenti presentano danni organici e funzionali, e non Ë l'uso di sostanze in sÈ a produrre questo danno. Si tratta di soggetti che gi presentano lievi problemi a livello dell'integrazione funzionale, problemi di deficit cognitivi che per potrebbero anche non rivelarsi come tali, ma che per l'esperienza clinica dimostra essere spesso alla base di disturbi dell'apprendimento e della personalit, e quindi spesso, come causa secondaria, possono portare a comportamenti devianti e all'uso di sostanze. In questo caso, l'uso sconsiderato e massiccio di sostanze pu andare ad aggravare un quadro funzionale gi in parte compromesso, andando a definire questa condizione che ho chiamato "psicosi organica".
In genere poi sono casi abbastanza riconoscibili, perchË hanno le caratteristiche che il relatore qui (Cosenza) ha descritto chiaramente, e che si ripetono in modo talmente fedele da isolarsi abbastanza nettamente come fenomeno. Mentre Cosenza raccontava questa storia non ho potuto fare a meno di pensare ad un altro caso, che veramente sembra il suo fratello gemello, anche questo figlio di una coppia separata, di borghesi benestanti, che ci Ë stato affidato dalla madre, ed Ë stato preso in carico inizialmente anche con un tentativo di psicoterapia che appunto Ë fallito con le stesse identiche modalit, e poi era seguito da educatori, animatori, che lo portavano al cinema, e cercavano insomma di lavorare sulla dimensione adattiva...
Anche questo, dopo una carriera da tossico, sempre un po' sui generis, direi, aveva avuto fenomeni allucinatori isolati, e poi per non era pi riuscito nÈ a restare nel giro della tossicodipendenza e della microcriminalit, nÈ a ritrovare un grado accettabile di funzionalit sociale, andando in un certo senso alla deriva della cronicit psichiatrica. Ora in questo caso noi abbiamo il problema del padre, che Ë un famoso diabetologo, e che si Ë messo letteralmente a delirare, sostenendo che per guarire il figlio Ë necessaria la terapia di schock insulinico. Questo Ë assolutamente un delirio, molto ben incistato ma anche difficile da criticare.
Questo per dire che effettivamente il fatto di isolare una causa precisa, di tipo organico o funzionale, non Ë che risolva il problema; si tratta di situazioni molto ostiche, in cui poi certamente la componente ambientale, familiare, e direi anche le problematiche dell'asse II che vi sono sempre associate (sono d'accordo con Freni che in questo caso c'Ë anche un disturbo grave di personalit) devono essere prese in considerazione. Io ci tenevo solo a dire che in questo caso la diagnosi sull'asse I non mi sembra corretta, e di conseguenza non lo Ë assolutamente neanche la prescrizione farmacologica, il chÈ certo non risolve tutti i problemi, ma almeno ha il vantaggio di non crearne di ulteriori.

VIGANO': Provo a dire qualcosa a proposito del mancato raccordo con lo psichiatra, cose che mi vengono in mente al momento. Effettivamente io credo che ci sia stata da parte nostra una volont malconsapevole e per lo pi inconscia a mantenere i rapporti in questi termini, a non problematizzare pi di tanto le indicazioni dello psichiatra. Non abbiamo considerato lo psichiatra tanto come un interlocutore, una risorsa di cui servirsi, da interrogare e con cui entrare nel merito dei contenuti. Ci interessava avere l'appoggio istituzionale, come garanzia di una presa in carico pubblica. In fondo entrando nel merito dei contenuti avremmo potuto essere sollecitati ad occuparci direttamente anche dell'aspetto farmacologico, cosa che potevamo benissimo fare, essendo io psichiatra, ma in questo modo avremmo perso l'aggancio istituzionale con il territorio.
Vorrei anche precisare, rispetto al tentato suicidio che ha menzionato Cosenza, che anche questo episodio aveva effettivamente a che fare anche con la presa in carico psichiatrica, perchÈ - una cosa importante che effettivamente non Ë emersa dalla relazione di Cosenza - l'unico vero sintomo residuale, l'unico vero sintomo soggettivo che questo soggetto lamentava, e che si trascinava da prima dello scatenamento, era un'insonnia severa, che lo faceva molto soffrire. Per questo lo psichiatra gli aveva prescritto il Roipnol, farmaco ben noto per non essere un sonnifero qualunque, di cui i tossicodipendenti fanno notoriamente uso, abuso e commercio. Con questo farmaco, in ogni caso, lui aveva messo in atto il suo tentativo di suicidio.

