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MANIFESTO CONGRESSO

IX Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI)
RUOLO CENTRALE DELLA PSICHIATRIA IN MEDICINA

Roma.
Hotel Hilton Cavalieri
24 febbraio - 28 Febbraio 2004

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IL CONGRESSO ON LINE - REPORT ED INTERVISTE ESCLUSIVE DALLE SALE CONGRESSUALI

TERZA GIORNATA - GIOVEDI' 26 FEBBRAIO 2003
I REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI

Lettura magistrale: The central role of depression in medicine del Prof. D. J. Kupfer (Pittsburgh USA).
Una riflessione sulle interazioni tra depressione e patologie internistiche, in particolare diabete, ipertensione e neoplasie.
Secondo alcuni studi nel 2020 la prima causa di morte nel mondo occidentale sara’ la cardiopatia ischemia, seguita dalla depressione.
Il 25% circa dei pazienti affetti da neoplasia soffre di depressione, come pure il16-30% dei pazienti affetti da sclerosi multipla e tra il 9-31% dei pazienti che hanno avuto uno stroke.
La comorbilita’ tra disturbo medico e depressione comporta un costo maggiore delle cure, per abbattere i costi pero’ non e’ sufficiente controllare i sintomi della malattia, bisogna ottenere la remissione dell’ episodio.
Ci sono varie ipotesi sul perche’ depressione e patologia cardiovascolare, dalla scarsa compliance nei confronti delle terapie al fumo, all’ ipercolesterolemia, ipertensione, diabete.
Vi sono evidenze in direzione dell’ ipotesi che nella patologia neoplastica le citochine dell’ infiammazione concorrano alla patologia depressiva, nei prossimi anni il suo gruppo di lavoro si propone di studiare l’ associazione nei depressi con vari parametri bioumorali tra cui glicemia a digiuno, PCR, colesterolemia, BMI e cosi’ via.

Sessione plenaria: Psicopatologia: dall’ adulto al bambino e viceversa G.Levi, P.Pancheri
Apre i lavori l’ intervento di G. Levi che individua nell’ ambito della psicopatologia dello sviluppo le discontinuita’ apparenti. Se per lo psichiatra dell’ adulto possiamo parlare di comorbilita’ in parallelo, nell’ ambito della neuropsichiatria infantile possiamo utilizzare il concetto di comorbilita’ sequenziale.
In passato i disturbi pervasivi dello sviluppo sono stati spesso individuati come prodromi di un disturbo schizofrenico, specialmente fino agli anni 80; poi l’ ottica e’ cambiata, mettendosi in evidenza una sostanziale discontinuita’ tra i disturbi pervasivi dello sviluppo e la schizofrenia. Il relatore si pone l’ obiettivo di riconsiderare in modo critico tale dato ponendo l’accento sull’ importanza e la possibile influenza delle modalita’ di organizzazione della casistica clinica sui dati stessi, in particolare vengono riconsiderati i casi di soggetti con diagnosi di disturbo pervasivo dello sviluppo alla luce dei valori di QI e del grado di eta’ mentale di tali soggetti, evidenziando come tali differenze individuate possano risultare significative rispetto all’ evoluzione psicopatologica.
Nei soggetti con diagnosi di disturbo pervasivo dello sviluppo si individuano in definitiva due sottogruppi: uno in cui in origine la diagnosi suddetta risulta associata ad una diagnosi concomitante di ritardo mentale e uno senza tale concomitanza, per il primo gruppo, con possibili evoluzioni verso disturbi del comportamento, comportamenti autoaggressivi o la conferma della diagnosi di disturbo generalizzato dello sviluppo si evidenzia comunque il prevalere del persistere della diagnosi di ritardo mentale, a differenza che nel secondo gruppo dove la diagnosi prima dei dodici anni era di semplice disturbo generalizzato dello sviluppo.
Vengono infine considerate le possibili evoluzioni in senso psicopatologico di soggetti con diagnosi frusta e tardiva (dopo i 18 anni) di disturbo generalizzato dello sviluppo e retroattivamente i casi di soggetti di 14 anni con diagnosi di crisi psicotica acuta senza precedenti diagnostici.
Dall’ analisi di tutta questa casistica si evince che in un piccolo gruppo esiste una netta continuita’ tra i problemi presentati nelle due fasce di eta’, per un gruppo piu’ consistente il disturbo psicopatologico presentato in eta’ evolutiva e’ sembrato riassorbirsi ma ha costituito un’ area di vulnerabilita’ per un disturbo clinicamente simile; per la maggior parte dei casi gli adulti psichiatrici risultano aver presentato uno o piu’ disturbi psicopatologici molto diversi come tipologia clinica.
