VII GIORNATE PSICHIATRICHE ASCOLANE
"LINCONTRO CON LA SOFFERENZA,
LA SOFFERENZA DELLINCONTRO"
PALAZZO DEI CAPITANI, ASCOLI
PICENO
PRIMA GIORNATA
- MERCOLEDI' 10 MAGGIO 2006
I REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI
Lo
psicoterapeuta di fronte al dolore e alla morte
Paolo
Migone
Condirettore
della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (http://www.psicoterapiaescienzeumane.it)
(Via
Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail
<migone@unipr.it>)
Riassunto. "The
psychotherapist facing pain and death". Vengono presentate
e discusse alcune interpretazioni psicologiche e psicoanalitiche
del dolore e della morte. In particolare, vengono esposte alcune
ipotesi che considerano il dolore (sia subìto che attivamente
ricercato) come potenzialmente una difesa per la coesione del Sé,
alla luce soprattutto di certe teorizzazioni kleiniane (vedi ad
esempio il concetto di identificazione proiettiva) e della Psicologia
del Sé di Kohut (vedi ad esempio i sintomi di automutilazione
in certi pazienti con gravi disturbi di personalità, che
ricercano stimolazioni fisiche forti quali tagli, abuso di
sostanze, ecc. per colmare una sensazione ancor più
dolorosa di vuoto interiore). Vengono inoltre presi in esame vari
altri problemi, tra cui gli approcci psicologici per il paziente
terminale o che deve far fronte a forti dolori non eliminabili,
sia fisici che psicologici.
Freud, quando formulò il "principio
di piacere", disse che luomo ha la tendenza a ricercare
il piacere e ad evitare il dolore (Freud, 1911; 1915; 1915-17; 1920
pp. 193-203 e pp. 204-209; 1922 pp. 502-509; 1925 pp. 273-280 e
pp. 280-290; 1929 pp. 566-576; 1937 pp. 517-523). Il dolore però
in molte situazioni della vita è inevitabile, e luomo
deve saperlo affrontare individuando strategie utili più
o meno "mature" a seconda del proprio equilibrio psicologico.
Non solo, ma il dolore può addirittura essere attivamente
ricercato per essere utilizzato esso stesso come difesa da un altro
dolore più grande. Ad esempio, come vedremo, in certi casi
di estrema sofferenza psicologica ci si può procurare un
dolore fisico per attutire, confondere o soffocare un dolore psicologico
che in un determinato momento viviamo come intollerabile.
In questa mia relazione parlerò dellinterpretazione
psicologica delle funzioni del dolore soprattutto attraverso la
tematica della morte, cioè della consapevolezza della morte
imminente, in particolare in caso di Sindrome di Immunodeficienza
Acquisita (AIDS). Utilizzerò cioè la malattia
terminale come esempio paradigmatico di dolore, forse uno dei più
grandi in quanto necessariamente costringe il soggetto a modificare
tutti i significati della sua vita, specialmente quando vi è
la consapevolezza che la morte avviene in modo prematuro rispetto
alle proprie aspettative. La elaborazione del lutto infatti è
un processo psicologico generale che deve essere percorso di fronte
a situazioni dolorose di questo tipo.
Lapproccio al paziente terminale, e quindi
il problema del nostro rapporto con questo tipo di dolore, non viene
affrontato spesso e neppure con facilità, per motivi probabilmente
legati alla tendenza inconscia ad evitare un tema così inquietante.
In molti programmi di formazione per operatori della salute mentale
vi è addirittura una scotomizzazione di questo problema,
mentre in alcuni paesi anglosassoni già da molti anni viene
dato ampio spazio a questo argomento con materie quali Death
and Dying [La morte e il morire], inserite nellinsegnamento
della tanatologia e nei programmi di Consultation & Liaison,
cioè di "Psichiatria di Consulenza" e "di
Collegamento" con la medicina, altrimenti detta Psicologia
Medica.
La psicoanalisi si è occupata più
volte del problema della morte e del paziente terminale. Freud (1915b,
1915c) parlò del "nostro modo di considerare la morte",
e tanti psicoanalisti in seguito hanno affrontato il tema della
tanatologia e del lavoro col paziente terminale (ad esempio Eissler,
1955). Per quanto riguarda la morte per AIDS, nonostante il fatto
che siamo ormai giunti a più di ventanni dallinizio
di quella che può essere considerata lepidemia più
letale del XX secolo, la psicoanalisi, tranne rare eccezioni, ha
prestato relativamente poca attenzione a questo dramma. Ha dedicato
ad esempio molti studi a temi come la guerra o la distruttività
umana, lincesto o la violenza nelle famiglie, la delinquenza,
i disturbi psicosomatici, ecc., e relativamente pochi studi sui
problemi creati dallAIDS. Può essere che siamo ancora
troppo vicini a questo problema, o, peggio, che persistano paure
o pregiudizi (un altro tema che è stato trattato molto poco
è il modo con cui affrontare la malattia terminale del terapeuta
se e come dirlo ai propri pazienti, ecc. tema che
solo in tempi recenti è stato discusso in modo sistematico:
vedi ad esempio Barbanel, 1989).