FRENI: Certo anche questo prescrivere il Roipnol ad un soggetto del genere la dice lunga su questa presa in carico istituzionale. Tornando alla questione dello psichiatra "assente", credo che la discussione di oggi sar utile per modificare e direi forse correggere la rotta del vostro intervento, a partire da un superamento, una sospensione dell'ipotesi di questa presunta "cronicit", tornando a lavorare giorno per giorno, valutando di volta in volta i progressi, i cambiamenti che possono essere realizzati, e le risposte che il soggetto e il sistema familiare pu mettere in atto. In questo senso, torno a sottolineare che anche la scelta di un farmaco diverso, meno pesante sul piano degli effetti collaterali, che non inibisca e non produca coartazione, pu riaprire possibilit non trascurabili per il lavoro terapeutico, e magari una somministrazione variabile, per bocca, pu permettere una pi attenta valutazione della compliance e pi in generale pu essere uno strumento di manovra di grande importanza per costruire un progetto terapeutico il pi possibile condiviso con il soggetto.
Veramente questo dei farmaci Ë un argomento trascurato, su cui gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti continuano ad essere un po' sordi e approssimativi, mentre invece io ho visto situazioni molto diverse e quadri profondamente modificati, nel senso di trattamenti psicoterapeutici, di psicoterapie possibili o impossibili, legate proprio ad una corretta scelta farmacologica, all'aver individuato o meno la molecola giusta e la giusta dose per un soggetto.

TRONCONI: (dalla sala): Vorrei ringraziare i colleghi Cosenza e Vigan per questa preziosa e direi abbastanza rara testimonianza di collaborazione fra pubblico e privato. Testimonianza anche coraggiosa nel denunciare questa difficolt a condividere realmente un progetto col collega del CPS, col Centro Diurno, difficolt che nella maggior parte dei casi sono talmente grandi da rendere impossibile persino l'impresa, anche solo "sulla carta", e cos queste cose non si fanno, non si tentano neanche. Dire "noi" Ë pi facile quando ci si riconosce tutti in un Servizio, si condividono logiche e rituali fra quattro mura...

FRENI: do' subito la parola, ma vorrei risponderle a caldo: sono d'accordo con lei, tranne sull'ultima parte: non penso affatto che la collaborazione sia pi facile nelle Èquipes che lavorano fra quattro mura, fra le varie figure professionali che lavorano fianco a fianco, pubbliche o private che siano; l'integrazione fra gli interventi, la presa in carico multiprofessionale, l'intervento di rete, Ë la cosa pi nuova in fatto di psicosi e di grave disagio mentale, ma di fatto Ë anche la cosa pi difficile. Fra l'altro esistono molte concezioni diverse di "rete", e questo complica ulteriormente le cose.

DOTTORE COL CAMICE (dalla sala) : Mi riallaccio a queste considerazioni sulla strategia di rete, per poi tornare al caso. In un interessante studio che ho consultato recentemente, Ë stato dimostrato come l'ambivalenza e il carico d'ansia che i familiari degli utenti riversano sulle Èquipes, sotto forma di domande contraddittorie e di richieste esorbitanti, siano la causa diretta delle risposte-agito, degli atteggiamenti da burn out, come quello testimoniato in questo caso, dello psichiatra che appunto era una "brava persona". D'altra parte la strategia di rete non solo Ë il modo migliore per la presa in carico dello psicotico, ma Ë anche l'unico modo possibile, dato che la rete lo psicotico te la impone, Ë lui stesso che se la costruisce ed avere a che fare con questa molteplicit di attori in gioco Ë una sfida inevitabile. (cita poi un passo di Freud, in cui si dice che non Ë mai Dio a scegliersi un popolo, ma sempre il popolo che sceglie il suo Dio).