L’ esistenza di percorsi cosi’ differenziati pone in definitiva importanti quesiti sul piano clinico e diagnostico di particolare interesse risulta la possibilita’ di utilizzare un modello “developmental” per screening semplici su popolazioni normali in eta’ critiche, utile a fornire maggiori riferimenti rispetto ai sopraccitati percorsi di discontinuita’.
Prosegue i lavori P. Pancheri con un intervento che pone l’ accento sulla diagnosi di schizofrenia individuabile nelle diverse eta’ ( infanzia, adolescenza ed eta’ adulta). In particolare la schizofrenia, la cui diagnosi appare statisticamente rilevante nella terza decade (considerata come malattia ad esordio in eta’ giovane adulta, in corrispondenza spesso con la comparsa della sintomatologia positiva) ha con tutta probabilita’ un esordio piu’ precoce. L’ adolescenza e’ il periodo della vita forse a piu’ alto stress esistenziale, ma l’ esordio della schizofrenia puo’ anche precedere la crisi puberale.
Se si fanno indagini retrospettive si scopre, parlando coi genitori, che anche se l’ esordio della malattia e’ stato registrato a 15 anni in realta’ i primi segni di cambiamento erano presenti gia’ 3-4 anni prima.
Il problema che si apre e’ percio’ se i prodromi sono da considerare segni aspecifici oppure se e’ una malattia gia’ in atto, la qual cosa non e’ priva di conseguenze, se infatti consideriamo i prodromi come un segno di malattia in atto bisogna iniziare a trattare il soggetto, seppure magari con atipici e a bassi dosaggi; ci sono gia’ dati preliminari che indicano che un trattamento in soggetti ad alto rischio e con sintomi sfumati e prodromici, nel gruppo di pazienti a buona compliance migliora nettamente la prognosi.
L’ intervento del Prof. Pfanner sottolinea come i disturbi pervasivi dello sviluppo durino tutta la vita dell’ individuo, possono presentare nel corso del tempo una comorbilita’ con altri disturbi, dall’ ansia alla depressione, ma l’ autismo come tale resta costante nella vita dell’ individuo.
Presenta una panoramica storica dell’ evoluzione del concetto di autismo, a partire dalla demenza precocissima di De Sanctis (1908) fino ad arrivare ai fondamentali lavori di Kanner (1943), col DSM III scompare la parola psicosi che talvolta aveva accompagnato il disturbo ( vedi la depressione psicotica di Winnicott) e si adotta infine col DSM IV TR la definitiva dizione di disturbo pervasivo dello sviluppo.
Analizza poi i vari disturbi pervasivi, dal disturbo autistico al disturbo disintegrativi dell’ infanzia, al disturbo di Asperger alla sindrome di Rett. Il problema e’ la prognosi del disturbo artistico, infatti gli artistici sono tra loro molto diversi, se si mettessero in una stanza 100 autistici troveremmo persone di eta’ compresa tra 3 e 90 anni, con un QI sensibilmente diverso tra loro, tuttavia una certa specificita’ multimodale esiste, il neuro psichiatra infantile sviluppa col tempo una capacita’ di capire, spesso in pochi secondi, se un bambini e’ artistico anche se poi fara’ tutti i test necessari alla diagnosi. Il punto e’ che il bambino ha una capacita’ preesperienziale e filogenetica di attribuire stati mentali alle altre persone, in particolare a quelle che si prendono cura di lui, una capacita’ cioe’ di concepire la mente degli altri, questa e’ una funzione deficitaria nell’ artistico, che finisce percio’ per non avere una percezione degli affetti che lo riguardano.
Attualmente i disturbi pervasivi sono mal diagnosticati, con probabili sottostime, tuttavia, visto il loro perdurare lungo tutta la vita del soggetto dovrebbero entrare a far parte del profilo diagnostico di routine dello psichiatra.
Chiude i lavori l’ intervento di Siracusano, con una panoramica sui lavori di Rutter e le applicazioni attuali del concetto di pathways, ci sono almeno tre importanti pathways quella neuroevolutiva, la psicosociale e la psicopatologica. Componendo ifattori di tali pathways si ottiene una sorta di “peso” dei singoli eventi, stando pero’ attenti a non confondere le tre vie tra loro.