Intendo discutere prima alcuni aspetti dellapproccio
al paziente sieropositivo allHIV, per poi allargare il tema
al rapporto col paziente terminale e più in generale che
affronta un dolore grave. Il paziente sieropositivo, e a maggior
ragione quello affetto da AIDS, è potenzialmente un paziente
terminale, anche se, con le conoscenze attuali, sappiamo che la
morte può essere ritardata di molti anni (agli esordi dellepidemia
si credeva che la morte fosse molto rapida, e il dolore provato
era estremamente maggiore, ad esempio si è assistito ad un
altissimo numero di suicidi).
La difficoltà di affrontare il problema
del dolore in un paziente terminale può essere alleviata
dal riferimento a modelli teorici, anche se questi non possono essere
completamente sostitutivi di una continua nostra elaborazione del
modo con cui ci rapportiamo con la salute, la morte, le priorità
della vita, e così via. Consapevoli dunque che i modelli
teorici possono avere per noi anche una funzione difensiva (in quanto
ci portano ad inquadrare i dati in modo predefinito e quindi più
rassicurante rispetto ad altri eventuali significati che essi possono
avere) vediamo come alcuni autori hanno descritto la fenomenologia
e la psicodinamica del dolore del paziente terminale.
Modelli teorici della psicologia del paziente terminale
Elizabeth Kübler-Ross nel 1969 ha fornito
un modello per descrivere il decorso del paziente quando apprende
di essere affetto da una malattia terminale. Questo modello è
basato su cinque stadi successivi: 1) negazione, 2) rabbia, 3) contrattazione,
4) depressione, e 5) accettazione. Questi stadi possono succedersi
in un ordine diverso e non necessariamente come separati. Ad esempio
una delle prime reazioni da parte di un paziente che apprende di
avere una malattia terminale può essere una combinazione
di negazione e depressione (stadi 1 e 4): la negazione è
una difesa più massiccia che rivela la incapacità
o impreparazione del soggetto ad essere consapevole di una sua possibile
morte (a causa dei conflitti che si creano tra i desideri, le emozioni,
i piani, ecc., connessi a una aspettativa di vita più prolungata,
e il loro abbandono a causa della eventualità di una morte
prematura); la depressione invece implica una consapevolezza, anche
se a volte inconscia, della eventualità della morte. Questi
due stati emotivi possono alternarsi, così come vediamo di
frequente nelle persone che hanno subìto un lutto (momenti
di tranquillità legata alla negazione del decesso della persona
cara, alternati da depressione o disperazione legate alla consapevolezza
della realtà).
Nichols (1987) descrive il decorso psicologico
dopo la consapevolezza dellinfezione da HIV e propone un modello
più semplice, caratterizzato solo da tre fasi successive
che condensano alcune delle fasi del modello della Kübler-Ross
(il modello di Nichols però può non essere facilmente
generalizzabile, soprattutto in contesti socioculturali diversi
da quello americano che era caratterizzato da pazienti quasi esclusivamente
omosessuali [vedi Bonfà, 1990b]). Vediamo comunque il modello
di Nichols:
1) Una prima fase spesso caratterizzata da negazione.
2) Una seconda fase chiamata "transizionale"
nella quale la negazione lascia il posto ad emozioni forti ed alternanti
quali rabbia, paura, terrore, depressione, ecc. In questa fase vi
è una certa disponibilità allintervento terapeutico
ma anche pericoli di suicidio. Nelle parole di Nichols, questa seconda
fase inizia "quando la negazione e la nonchalance incominciano
a incrinarsi e a svanire. Il paziente prova una serie di emozioni
alternanti: rabbia, paura, terrore, depressione, e pensieri suicidari.
È una fase davvero ribollente, ed è molto pericolosa.
I pazienti, essendo così aperti, in questo momento sono anche
molto disponibili allintervento. Non dobbiamo dimenticare
che quando vediamo i pazienti in questa fase caotica, essi possono
avere la tendenza ad isolarsi, il che può essere la premessa
al suicidio" (Nichols, 1987, p. 138).
