CONVEGNO INTERNAZIONALE FENASCOP
"SOGNI e bi-SOGNI IN PSICHIATRIA"
16-19 maggio 2007
Hotel Villa Pamphili
Roma
IL CONGRESSO ON LINE - REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI
PRIMA GIORNATA - VENERDI' 18 MAGGIO 2007
Sessione plenaria
STRUTTURE COMUNITARIE:CONTENUTO O CONTENITORE DI TERAPIA?
Questa giornata di lavori si apre con l'intervento della Dott.ssa A. M. Nicolò, che parla del setting per la psicoterapia nelle istituzioni. Ella introduce l'argomento prendendo spunto da un caso clinico in cui un sogno portato dal padre di una paziente ricoverata in una CT riassumeva l'importanza del setting e delle dinamiche interpersonali intrafamiliari ed intracomunitarie vissute dalla paziente.
La relatrice indica la necessità per gli operatori delle CT di muoversi su due assi, uno intrapsichico (per rafforzare il sé del paziente) ed uno interpersonale (inteso come lavoro sui legami patologici che si ripetono all'interno del setting terapeutico ed istituzionale).
L'osservazione e la decodificazione di questi legami è utile oltre che al paziente anche agli operatori, in quanto limita il rischio di essere coinvolti nelle dinamiche patologiche messe in atto dall'ammalato.
In comunità si intersecano numerosi setting, quello istituzionale, quello individuale, gruppale e della supervisione, rendendo sì maggiormente il lavoro, ma ciò consente anche attraverso la lettura di quello che accade di conoscere i meccanismi intrapsichici del paziente.
In particolare i pazienti psicotici sviluppano nei confronti degli elementi concreti del setting un transfert spesso sottovalutato, ma che in realtà rappresenta un aiuto nella loro comprensione nonché una protezione per i curanti. La stessa costruzione del setting può essere molto difficile da parte del terapeuta, ma va considerato come un elemento già di per se terapeutico che col tempo il paziente sarà in grado di internalizzare. In quest'ottica lo spazio comunitario si può considerare un setting trasformativo già di per sé terapeutico e che gli attacchi del paziente allo stesso sono un attacco al legame con i curanti.
Prosegue gli interventi il Prof. F. Petrella che espone una relazione dal titolo "I fattori in gioco negli interventi cosiddetti comunitari". La CT è nata in antitesi alla realtà manicomiale, aspetto questo che ha rappresentato un elemento unitario tra movimenti fra loro molto eterogenei sviluppatisi all'inizio degli anni '70 sul terreno ideologico della critica sociale in concomitanza alla nascita delle teorie psicoterapeutiche delle psicosi.
Il relatore prosegue commentando quattro rappresentazioni pittoriche dello spazio sociale nella sua evoluzione storica che possono costituire quattro istantanee dello spazio comunitario .
La prima è "La città ideale" della Scuola di Piero della Francesca ('400), emblema dell'ordine e dell'armonia in cui trionfa l'ideale scientifico e razionale della comunità perfetta. L'uomo non è rappresentato se non come osservatore nascosto dietro finestre socchiuse. Questo pone l'accento sulla necessità di pensare con particolare attenzione ai luoghi terapeutici senza perdere di vista la centralità delle persone che interessano il nostro lavoro.
In "Combattimento tra carnevale e quaresima" (1457, Brueghel) si presenta una scena caotica, fortemente contrapposta alla precedente, in cui gli uomini contengono le antitesi più emozionali all'interno di una dimensione di gioco.
Viene quindi presentata un'opera grafica di Piranesi rappresentante un'altra articolazione dello spazio sociale in cui convivono aspetti di un passato remoto con il presente, a tratti schiacciandolo.
Infine il relatore propone l'opera di Boccioni "Rissa in galleria", in cui la conflittualità sociale del '900 investe lo spazio e lo frantuma.
Attualmente nell'ambito delle CT si incontrano difficoltà a passare dalla pratica quotidiana alla riflessione critica su questa. Gli interventi terapeutici si rifanno a tecniche e modelli piuttosto eterogenei, ma che in comune hanno il tentativo di reinscrivere i pazienti in un cerchio di interesse e desiderio. E' importante non soffermarsi sui dettagli delle singole personalità di questi e sulla disabilità determinata dalla patologia, ma puntare al ripristino delle abilità sociali ed emotive perdute.