Solo per dare qualche esempio di pathways psicopatologiche si e’ osservato che fobia sociale e ADHD sono predittori forti di schizofrenia, mentre la fobia sociale e’ un fattore protettivo nei confronti della mania, meno chiare le cose sul disturbo borderline di personalita’, dove e’ sicuramente un predittore forte il disturbo oppositivo, mentre sull’ iperactivity disorder i lavori non sono ancora concordi.

AGGRESSIVITA’ E IMPULSIVITA’: DUE DIVERSE DIMENSIONI IN RECIPROCA RELAZIONE
Il primo intervento di questo interessante simposio e’ ad opera del Prof .R. Rossi, che introduce l’argomento “Vendetta e Perdono” con la proiezione di un pezzo del “Rigoletto”: Rigoletto reclama vendetta, Gilda chiede perdono, a confronto l’impulsivita’ della vendetta e la pacatezza del perdono. Cio’ che muove la vendetta non e’ la ferita in genere, ma la ferita narcisistica. Il problema psicopatologico della vendetta e’ tutto qui: la vendetta si muove quando la ferita e’ una riedizione dell’antica ferita. Tutto questo e’ legato al narcisismo, cioe’ alla libido rivolta verso di se’ che ha una struttura caratteristica: la ferita e’ talmente antica e talmente insanabile da condurre all’impossibilita’ di tollerare qualunque ostacolo che impedisca la propria soddisfazione.
Nel narcisismo la frustrazione non e’ tollerata. La pretesa di ogni vendetta e’ quella di avere un risarcimento, risarcimento che di solito non puo’ venire nei termini comuni. La vendetta scatta quando sussistono condizioni narcisistiche, ed esistono una certa intensita’ ed antichita’ del trauma. Rossi porta due esempi tratti dalla poesia. Il primo riguarda Pier delle Vigne che si suicida come tentativo di fuga dal disprezzo e di vendetta .; il secondo si riferisce a Sylvia Plath che, in una poesia intitolata “Papalino, papalino” scrive:”Daddy, daddy, you bastard, I’m throught”. Qui vediamo un grande atto di dispetto estremo, di un suicidio agito come estrema vendetta nei confronti del padre. E’ l’espressione piu’ masochistica ed integrata che ci sia.
Di vendette ce ne sono diverse, una e’ la tipica vendetta Edipica, con l’incesto c’e’ la vendetta del rivale, uccide il padre, come bruto uccide Cesare, altro tipo di vendetta e’ la vendetta Orestea, vendetta contro la frustrazione piu’ antica, quella di essere stati buttati fuori dall’utero. Questa porta al matricidio che, e’ forse il prototipo di tutte le vendette, il delitto usuale dello schizofrenico e’ il matricidio, agito come tentativo estremo di negare l’espulsione materna. Altra vendetta e’ quella di Elettra, dove l’attacco contro la madre diventa vendetta contro il padre. Medea e’ una maga che si vendica continuamente, in lei c’e’ l’abolizione dell’istanza materna e il figlicidio serve come vendetta nei confronti di Giasone che l’ha abbandonata.
Il perdono e’ una cosa innaturale, e va considerato come elemento maniacale da contrapporre all’elemento depressivo della vendetta, e’ il trattamento difensivo della vendetta. Chiunque perdoni molto e’ uno che si vuole vendicare molto,il perdono e’ uno dei vantaggi masochistici dell’aggressivita’, la vendetta “cambia di segno”all’elemento pulsionale.
Ogni volta che c’e’ il perdono c’e’ l’inevitabilita’ del ritorno sadico. Esempio eclatante di questa istanza e’ Caterina da Genova.
Il perdono puo’ essere masochistico, come quello amoroso, maniacale, come quello che nega , sussiegoso, per dimostrare la superiorita’ di chi perdona, quello grandioso, onnipotente “perdona loro perche’ non sanno quello che fanno”.Infine c’e’ il perdono introiettivo, melanconico: siccome non posso tollerare l’oggetto esterno che e’ cattivo, lo introietto, lo salvo tramite una via narcisistica…..Perdono te e accuso me stesso e’ la tipica situazione della soluzione melanconica del perdono. L’aggressivita’ e’ quindi presente sia nella vendetta, sia sotto mentite spoglie, nel perdono.