3) Dopo la seconda fase vi è una terza fase
chiamata "di accettazione" o "di negazione rinforzata",
nella quale i pazienti non negano la malattia ma si adattano ad
essa vivendo meglio la loro vita, a volte molto meglio di prima,
diventando più produttivi e più realistici, quasi
come se avessero acquisito una nuova identità. Questa terza
fase è il risultato di un complesso processo psicologico
che sarebbe più appropriato definire come basato non su una
"negazione rinforzata" ma su una rimozione riuscita, cioè
sulla risoluzione del conflitto e la conseguente formazione di nuove
strutture psichiche che conducono a un maggiore adattamento allunica
realtà possibile, con la rinuncia allinutile desiderio
di una vita irrealizzabile. Blechner (1993), a illustrazione di
questa fase, riporta il caso di uno scrittore, malato di AIDS, che
in passato aveva sempre avuto problemi (come idee depressive e suicidarie)
e che nei tre anni successivi alla diagnosi di AIDS riuscì
a pubblicare due libri, a scrivere vari articoli, e a mantenere
una profonda e stabile relazione sentimentale per la prima volta
in vita sua.
A proposito però di questi cambiamenti così
radicali, soprattutto in un paziente precedentemente affetto da
una determinata psicopatologia, essi andrebbero ben differenziati
da un tipo di reazione psicologica che ha origini diverse: alludo
a quei casi, discussi soprattutto dagli psicoanalisti kleiniani,
che mostrano un benessere interiore nella misura in cui compare
un pericolo esterno reale. Sono stati osservati, ad esempio, casi
di scomparsa di depressione in tempo di guerra o di altre calamità
naturali. La certezza che esiste un male "reale" esterno
può dare un momentaneo benessere nella misura in cui il paziente
aveva una angoscia persecutoria interiore, la quale viene così
facilmente proiettata allesterno, nel senso che il paziente
si rassicura che il male è "fuori di lui", tale
da deflettere lattenzione da quello più minaccioso
che teme di avere dentro (vedi il concetto psicoanalitico di "identificazione
proiettiva": Migone, 1988,
1989, 1995a
cap. 7, 1995b,
2004). In altre parole, il paziente depresso o affetto da croniche
angosce persecutorie (come può essere stato il caso descritto
prima), nel momento in cui deve affrontare un dolore causato da
eventi esterni reali, può rispondere in modo paradossale,
riunendo le sue forze per combattere quella che ora è una
causa concreta, realmente esistente (ad esempio la malattia che
ora è più oggettivabile come malattia somatica, non
psicologica); sarebbe come se il paziente dicesse a se stesso che
la "colpa non è più sua ma di qualcunaltro"
(oppure non della psiche ma del corpo). Nel linguaggio kleiniano
o della teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali, ora il
paziente può finalmente sentirsi "tutto buono",
mentre il male è "tutto fuori" (prima il paziente
si sentiva "tutto cattivo", quindi il male era tutto dentro).
A me è capitato ad esempio di osservare il caso di un paziente
che aveva una serie di paure e angosce persecutorie, e che quando
scoppiò la Guerra del Golfo, che secondo alcuni commentatori
politici poteva minacciare anche lItalia e di cui lui aveva
molta paura, stette improvvisamente molto bene, fu di nuovo capace
di provare affetto e di fare lamore con la propria moglie,
scomparvero del tutto le fobie di cui soffriva da tempo, per poi
tornare come prima quando "purtroppo" la guerra finì
e cessarono i pericoli di un coinvolgimento italiano nel conflitto.
Del resto, sono ben noti i casi di paranoici che si tranquillizzano
nella misura in cui trovano un nemico reale esterno, e peggiorano
quando il nemico non si comporta come tale o non risponde alle loro
provocazioni (tanto che sembra che cerchino a tutti i costi un nemico,
o che provochino il prossimo fino a indurlo ad aggredirlo).
Per tornare allapproccio al paziente terminale,
nella prima fase dopo la consapevolezza della morte imminente (quella
caratterizzata spesso dalla negazione o da momenti in cui essa si
alterna con angoscia e depressione) è sempre meglio che loperatore
non cerchi di eliminare la negazione prematuramente tramite linterpretazione
o il confronto con la realtà (a meno che il paziente non
intraprenda azioni eterodistruttive, come ad esempio trasmettere
linfezione HIV ad altri, nel qual caso può essere consigliabile
confrontarlo con la realtà); è meglio che loperatore
si renda disponibile ad assistere il paziente quando questi è
pronto a superare la negazione. La realtà della morte è
talmente grave che i pazienti sono i primi ad affrontarla se ne
hanno la capacità, e se ne sono impreparati la negheranno
comunque (ciò a volte è ben testimoniato dalla tenace
negazione della morte da parte di quei medici, magari specialisti
in oncologia, che negano la propria malattia terminale rifiutandosi
di diagnosticare a se stessi il tumore maligno che li ha colpiti).