Segue la Dott.ssa E. Pajero che descrive l'approccio psicoanalitico multifamiliare. In questo ambito si sviluppa un setting privilegiato in quanto la presenza di diversi nuclei familiari, e quindi di numerose persone, mostra attraverso meccanismi di rispecchiamento metaforici al paziente stesso ed alla sua famiglia le modalità patologiche messe quotidianamente in atto. La metafora in questo caso è concreta in quanto è contenuta all'interno della famiglia e non è una interpretazione dell'analista che può dare origine ad un fraintendimento.
Il setting di questo tipo di terapia "terzializza" la relazione normalmente schiacciata tra due componenti (terapeuta e paziente) e si può applicare in diverse situazioni oltre all'ambito comunitario anche in ambulatori, reparti ospedalieri, centri diurni, ecc.
La relatrice conclude sottolineando l'importanza di porre attenzione non solo alla situazione di malattia del paziente ed al suo decorso, ma alla sua vera storia ed alla potenzialità sana.
Conclude questa prima parte di relazioni la Dott.ssa La Cascia, facente le veci del Prof. La Barbera, con un intervento riguardante livelli e dimensioni della riabilitazione psichiatrica, campo in cui c'è stata e c'è ancora una forte spinta al cambiamento ed all'innovazione, sia per la svolta postmanicomiale che sulla scorta delle nuove conoscenze nell'ambito delle neuroscienze.
Le nuove frontiere della riabilitazione sono: ridisegnare le mappe dell'assistenza rimodulandone tempi e luoghi e riconsiderare ipercorsi terapeutici per i pazienti psicotici.
Risorse e punti critici del processo riabilitativo sono quelle interne al singolo operatore, quelle dell'equipe multidisciplinare, quelle della famiglia e dell'ambiente e quelle socioeconomiche.
Un buon operatore dovrebbe essere dotato di motivazione, di capacità gestionali, nonché di attenzione, pazienza, costanza e deve tendere ad un miglioramento continuo.
Per quanto riguarda le risorse dell'equipe, questa deve avere la capacità diinterfacciare modelli, saperi e attività diversi; il ruolo dello psichiatra è quello di gestione e coordinamento, ma ciò non sempre è così scontato e facilmente attuabile in quanto la formazione specialistica è diffusamente carente in quest'ambito.
La famiglia rappresenta una variabile importante per l'esito riabilitativo, ma spesso c'è una forte discrepanza tra le esigenze della famiglia (di informazione e supporto) e quelle degli operatori (che tendono spesso ad includerla nella psicopatologia del paziente).
Fondamentale è poi interfacciare le attività riabilitative con le imprese, le pubbliche amministrazioni, le cooperative e le agenzie sociali e di volontariato.
La dott.ssa conclude sottolineando come il problema del confronto con la cronicità è quello che mette più a dura prova la motivazione del professionista e l'anima terapeutica senza la quale la relazione con i pazienti diventa burocratica e mortifica.
Gli interventi preordinati si aprono con l'intervento del Dott. Antonio Maone, responsabile della Comunità Terapeutica Cabrata Asl/Roma, che propone alcune riflessioni sulla residenzialità in senso lato. Offre un prospetto sul decorso di alcuni disturbi psichiatrici gravi ed in particolare della schizofrenia spiegando che a fronte di un 25% di pazienti che non guarisce, ce ne sono altri, circa il 75% che hanno un decorso di miglioramento anche in presenza di sintomi. Parla del concetto di Recovery, inteso come recupero di quella fascia di pazienti per cui appunto i sintomi rimangono, ma per i quali si possono progettare interventi adeguati.