Nel secondo intervento P. Rocca (Torino) tratta “Gli aspetti biologici” di aggressivita’ ed impulsivita’, partendo da quelle che sono le loro definizioni specifiche. Si intende per IMPULSIVITA’ un’azione veloce compiuta senza pensare, senza giudizio cosciente, svolta sotto l’impulso del momento senza razionalizzare ne’ pianificare. L’AGGRESSIVITA’ e’ invece un atto intenzionale che infligge danno fisico o mentale sugli altri.
La VIOLENZA e’ un atto aggressivo che arreca del male ad altri. Distingue poi tre tipi di aggressivita’: premeditata, impulsiva, causata da malattie mediche. Con tecniche di neuroimagin si sono identificate determinate aree cerebrali, implicate correlate con l’aggressivita’ impulsiva, vale a dire la corteccia orbitofrontale ventro-mediale, l’amigdala, la corteccia cingolata anteriore. Lo stimolo (es. la paura) arriva direttamente all’amigdala, ma contemporaneamente raggiunge la corteccia associativa e superiore che dovrebbe elaborare ed inibire i comportamenti inadeguati.
Qualora venga a mancare la capacita’ d’inibizione, di fronta ad uno stimolo di paura l’amigdala attiva le zone preposte all’aggressivita’. Quest’ultima si ritrova non solo nei pazienti psichiatrici, ma anche nelle persone normali in risposta all’ipoattivazione di zone frontali, occipitali e del cervelletto. Pone quindi l’accento su studi che rilevano come in presenza di lesioni orbitofrontali e ventro-mediali, con diminuzione della sostanza grigia, vi e’ tendenza all’aggressivita’ impulsiva e diminuzione dell’attività serotoninergica a livello centrale (si sono individuati inoltre polimorfismi genetici correlati).
A suo parere e’ comunque fondamentale, affinche’ siano realmente influenzati comportamenti aggressivi, la contemporanea presenza di incapacita’ nel controllo degli impulsi e nella regolazione del comportamento e un difficoltoso funzionamento sociale del soggetto interessato; vi e’ quindi una correlazione bidirezionale fra serotonina e fattori comportamentali e sociali. Non tutto comunque dipende dalla serotonina, vi sono influenze da parte del sistema GABA inibitorio, di quello catecolaminergico, delle fluttuazioni della bilancia DA-5HT (alla base di rapidi mutamenti nell’impulsivita’), degli ormoni (l’aumento del testosterone sarebbe correlato nel sesso maschile con un aumento dell’aggressivita’, in quello femminile dell’impulsivita’).
A. Goracci (Siena) presenta “Il punto di vista clinico”, ponendo l’attenzione sulla frequente sovrapposizione terminologica, a suo parere altamente confusiva, che la porta innanzitutto a cercare di far chiarezza sulle definizioni di “Impulso” (Freud, 1905), “Impulsività” (Murray, 1938; Devoto Oli, 1995), “Aggressività” (etimologia “ad” = verso, contro e “gradior” = andare, procedere, avanzare) ove non c’e’ un salto nella mediazione cognitiva; evidenzia pertanto la diversita’ dei concetti di aggressivita’ ed impulsivita’. Queste ultime, nell’ottica del DSM, sono da vedersi quali dimensioni transnosografiche piu’ che nosografiche. Distingue quindi essenzialmente tre tipi di impulsivita’(motoria, cognitiva, non pianificata) e di aggressivita’ (diretta, indiretta, verbale). Si pone pertanto il quesito se esista un rapporto fra le due dimensioni, che non viene certo sciolto dagli scarsi dati che si ritrovano in letteratura. Da uno studio preliminare svolto dall’equipe di Siena su un campione di 124 pazienti ricoverati, sottoposti a tre test psicometrici (MINI; QTA, BARRAT 11), si ritrovano valenze sia di aggressivita’ che d’impulsivita’ presenti in tutti i disturbi con valori non significativi, quantitativamente maggiori nel BLPD. In sintesi, le conclusioni riportate vedono aggressivita’ ed impulsivita’ come dimensioni transnosografiche, correlate, indipendenti. Non si e’ potuto discriminare se siano primarie o secondarie: e’ una complessa problematica, meritevole di ulteriori studi, per la notevole rilevanza sia di tipo clinico che terapeutico.