Può essere indicato cioè, per quanto possibile, lasciare
al paziente la scelta del modo con cui affrontare la consapevolezza
della eventualità di una sua morte prematura, a seconda della
maturità e della struttura difensiva di cui dispone.
Nel caso dellinfezione da HIV, è importante
a questo proposito che il paziente venga informato sulle incertezze
che ancora esistono riguardo al decorso dellinfezione. Bisognerebbe
informarlo che è possibile, per coloro che sono sieropositivi
e liberi da infezioni opportunistiche (herpes, funghi, polmoniti,
ecc.), rimanere senza sintomi per molti anni; che alcuni sembrano
non progredire verso lAIDS; che, per quanto si sa oggi, è
possibile vivere con lo stesso AIDS per molti anni; e che la migliore
strategia di vita è quella di continuare a fare tutte le
cose che si desidera fare meglio che si può per tutto il
tempo possibile, cercando nel contempo di fare scelte informate
per quanto riguarda il pericolo di infettare altri. Il paziente
deve anche essere educato sulla natura esatta della infezione, sulla
importanza della sua collaborazione eventualmente anche a discutere
col medico diverse opzioni terapeutiche, e così via. Mai
come in questi casi possono essere utili le tecniche di "psicoeducazione"
sulla natura della malattia, del contagio, e delle terapie esistenti
(le fantasie consce e inconsce, basate sulla ignoranza, sono sempre
peggiori della realtà). Può essere utile leggere libri
che informano sulla infezione HIV, intraprendere una psicoterapia
individuale, o partecipare a gruppi terapeutici o di self-help
(auto-aiuto).
È negli Stati Uniti che sono state accumulate
le esperienze maggiori nellapproccio psicologico con i pazienti
affetti da AIDS, dato che lepidemia là ha raggiunto
proporzioni molto vaste, anche se si è trattato inizialmente
di un campione di pazienti diverso da quello italiano: come sappiamo,
mentre in Europa lepidemia si è diffusa prevalentemente
tra tossicomani, negli Stati Uniti inizialmente fu tra omosessuali.
Reazioni controtransferali
Per parlare ora delloperatore di fronte al
paziente terminale, molte cose si possono dire sulle difese adottate
e sulle varie reazioni "controtransferali" (nel senso
di una accezione allargata del termine: per controtransfert qui
si intendono tutte le emozioni provate dalloperatore di fronte
al paziente). Tra le più comuni reazioni controtransferali
degli operatori vi è la negazione del dolore, il non parlarne
col paziente, il dimenticare lappuntamento con pazienti particolarmente
difficili, e così via. Tutti questi sono segnali del fatto
che a livello inconscio percepiamo bene la problematica del dolore,
connessa a nuclei più o meno bene elaborati dentro di noi,
per cui evitiamo un problema nostro, oltre che del paziente. È
possibile però anche che la negazione delle cause del dolore
da parte delloperatore sia una inconscia risposta empatica
al bisogno del paziente di negarle; in questo caso loperatore
però dovrebbe essere pronto a parlarne se il paziente diventasse
più disponibile. Non si dimentichi che molto spesso è
il medico che, ben più del paziente, ha paura del dolore
e gli impedisce di parlarne ostacolandogli la elaborazione del lutto
(in questo caso si tratta quindi di controtransfert in senso stretto,
non allargato).
Unaltra reazione molto spesso osservata è
quella opposta, cioè la fantasia onnipotente di far sparire
il dolore o la morte. Questa reazione si può dire uguale
e contraria a quella precedente, in quanto si nega ugualmente una
realtà. La fantasia può essere quella di poter curare
una malattia terminale con terapie alternative o con mezzi psicologici:
in certi paesi ad esempio si legge sui giornali la pubblicità
di certi "curatori" che illudono con una possibile guarigione
le persone meno equipaggiate culturalmente, per poi magari farle
sentire colpevoli se non guariscono come era stato promesso. Ma
anche alcuni di noi in un certo qual modo possono comportarsi come
questi "curatori": si tratta di quegli operatori o quegli
amici che si dedicano totalmente ai pazienti che soffrono, offrendo
loro molto del loro tempo anche a domicilio, passando ore al capezzale
del paziente, in una sorta di missionarismo che può rivelare
una onnipotenza come negazione massiccia del dolore o della morte,
come incapacità a percepirla, come espressione di ansia da
parte nostra. Questo che alcuni autori hanno chiamato "folle
amore generoso e gratificante", questa "fusione patologica"
basata su una "grandiosità maniacale", può
avere momentanei effetti benefici se il paziente utilizza le stesse
difese, ma può essere di corto respiro e condurre al burn-out
delloperatore (per una vivida descrizione clinica di questa
"cura attraverso la follia", vedi Langs, 1985, cap. 17).