PSICOANALISTA BRIZZOLATO (dalla sala): parla di un caso, di una giovane che aveva avuto alcuni ricoveri, e che era stata sorpresa in comportamenti chiaramente inquadrabili nell'ambito dell'agito a sfondo sessuale; era trattata farmacologicamente con antipsicotici. Anche in questo caso la tendenza diagnostica andava verso una schizofrenia, con evidente disinvestimento e tendenza alla cronicizzazione. Lui invece, dopo alcuni mesi di colloqui, era andato convincendosi sempre pi che si trattasse di un grave disturbo di personalit, e comunque considera che bisognerebbe recuperare la vecchia categoria di "isteria", e che i quadri isterici si sono molto modificati, ma non sono affatto spariti. Lo stesso si pu dire per la tendenza analoga a trasformare in psicosi tutti i gravi casi di tossicomania, che magari invece non sempre mascherano la psicosi. Concorda quindi col fatto che Ë sempre meglio andarci piano, essere prudenti sulle diagnosi impegnative (che comportano inevitabilmente un atteggiamento prognostico infausto e quindi tendono a produrre delle controidentificazioni negative e un conseguente disinvestimento delle risorse), ed Ë meglio optare per l'atteggiamento del "giorno per giorno".

ULTIMO INTERVENTO (dalla sala): ribadisce l'analisi in base alla quale l'intervento Ë andato a realizzare il desiderio inconscio della madre, tuttavia ritiene che questo Ë un momento importante, di ridefinizione del progetto, in cui, grazie alle riflessioni di oggi, il gruppo di lavoro che ha in carico il caso potr riconsiderare ci che si Ë fatto, e ci che si potr fare.

VIGANO' : Ringrazio tutti i presenti, e oggi lo faccio in modo particolare, per le indicazioni preziose che mi saranno utili e che mi vedono direttamente implicato.
(Ricorda poi il prossimo appuntamento e da' alcune informazioni sul sito internet in cui sar possibile trovare gli interventi e continuare il dibattito).



CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE (di Anna Barracco).

Rileggendo a distanza di tempo il resoconto della discussione, mi ha colpito come ci si sia focalizzati sulla questione dello psichiatra, mettendo s in luce la collusione del gruppo di presa in carico col desiderio inconscio della madre, ma in fondo non approfondendo la questione clinica. Fra l'altro sarebbe interessante chiarire perchÈ Vigan e in generale il gruppo della presa in carico psicodinamica ci tenessero cos tanto a questo appoggio territoriale "pubblico". Questo non mi sembra sia stato veramente chiarito.
Inoltre mi sembra che si Ë enfatizzata l'importanza di una supposta causa organica (che poi paradossalmente Ë proprio il fantasma della madre, come viene adombrato dal testo citato da Freni), e anche il peso di un'opzione farmacologica diversa (che certamente pu essere importante, ma non credo poi cos decisiva. E comunque, non ci si Ë pronunciati. Neurolettico, s o no? E che cos'altro?), e tutta la questione dell'organizzazione del soggetto Ë stata tralasciata. Si veda, per es, la mia domanda a Smeraldi, a Vigan e Cosenza sulle congiunture di scatenamento, che Ë stata completamente ignorata, cos come un dibattito pi articolato sulla diagnosi di struttura.
Un'altra cosa che mi ha colpito, rileggendo il testo, Ë stato lo schiacciamento sul concetto di "cronicit" che ha subto l'intervento di Vigan, che invece mi pareva andasse in altra direzione, adombrando una via possibile di organizzazione simbolica e relazionale, che, seppure doveva prescindere dalla normalizzazione nevrotica (nel senso di Freud di amare e lavorare, penso), andava comunque ricercata ed era tutta da articolare sia per questo soggetto, sia in generale come obiettivo di questi interventi di "rete".
In fondo mi sembra che le indicazioni emerse, questo lavorare "giorno per giorno" del fisioterapista, se non viene meglio articolato rischia di essere solo il braccio di ferro comportamentista che il Centro Diurno (e apparentemente la madre con lui) intentavano con il soggetto, che non ne voleva sapere, e il risultato di tutto questo grande affaccendarsi, lo sappiamo bene, Ë molto spesso proprio la cronicizzazione e la realizzazione dei desideri sadici dell'istituzione, e masochistici dei soggetti psicotici.
Quindi una madre che comunque tiene in piedi una macchina del genere, per quanto animata da desideri ambivalenti, Ë l'unica risorsa, l'unico punto di partenza, come l'unica possibilit sembra essere quella di articolare meglio questa terza via, fra la normalizzazione e la cronicizzazione, una terza via del "giorno per giorno", dell'individuare le modalit soggettive di vivibilit, di supplenza possibile, ma che evidentemente Ë ancora tutta da indagare.

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