C. Maci (Roma) presenta “Il comportamento aggressivo in SPDC: quali fattori di rischio?”. A tal proposito e’ stato svolto uno studio, dal 1 gennaio 1997 al 31 dicembre 2002, presso l’Osp. S. Pertini di Roma, nel SPDC ove lavora, i cui obiettivi consistevano nel monitorare eventi auto ed etero aggressivi, la loro frequenza e le caratteristiche pragmatiche, i fattori clinici, ambientali e situazionali, il confronto fra il gruppo dei pazienti aggressivi e quello dei non aggressivi.
Si e’ potuto constatare come l’aggressivita’ sia piu’ frequente nei giovani, nelle stagioni intermedie, nel primo terzile del ricovero. Piu’ del 90% degli episodi avviene in ambienti chiusi comuni, mentre sono assai scarsi nel contesto del colloquio medico-paziente all’interno dello studio medico.
I bersagli piu’ comuni sono lo staff e gli altri pazienti, il mezzo usato i piedi o le mani, il rimedio consiste nella maggioranza dei casi in terapia farmacologia o contenzione. Nessuna vittima ha comunque riportato lesioni permanenti, ne’ alcun paziente e’ stato trasferito. Il sovraffollamento non sembra essere chiamato in causa fra i fattori favorenti. I pazienti piu’ violenti, aggressivi, sono essenzialmente gia’ noti ai servizi, single, con frequenti TSO.
L’ultimo intervento, “Comportamento aggressivo: basi biologiche della terapia”, particolarmente interessante, viene tenuto da M. Del Zompo (Cagliari), la quale introduce l’argomento definendo il comportamento aggressivo una malattia complessa, che correla in primo luogo alle interazioni delle funzioni della mente (pensiero, comportamento, emozioni). Fondamentali risultano la capacita’ di adattare il comportamento al contesto, nonche’ l’equilibrio tra l’origine e l’esame del comportamento. In un lavoro del 1997 di Bechara e Damasio con soggetti normali ed altri con lesioni prefrontali, si evidenziano “decision making defects” nei pazienti con lesioni, i quali scelgono il comportamento piu’ svantaggioso anche dopo che gliene vengono spiegati i difetti.
Illustra poi l’intervento farmacologico, sottolineando come la capacita’ di un farmaco di inibire l’aggressivita’ e’ legata all’azione agonista sui recettori 5HT1A ed a quella antagonista sui recettori 5HT1B. Non esistono in realta’ terapie specifiche, ma si possono sfruttare per esempio la funzione sedativa degli antipsicotici: mentre i classici presentano reazioni avverse quali l’acatisia, che di per se’ puo’ facilitare l’aggressivita’, gli atipici possiedono un’attivita’ antiaggressiva piu’ specifica, legata all’antagonismo sui recettori 5HT(2a); fra questi ultimi la Clozapina ha permesso di ridurre il numero e la durata di isolamento in un gruppo di pazienti schizofrenici violenti.
Gli AP agiscono inoltre mediante il legame a recettori dopaminergici. Le BDZ possono essere usati come sedativi a breve termine. L’uso dei SSRI e’ controverso, mentre Litio ed Anticonvulsivanti possono essere sfruttati efficacemente ed agiscono a livello dei secondi messaggeri andando a modulare la sintesi proteica. Ancora, specie nell’aggressivita’ in pazienti con danni cerebrali, risultano utili i betabloccanti.

SIMPOSIO TEMATICO. “ARTEFATTI” STORICI DELLA PSICHIATRIA.
P. Curci introduce il tema del simposio precisando la doppia accezione del termine “artefatto”: una che lo riferisce all’espediente, all’adulterazione rispetto all’ordine naturale delle cose; l’altra, propria del linguaggio scientifico, perde la connotazione peggiorativa precedente per fare riferimento al concetto di modello, paradigma, marchingegno che simula un campo ristretto della realta’.
Costruzioni e ragioni degli artefatti psichiatrici. G.M. Galeazzi.
Alcuni artefatti psichiatrici sono certamente stati utili dal punto di vista euristico; altri hanno evidentemente avuto piu’ una connotazione di adulterazione. Il relatore fornisce alcuni esempi in quanto a quest’ultimi: nel 1854 un fisiologo della Louisiana ipotizzo’ per gli schiavi di colore che fuggivano dai loro padroni un disturbo psichiatrico che denomino’ “dreptomania”, da cui del resto essi guarirono in massa con l’abolizione della schiavitu’! Anche la classica distinzione kraepeliniana dicotomica tra psicosi maniaco-depressiva e dementia praecox e’ da molti ritenuta un artefatto costruito su una base nosodromico-prognostica che si e’ affermato e cristallizzato, forse anche oltre l’intenzione del proponente.