In questi ultimi anni il numero di posti letto negli Ospedali Psichiatrici è sceso notevolmente mentre sono salite le disponibilità presso le strutture residenziali. Di fatto oggi il campo della residenzialità è il nuovo spazio per il trattamento di pazienti gravi. Allo stato corrente ci sono pochi studi di processo e longitudinali che possano chiarire che cosa succede all'interno delle Comunità. Sulla base di uno studio DAPS si è potuto capire che gli esiti migliori del trattamento residenziale si hanno se vengono soddisfatti i seguenti requisiti: piccole dimensioni delle strutture, pochi ospiti, ambienti familiari, poche regole, basso livello di controllo da parte degli operatori, alta qualità infrastrutturale, alta qualità nella relazione fra operatori ed utenti, libertà di creare una leadership, clima emotivo positivo e facilitante.
Le strutture residenziali sono basate più o meno esplicitamente sul paradigma del continuum residenziale: il paziente deve poter procedere lungo un vero e proprio percorso. Questo concetto diventa difficilmente realizzabile sul territorio poiché ci sono limiti dettati dal numero di posti letto, dalla perdita di supporti sociali da un passaggio all'altro per il paziente, ecc. Si rischia di lavorare avendo la presunzione di sapere sempre cosa sia meglio per il paziente arrivando al paradosso di insegnargli a non cavarsela da solo e costringendolo ad una dipendenza forzata.
Se le strutture residenziali ospitano il paziente a lungo rischiano di diventare una "casa". Esistono alcuni errori di fondo nell'idea di continuum relativi allo stretto legame che si crea tra operatori ed utenti, alla sovrapposizione ed alla confusione nei trattamenti ed al bisogno di avere un posto in cui vivere. Ecco allora la necessità di creare un nuovo paradigma: disgiungere i bisogni abitativi dai bisogni assistenziali. L'assistenza deve essere individualizzata e flessibile e serve un'alta qualità del supporto domiciliare, il tutto realizzato in un' ottica di dialogo tra pazienti ed operatori.
Prima a Torino e poi a Roma si è cercato di inserire alcuni pazienti in strutture abitative non temporanee, in vere e proprie "case", in cui l'alloggio e l'assistenza sono funzionalmente ed istituzionalmente separati. I familiari dei pazienti sono stati coinvolti nel progetto e sono diventati parte attiva nella sua realizzazione, con un adeguato lavoro si supporto che ha portato ad una sorta di mutualismo dal basso. I risultati sono stati davvero incoraggianti.
In conclusione il relatore spiega l'importanza di prevedere fin dall'inizio se una persona avrà bisogno di un'assistenza a lungo termine, senza stabilire una dipendenza patologica. E' necessario ascoltare i pazienti, capire che cosa desiderano, molto spesso si tratta di una casa, come è per la maggior parte delle persone. Ci si auspica di pensare in termini di disabilità funzionale e non di cronicità, di strategie e non di tecniche; serve altresì un approccio umanistico e non umanitario.
L'intervento si chiude con una provocazione: " Se c'è una cosa straordinaria nei servizi psichiatrici è senza dubbio il fatto che in qualche modo funzionano".
Prende poi la parola il Dott. Furio Ravera, direttore sanitario Crest (Milano) che parla di pazienti con gravi disturbi di personalità e della possibilità di trattarli presso le Comunità Terapeutiche. Sottolinea da subito l'importanza di ascoltare davvero i pazienti: troppe volte questo non avviene a causa dello stigma che grava sul paziente. La responsabilità degli operatori è quella di trattare la disabilità: i pazienti con disturbi di personalità spesso si sono sentiti gravare del peso della loro non trattabilità, ma siamo noi che dovremmo sempre chiederci se e cosa stiamo davvero facendo per loro.
Per affrontare il tema della non trattabilità dei pazienti con disturbo di personalità grave bisogna fare alcune considerazioni. Intanto riguardo alla formazione degli operatori delle Comunità Terapeutiche: psicoterapeuti, educatori, psichiatri che sovente non hanno ancora un'idea precisa del contesto in cuoi operano. Se hanno una formazione di stampo psicodinamico, magari psicoanalitico, essa può diventare un ostacolo alle cure perché l'ascolto è mirato a fornire interventi tecnici, cioè alle interpretazioni, su un piano gerarchico molto alto. Il paziente può magari cogliere solo un ascolto empatico da parte dell'operatore, oppure una complessa esperienza interpersonale.