Opposta a questa difesa vi è lindifferenza,
labitudine, tipica in coloro che hanno visto molti casi di
pazienti o amici che hanno subito grandi dolori. A proposito della
epidemia dellAIDS, negli Stati Uniti non solo gli operatori
del settore, ma anche i membri di certe comunità omosessuali
sono stati sottoposti a questo tipo di lutto esteso: cè
chi ha contato fino a 10 amici morti, o chi addirittura ha perso
tutti gli amici, situazione che alcuni autori hanno paragonato a
quella della guerra e dellolocausto nazista. In molti casi
questa indifferenza può essere adattiva. Va segnalato inoltre
che in alcuni di coloro che sono rimasti vivi è stata descritta
la sindrome della "colpa del sopravvissuto" (Beres, 1958;
Balson, 1975; Niederland, 1981; Weiss, 1993; Weiss & Sampson,
1999; Weiss et al., 1986), che eventualmente può essere
rinforzata dal desiderio che spesso si ha avuto che un paziente
o un amico affetto da una malattia terminale morisse presto per
lorrore delle sue sofferenze.
Unaltra tipica difesa che si nota di fronte
alla morte imminente è luso dellironia, allo
stesso modo con cui alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento
hanno raccontato che venivano trattati coloro che incominciavano
a mostrare gli inconfondibili segni del decadimento organico per
eccessiva denutrizione, il passo incerto, ecc., il quadro insomma
che regolarmente preludeva alla loro morte di stenti. Tale era langoscia
di fronte a questi compagni che non ce la facevano più, e
tale la paura di fare la stessa fine, che essa veniva negata col
cinismo e lironia, e questi compagni moribondi, come hanno
raccontato alcuni sopravvissuti, venivano derisi con nomignoli vari.
Luso dellironia come difesa da sensazioni angoscianti
è stata descritta anche in tante altre situazioni cliniche.
Si vedano ad esempio le interessanti osservazioni di Perry (1983)
sul "bisogno di dolore" di certi pazienti gravemente ustionati,
come alcuni vigili del fuoco che avevano perso la quasi totalità
della superficie cutanea e quindi anche il senso della propria identità
corporea, i quali venivano regolarmente chiamati "hamburgers"
dallo staff infermieristico che cercava in questo modo di
evitare langoscia di mettersi nei loro panni. In alcuni casi
è stato anche osservato, in modo molto interessante, che
il medico tendeva a non dare una dose adeguata di antidolorifici,
come se la totale assenza di dolore, associata alla mancanza di
una identità corporea, provocasse una angoscia tale che un
po di dolore almeno dava una rassicurante sensazione di esistenza,
di identità (dolet ergo sum, si potrebbe dire, parafrasando
il noto motto cartesiano cogito ergo sum). Vengono in mente
quei medici che a volte, ad esempio durante la palpazione di un
addome, non prestano la dovuta attenzione a non suscitare acute
reazioni dolorose da parte del paziente, anzi sembra quasi che le
provochino, più o meno inconsciamente, quasi a rimarcare
che è il paziente che ha il dolore, non il medico, e a rassicurarsi
che i rispettivi ruoli siano ben distinti.
Questa funzione rassicurante o per così
dire "terapeutica" del dolore, sia nel paziente che nel
medico, fa venire in mente certe interessanti intuizioni cliniche
di Kohut (1971, 1977, 1984), lo psicoanalista fondatore della Psicologia
del Sé, quando mostrava come certe stimolazioni forti
quali uso di droghe, gioco dazzardo, automutilazioni, tagli,
ecc. possono servire a compensare un senso di dolore emotivo,
di depressione, di malessere interiore o di "frammentazione
del Sé" non altrimenti gestibile, laddove invece una
forte sensazione fisica, anche se dolorosa, risveglia e "compatta"
la psiche, facendola uscire da un malessere ancor peggiore (allo
stesso modo con cui a volte i bambini autistici nelle istituzioni
totali passavano la giornata a battere la testa contro il muro [head-banging],
quasi nel tentativo di provare almeno qualcosa per uscire dal vuoto
e dalla solitudine in cui erano immersi). Altrettanto interessanti
sono a questo proposito le osservazioni cliniche di Kohut sulle
funzioni della erotizzazione negli adulti, soprattutto se "perversa"
e masturbatoria, come stimolazione del Sé per difendersi
dal vuoto, da un senso di frammentazione, da un rapporto di coppia
entrato in crisi o privo di senso, di valori e di stima reciproca.