Vengono distinti “artefatti metodologici”, piu’ interni al dibattito psichiatrico, e “artefatti sociali”, espressione di fatti esterni, istanze socioculturali. Esempi dei primi sono, tra i tanti, la cronicita’ della schizofrenia (la durata dei sei mesi indicata dal DSM), la categorialita’ delle diagnosi (per alcuni la comorbidita’ e’ un artefatto del criterio categoriale). Per quel che riguarda i secondi, sono quattro i fattori che convergono nella genesi di un artefatto sociale: il comportamento trova una nicchia nella cornice tassonomica in vigore; la nuova malattia prende forma all’interno di una bipolarita’ culturale e morale; l’acquisizione di una visibilita’ e risonanza le permette l’accesso agli esperti e alla societa’; consente una riduzione della tensione psicologica. Esempi di artefatti sociali sono, fra gli altri, il disturbo disforico premestruale, l’omosessualita’ (esempio di influsso della componente normativa), i cosiddetti nuovi disturbi della vitalita’.
Verita’ e menzogne della schizofrenia. A. Ballerini.
La grande sintesi kraepeliniana degli assetti psicopatologici era basata sul decorso, sulla progressione verso una situazione cronica e difettuale nel caso della dementia praecox. Il principio ordinatore che permise di riunire in una sola entita’ quadri assai proteiformi era quello per cui ad esiti uguali deve corrispondere un modello unitario di malattia. Questo principio e’ andato in crisi a causa degli studi di follow up che hanno mostrato un’estrema variabilita’ di esiti e decorso.
Anche la tesi bleureliana del sistema dissociativo come elemento definitorio si e’ rivelata vaga nell’applicazione clinica portando a una dilatazione ad libitum e a un’evaporazione del concetto di schizofrenia.
Schneider sostenne invece che la schizofrenia e’ caratterizzata da fenomeni traducibili in sintomi, quali che siano gli esiti e i meccanismi psicodinamici soggiacenti, i cosiddetti sintomi di primo rango. Ma anche per i sintomi di primo ordine di Schneider s e’ dimostrato che non esauriscono la complessita’ della schizofrenia.
Attualmente il tentativo di una definizione totalmente ateoretica della schizofrenia ha sortito l’effetto di mescolare i grossi sistemi teorici del passato (Kraepelin, Bleuler e Schneider). Anche i criteri diagnostici dell’ICD-10 sono stati sottoposti a critica in quanto sembrerebbero piu’ riferirsi all’antica ebefrenia che alla complessa galassia schizofrenica. Per il relatore, se non si vuole fare una questione puramente nominalistica, si deve riconoscere che l’”anomalia” schizofrenica non si possa individuarla come un’entita’ unitaria. Forse si puo’ considerare che l’alterazione della dimensione intersoggettiva sia il fatto primario in questa condizione eterogenea e non la ricaduta ambientale di qualcos’altro di piu’ fondamentale.
Anche l’elemento autistico come principio definitorio della schizofrenia rischia pero’ di porsi in maniera troppo statica in quanto si tratta piu’ di un percorso psicopatologico che si va costituendo per strada attraverso la pervasiva costruzione di un universo autistico.
Verita’ e artifici nell’Isteria e nelle Personalita’ Multiple. V. Belincioni, Petrella.
Nella medicina la sofferenza soggettiva richiede di essere ricondotta al corpo e alle sue alterazioni oggettivabili e osservabili. La materia della medicina sembra dunque imperativamente il corpo alterato in uno dei suoi vari livelli. Tutto cio’ e’ riconducibile a un preciso modello riduzionistico: la localizzazione nel soma e’ il primo atto al quale il medico e’ tenuto e a cui e’ stato formato. Il risultato e’ la tendenziale riduzione biologica del dolore, della impotenza funzionale e della malattia. Quando questa riduzione fallisce allora non riusciamo piu’ a inquadrare cio’ che il paziente comunica nell’ambito della relazione e del discorso; il paziente non ha cosi’ nulla e del suo malessere non importa al medico.