La Comunità Terapeutica può invece diventare un "limbo esistenziale", abbassando i desideri, facendo passare da "un eterno sabato sera ad un lunedì pomeriggio", in cui il paziente impara a posticipare i desideri e ad instaurare un contatto terapeutico. Tutto il percorso è costellato di interventi per potenziare l'insight : fare attenzione alla osservazione da una prospettiva esterna, interpretando, considerando le libere associazioni. La relazione terapeutica acquisisce una nuova forma con delle regole, per pazienti che non hanno confini propri.
Strategie secondarie sono: uso implicito o esplicito della suggestione, confutazione di credenze disfunzionali, esame di metodi consci di problem-solving, esposizione, forme di self-disclosure (rivelazione di sé).
Il paziente con disturbo di personalità è difficilmente accessibile ad un intervento di tipo psicoterapico anche se per alcune categorie diagnostiche c'è un maggior margine di lavoro ( Cluster C). All'interno della Comunità terapeutica il paziente deve prendere consapevolezza di alcune sue caratteristiche, riconoscendo alcuni dei suoi tratti peculiari per provare a modificarli con l'aiuto degli operatori. Nelle strutture residenziali insomma si cerca di bonificare il paziente e di prepararlo agli interventi di tipo ambulatoriali.
La sezione si chiude con l'intervento del Dott. Bruno Pinkus, responsabile di Comunità Gnosis, che parte dalla Legge 180 per valutare la sostanziale trasformazione che nel corso degli anni ha interessato la cura della salute mentale. La fase iniziale del cambiamento è stata caratterizzata da un intenso dialogo con le istituzioni e la politica poi ha preso il sopravvento nel preparare la societàà ad accettare la malattia mentale. In quegli anni c'era un clima di maggior coraggio, di più alta creatività, poiché si stava verificando un cambiamento di matrice culturale.
Progressivamente si è aperto un fronte critico sul significato del percorso riabilitativo portato avanti dalle Comunità Terapeutiche, per cui non si è arrivati a non sapere più chi deve fare cosa. La Comunità doveva essere uno strumento in una progettualità definita, volta ad incrementare i livelli di autonomia. Questo non è avvenuto a causa di fattori intrinseci ma anche per problemi economici, della società e delle istituzioni.
La contrazione dell'economia ha causato una fase di transizione che ha messo in discussione il ruolo delle istituzioni. Le richieste che vengono fatte alle Comunità Terapeutiche sono di delimitare in un breve arco di tempo degli interventi specialistici di alto costo e di promuovere accordi a pacchetto per l'utente. Inoltre dovrebbero attivare il volontariato servizi che non prevedano costi aggiuntivi.
Sembra invece importante: collocare il paziente in un più breve tempo possibile, ridimensionare l'enfasi sulla diagnosi e sulla prognosi, disporre di un interlocutore unico per collocare il paziente al di fuori dell'ambito familiare. Alla luce di queste difficoltà emergono gli aspetti imprenditoriali che condizionano gli indicatori di qualità al trattamento.
Le prospettive in cui si muovono le Comunità Terapeutiche devono prevedere: risposte variegate e flessibili e progetti centrati sulle necessità del paziente. Serve un modello a filiera, dinamico e flessibile e la Comunità non deve essere concepita come un contenitore rigido, ma può assumere nuove competenze, divenendo anche un punto di riferimento per i familiari dei malati.
A cura di S. Gotelli, W. Natta, L. Peruzzo.
| LINKS
CORRELATICOLLABORAZIONI Dato l'alto numero degli avvenimenti congressuali che ogni anno vengono organizzati in Italia e nel mondo sarebbe oltremodo gradita la collaborazione dei lettori nella segnalazione "tempestiva" di congressi e convegni che così potranno trovare spazio di presentazione nelle pagine della rubrica. Il materiale concernente il programma congressuale e
la sua presentazione scientico-organizzativa puo' essere mandato via posta
elettronica possibilmente in formato WORD per un suo rapido trasferimento
online Scrivi alla
REDAZIONE DI POL.it |