Per Kohut, molte manifestazioni di erotizzazione non nascono da
una genuina ricerca di sessualità, ma da un tentativo di
uscire dalla noia e dalla depressione, come ben dimostrato dalla
improvvisa scomparsa di certi comportamenti erotici quando il soggetto
risolve determinati problemi esistenziali e trova un senso nella
sua vita che prima non aveva.
Un inquadramento teorico generale
Fin qui ho accennato ad alcuni modelli teorici
delle reazioni psicologiche del paziente che è messo di fronte
a un dolore molto grande quale una malattia terminale, ho dato alcune
sommarie indicazioni sul modo con cui loperatore dovrebbe
affrontarle, e illustrato alcune dinamiche controtransferali. Può
non essere un caso che ho procrastinato di affrontare in modo approfondito
la questione di cosa si dice a un paziente terminale o che si trova
di fronte a un dolore immenso: questo tema ha a che fare con le
più profonde reazioni psicologiche con le quali ci rapportiamo
al dolore, e, nel caso della morte, con la nostra concezione della
morte. Quando si parla della morte è difficile farlo in modo
appropriato, tanto che forse è preferibile tacere, proprio
come a volte il modo migliore con cui possiamo testimoniare la nostra
partecipazione a un amico che ha subìto un lutto è
quello di stare per un po in silenzio accanto a lui; ogni
nostra parola può non essere allaltezza della complessità
e della delicatezza dei sentimenti che lui può provare. La
morte è uno dei fenomeni meno comprensibili e meno immaginabili.
Questo tema è stato affrontato da tanti autori dai punti
di vista delle rispettive discipline: medicina, psicologia, filosofia,
religione, ecc. Io in questa sede mi limiterò a suggerire
un inquadramento teorico generale dellapproccio al paziente
terminale, approccio che può essere esteso, come dicevo,
anche al dolore grave.
Linquadramento teorico generale che ritengo
più utile è quello di considerare la preparazione
alla morte come un importante "evento di vita" (life
event), cioè una di quelle situazioni destinate a provocare
grosse ripercussioni nellequilibrio psicologico del soggetto.
Altri "eventi di vita" possono essere la morte di una
persona cara, una separazione, un improvviso licenziamento lavorativo,
ecc., quindi ogni tipo di dolore. Propongo cioè di non considerare
la morte come un evento doloroso particolare rispetto a tutti gli
altri (come si farebbe seguendo una determinata filosofia o concezione
della morte), anche se si può obiettare che esso è
di gran lunga il più significativo in quanto relativizza
tutti gli altri. Ma limpatto di qualunque evento dipende dai
valori adottati dal soggetto e dai significati che esso assume in
quel determinato momento del ciclo vitale. Non a caso gli eventi
di vita vengono tradizionalmente divisi in due sommarie categorie:
i timely events e gli untimely events. I primi
sono gli eventi prevedibili che avvengono in un tempo "normale",
e i secondi quelli invece non prevedibili che vanno contro al tempo
che regola le aspettative della nostra esistenza. Un esempio di
evento normale è la morte di un genitore (o la propria morte)
in età avanzata, mentre un esempio di untimely event
è la morte di un figlio per un genitore, una malattia inaspettata,
un qualunque evento doloroso che non è previsto dalle nostre
aspettative, per cui siamo meno preparati. Quello che voglio dire
è che anche la morte può avere significati molto diversi:
una cosa è morire in età avanzata dopo una ricca e
soddisfacente vita, e ben altra cosa è morire in età
giovanile per un banale incidente (o per linfezione di un
virus come lHIV, magari preso in modo accidentale o a causa
di un comportamento illegale, di cui ci si sente in colpa e che
si è poi abbandonato). Non solo, ma limpatto della
morte (come di qualunque dolore) varierà a seconda dei rispettivi
significati che ad essa darà ogni singolo paziente, del suo
sistema di valori (se è religioso e, nel caso, di quale religione,
oppure non credente e, nel caso, quel è la sua "ideologia"),
e soprattutto secondo la sua maturità o struttura psicologica,
cioè il suo apparato difensivo. In determinati casi e in
un determinato momento del percorso esistenziale, può essere
più facile sapere cosa dire a un giovane terminale che a
una persona disperata per aver perso un congiunto in un incidente
o addirittura per essere stata lasciata dal proprio partner (questo
evento può da taluni essere considerato peggiore della morte,
tanto da preferire il suicidio ad una separazione).