Il tema della finzione ha travagliato la psichiatria da quando essa e’ stata introdotta nella medicina come sua parte ineludibile. L’isteria e’ una figura clinica ambigua, che si pone nello grande spazio fra la simulazione e le “vere” malattie nel senso che le sue manifestazioni polimorfe possono “simulare” molte forme morbose. L’individuo puo’ anche fingere con se stesso ma dobbiamo ricordare che la finzione e’ anche la forma con cui comprendiamo l’esperienza. La patologia dell’identita’ e’ intessuta di elementi finzionali. L’autoscopia e’ suggestivamente impastata di finzione e la personalita’ alternante ha come asse portante la stessa finzione perche’ esse mostrano un inesorabile intreccio fra elementi narrativi dell’identita’ che la psichiatria importa dall’arte. Artefatti e illusioni terapeutiche in psichiatria. S. Priebe. Le illusioni terapeutiche sono idee ottimistiche su teorie viste poi in un secondo tempo come discutibili e inappropriate.
Esempi sono: i manicomi, cioe’ ospedali costruiti apposta per malati mentali in cui la malattia viene localizzata nel cervello e gli psichiatri ottengono lo status degli altri medici. Inoltre i manicomi vengono utilizzati per rimuovere dalla societa’ soggetti considerati pericolosi.; la psichiatria di comunita’, che prevede la speranza di una integrazione completa dei pazienti e quindi un ruolo centrale degli psichiatri nella societa’; la psichiatria nella Germania nazional-socialista in cui i medici partecipano a un programma di stermino e sterilizzazione allo scopo onnipotente di eliminare la malattia mentale incurabile; l’era degli antidepressivi, considerati come uno dei trattamenti piu’ efficaci dell’armamentario terapeutico della psichiatria. Per il relatore si puo’ affermare una sopravvalutazione degli effetti con evidenze viziate, schemi sofisticati, ma non giustificati, sulla specificita’ degli effetti. E’ assai indicativo il fatto che la gran parte degli esiti dei trials clinici favorisca le case farmaceutiche che li hanno sponsorizzati.
I motori delle illusioni terapeutiche in psichiatria sono quindi risultati essere la pressione sugli esperti per fornire sapere, l’illusione di superare la depressione dell’incontro con la sofferenza dei pazienti, il fatto che le illusioni stesse sostengono lo status degli psichiatri, le aspettative della societa’, gli interessi economici. La psichiatria e’ stretta tra le aspirazioni terapeutiche e il bisogno di controllo sociale.
L’evidence-based psychiatry potrebbe limitare (non gia’ eliminare del tutto) alcune delle llusioni, tenendo anche conto che la psichiatria del XXI° secolo ha bisogno di illusioni e sogni per sopravvivere.

L’EVOLUZIONE ATTUALE DELL’AGGRESSIVITA’. QUALI PROSPETTIVE FUTURE?
Il primo relatore del simposio tematico e’ il Prof. R.Rossi il quale afferma che nella banale normalita’ serpeggia la distruttivita’. Rossi porta l’esempio di Jago nell’”Otello” di Shakespeare dove l’inevitabilita’ del delitto e’ senza possibilita’ di profilassi, perche’ gli elementi profondi tendono ad emergere. Jago porta con se’ il destino del male, l’istanza maligna che non si puo’ eludere. Esiste un “Mostro” che viene alla luce in una condizione normale, ipernormale, rappresentato nelle scene del film “La signora della porta accanto” di Trouffaut, dove un rapporto fedifrago tipicamente normale termina in un omicidio-suicidio.
La domanda piu’ spontanea e’:”Cos’e’ successo?” E’ una nascita mostruosa che esce fuori inopinatamente , la perdita e la ferita narcisistica costituiscono una miscela esplosiva che rende tutto possibile. La pretesa narcisistica che la donna sia sua soltanto sua e sempre sua viene delusa, la perdita si accentua con l’atteggiamento farfalleggiante della donna, cosi’, nel protagonista esplode la rabbia. L’angoscia di perdita rende ragione dell’inevitabilita’ del delitto. Tutti noi siamo esposti al mostro, perche’ tutti noi siamo esposti alla riedizione della perdita antica, quella della nascita.
M.Picozzi parla dell’aggressivita’ nel contesto della valutazione investigativa e si ricollega alla domanda del relatore che lo ha preceduto “Cosa e’ successo?”. Per tentare di dare una risposta, in realta’ molto difficile, viene proiettato un filmato in cui vengono mostrate scene di violenza per le strade di Rio de Janeiro,prostituzione, droga …Viene quindi ricostruita la scena della strage del liceo Colombine dove hanno perso la vita tredici persone per mano di due studenti di 17 e 18 anni.