Proporrei dunque di non adottare una determinata
concezione del dolore o della morte, ma semplicemente una psicologia
delle reazioni agli eventi di vita (cioè una "psicologia
delladattamento", perché di questo si tratta [Hartmann,
1937]), cioè di considerare la morte come un evento tra i
tanti, con i suoi significati particolari che variano da caso a
caso. Come abbiamo visto, questi significati non sono universali
ma dipendono da variabili del paziente (età, aspettative,
struttura psichica, valori, ecc.) e anche delloperatore (sua
ideologia, suoi lutti subiti, sue difese controtransferali, ecc.).
Ladozione di una normale psicologia delladattamento
si presta maggiormente ad essere utilizzata in unepoca di
"pluralismo etico" (ed anche "etnico") quale
è lattuale, in quanto rispetta i significati che ciascuno
dà alla morte ed agli altri eventi della vita. Essa ha inoltre
il vantaggio di fornire un inquadramento generale allapproccio
anche verso altre situazioni cliniche, senza rinchiuderci nel vicolo
cieco di una determinata tecnica. In questo senso, potremmo allo
stesso modo chiederci "che cosa si dice a un paziente che non
prova dolore", cioè quali sono i significati che egli
attribuisce agli eventi della propria vita, qualunque essi siano,
dai più piacevoli ai meno piacevoli.
Tre diverse tanatologie: freudiana, fenomenologia,
e religiosa
Ho detto che una delle variabili importanti da
cui dipende lapproccio al dolore e ai suoi significati è
la teoria alle spalle delloperatore, la quale può essere
anche espressione del suo sistema di valori o di credenze (i quali
a loro volta possono dipendere dal grado con cui ha risolto determinati
conflitti, quindi dalle sue difese). Riguardo alla morte, vediamo
brevemente alcuni esempi che possono essere espressione di diverse
tanatologie, rispettivamente quella freudiana, quella antropofenomenologica,
e quella religiosa.
Freud credeva in una tanatologia secondo la quale
nessuno nel profondo crede nella propria morte, della quale abbiamo
sempre paura così come il bambino ha paura del buio. Sarebbe
insomma una mistificazione accettare la morte come parte della vita,
perché nel profondo tutti noi ci ribelliamo ad essa e vorremmo
vivere in eterno. Alcuni psicoanalisti inoltre possono interpretare
la morte come ad esempio come una castrazione o una separazione
dalla madre: dietro vi è lassunto che esistano determinate
pulsioni primarie universali che si oppongono alla morte, alle separazioni,
ecc. Una siffatta interpretazione della morte può avere un
effetto benefico in alcuni casi, ma un effetto ansiogeno e peggiorativo
in altri perché può trasmettere inconsciamente al
paziente la sensazione che il terapeuta si difenda nei confronti
della morte, come se dovesse negarla e spostarla su qualcosaltro
tramite linterpretazione. Altri psicoanalisti invece adottando
unaltra tanatologia, e ritengono che la morte possa essere
accettata dallindividuo come parte naturale della vita, non
postulano cioè una paura universale della morte. Oggi cioè
molti non credono più che i significati della morte debbano
essere interpretati secondo schemi precostituiti, eppure va ricordato
che la morte, così come qualunque altro evento, in un certo
senso va sempre "interpretata" per essere elaborata, ridimensionata
e accettata allinterno della nuova struttura di significati
del paziente. Ad esempio, una frequente fantasia riguardo alla propria
morte prematura è che essa ci viene data come giusta punizione
per determinati nostri comportamenti (nel caso dellAIDS, per
la tossicomania o per un comportamento sessuale vissuto come illecito;
oppure, come è tipico della fantasia di castrazione "edipica",
anche per un successo nella vita o nella carriera vissuto come proibito).
Interpretare al paziente queste dinamiche può aiutarlo molto,
ad esempio diminuendo il suo senso di colpa. La mente umana, fin
da quando siamo piccoli, ha sempre la tendenza a costruire significati,
a instaurare connessioni causali tra gli eventi per dare loro un
senso: una delle cose più difficili da accettare è
che certi eventi non sono spiegabili, che sono fuori dal nostro
controllo. Pensare che è "colpa nostra" è
anche rassicurante perché ci dà una illusione di onnipotenza
(come se ci dicessimo: "se sono io a causare il dolore, posso
anche eliminarlo").
Se guardiamo invece allapproccio antropofenomenolgico
(ad esempio quello di Binswanger), viene data lindicazione
di accettare la morte in quanto tale, cioè come fenomeno
che non va interpretato ma semplicemente "vissuto" assieme
al paziente; questo approccio può essere di grande giovamento,
aiutando molti pazienti ad accettare la realtà che hanno
di fronte senza utilizzare altre difese. È anche possibile
però che alcuni pazienti non siano capaci di entrare in contatto
col sentimento della propria morte, e che abbiano un assoluto bisogno
di negarla. Il fenomenologo in questo caso dovrebbe semplicemente
saper rispettare il mondo interno del paziente.
Infine, la tanatologia religiosa può confortare
il paziente dandogli la speranza di una vita ultraterrena, per cui
la paura della morte come interruzione di tutto può essere
molto alleviata se non addirittura eliminata. Ma una rassicurazione
religiosa può avere un effetto paradossale in un non credente
se questi vi legge un tentativo di negare un evento che lui si sente
pronto ad accettare (si ricordino le imprecazioni de Lo straniero
di Camus [1942] che non si sentì affatto capito dal sacerdote
che voleva consolarlo prima della sua esecuzione capitale).
Le tecniche terapeutiche
Prima abbiamo visto che di fronte alla propria
morte il paziente può reagire con determinate difese (come
la negazione), così come avviene nel tipico percorso di chi
subisce un qualsiasi dolore (prima una negazione, poi momenti alternanti
di disperazione e indifferenza, poi una depressione di alcuni mesi,
e infine eventualmente una accettazione e un maggiore adattamento).
In tutti questi casi si tratta sempre del lavoro psicologico che
il paziente deve fare per riaggiustare i suoi schemi mentali consci
e inconsci, i suoi piani di azione, le sue aspettative, e rinunciare
a desideri che prima aveva. Come ci ha insegnato la psicologia del
lutto (vedi il bel saggio di Freud del 1915 Lutto e melanconia),
è necessario un tempo ben preciso affinché il soggetto
riesca a portare a termine questo lavoro psicologico e ad adattarsi
alla sua nuova realtà. Così come la cicatrice di una
ferita cutanea necessita di un determinato tempo per rimarginarsi,
allo stesso modo una ristrutturazione dei significati della nostra
esistenza necessita di un tempo (in genere più lungo di quello
necessario per una ferita fisica) per renderci disponibili a nuovi
progetti o aspettative (le nostre mappe neuronali sono plastiche,
ma hanno i loro tempi). In tutti i casi, loperatore deve fare
una valutazione dellequilibrio difensivo del paziente e dargli
il giusto aiuto nellimprimere una direzione al processo affinché
avvenga nel più breve tempo e nel modo meno doloroso possibile,
rimuovendo gli ostacoli che si possono frapporre (distorsioni cognitive,
fraintendimenti, illusioni, modificazione di valori o trasmissione
di nuovi valori più adattivi di quelli precedenti, e così
via).
Riguardo infine al problema delle tecniche terapeutiche
specifiche che possono essere utilizzate nellapproccio al
paziente afflitto da un grave dolore, alcuni si pongono il problema
delle indicazioni e controindicazioni della psicoanalisi versus
psicoterapia espressiva o supportiva, o altre tecniche terapeutiche
(si pensi a tecniche oggi di moda come il debriefing, o la
EMDR [Shapiro, 1995], e così via). A mio parere il problema
non è quello di cosa si deve fare, ma di cosa si
può fare. È il paziente che ci impone la tecnica
a seconda del suo assetto psicologico (tipico è il caso dei
pericoli della interpretazione della difesa della negazione, nella
prima fase del modello descritto prima). Una seconda variabile fondamentale
per la scelta dellapproccio terapeutico, posto che abbiamo
una coerente e comprensiva teoria psicologica a monte (vedi a questo
proposito Gill, 1984; Migone, 1991, 1992a,
1995c),
è il tempo che abbiamo a disposizione, cioè le cose
possono essere molto diverse se possiamo iniziare con calma un lavoro
a lungo termine, e il paziente è nelle condizioni di poterlo
fare, oppure se operiamo in una situazione di estrema urgenza (come
ad esempio di fronte a catastrofi di enormi proporzioni, lutti multipli
improvvisi ecc., eventi che purtroppo hanno occupato le cronache
degli ultimi anni).
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John T. Curtis, Polly B. Fretter, Harold Sampson, George Silberschatz,
Joseph Weiss). Presentazione di Antonio Semerari. Introduzione
di Marco Casonato. Urbino: Quattroventi.
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la sua presentazione scientico-organizzativa puo' essere mandato via posta
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