Viene preso in considerazione il fenomeno Marilyn Manson e l’istigazione alla violenza attraverso i media. Picozzi afferma che la causa non e’ imputabile ad un solo fattore ma ad un insieme di motivi che comprendono le condizioni individuali (genetiche), familiari e sociali con percentuali che oscillano da caso a caso.
L’intervento successivo e’ di C. Bui che introduce l’interessante discorso della prevedibilita’ del comportamento aggressivo. L’analisi del crimine violento senza motivo apparente crea dei dubbi molto forti. Bui fa un parallelismo tra le opere d’arte e la scena del delitto: in entrambi i casi nulla si ripete tranne alcune “firme” che vengono poste proprio quando lo sforzo e’ meno intenso , quando emerge la parte piu’ inconscia. E’ molto pericoloso basarsi su profili psicologici, bisogna risalire ad un tramite reale che leghi colui che ha commesso il delitto e la scena stessa del delitto. Se ci basassimo solo su indizi, la deviazione dalla realta’ sarebbe eclatante. L’esperienza va quindi codificata e legata a parametri scientifici riproducibili. La ricostruzione della dinamica serve per individuare il modus operandi e confrontarla con i lati pratici.
E’ ora il turno del prof. G. Nivoli dal titolo “Guerra, Follia ed Aggressivita’”, tematiche che verranno in futuro sviluppati in tre volumi : “Uomini alla guerra”, “Assassini dell’umanita’”, “Pacifismo deviato”.
La domanda centrale del dibattito e’: Perche’ gli uomini fanno la guerra. In realta’ tutti conoscono la risposta. Ma si deve innanzitutto riflettere su un altro punto: cos’e’ l’opposto, cos’e’ la quiete? Si puo’ rispondere la pace, la tranquillita’ di un paesaggio campestre; ma se facciamo intervenire la scienza, sappiamo che la luna gira, la terra gira, noi giriamo a 800.000 km/h e ci allontaniamo dalle galassie a piu’ di 100.000 km/sec: questa e’ pace?
Torniamo ai motivi della guerra: denaro, petrolio, o su un gradino piu’ elevato, le idee politiche/religiose. Dov’e’ la quiete? Non c’e’. Quali sono le vere motivazioni dell’ammazzarsi tra uomini in guerra? Ecco i veri motivi:
1) la Bestia: noi crediamo di essere molto avanzati, ma in realta’ siamo l’anello tra la bestia e l’uomo che forse ci sara’!
2) il Bambino: l’uomo e’ un bambino dentro, non solo un bambino creativo, ma intellettualmente un bambino.
3) Il Malato di Mente: paranoia, borderline, narcisismo maligno, sociopatia, depressione. Non si vive senza un nemico, che va abbattuto, per i suoi peccati e soprattutto per i nostri peccati.
4) Le Paure Esterne
5) Le Paure Interne: paura della morte e di quello che rappresenta, ambivalenza verso le persone.
In conclusione: “Se si ammazza, gia’ c’e’ una ragione, e la malattia mentale e’ un optional; grazie al cielo possiamo uccidere o violentare senza malattia mentale”.
Termina il simposio il prof. M. Villanova, il quale, partendo dall’evoluzionismo e all’interno di una visione socio-biologica ed etologica, passando attraverso l’osservazione clinico-forense, traccia una parabola della tendenza aggressiva nella specie umana. Dal punto di vista evoluzionistico, l’aggressivita’ e’ l’unica forza che consenta la non estinzione e la selezione genetica.
Un fatto tra i tanti che viene sottolineato e’ la mancanza nella specie umana di quella inibizione a usare le proprie armi naturali contro individui della stessa specie. Da qui l’escalation di una violenza senza freni in contrasto tra valori etici e istinti primordiali.

Simposio Tematico: la psicopatologia della gelosia.
Apre i lavori l’intervento di D. Marazziti che individua nello studio del fenomeno della gelosia una vera e propria sfida per la ricerca psichiatrica. Primariamente e’ necessaria la distinzione tra la gelosia “normale” e quella patologica.
Se e ‘ facile riconoscere la gelosia patologica che puo’ configurarsi sia come sintomo suggestivo di altri disturbi psichiatrici (quali depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia di separazione o di alcolismo e sindromi psico-organiche), sia come malattia ben definita (paranoia di gelosia), piu’ difficile risulta tracciare il confine tra gelosia normale e patologica, anche per l’influenza rilevante di diversi fattori culturali.
Dal punto di vista evoluzionistico la gelosia puo’essere considerata un fattore economico positivo utile al mantenimento della stabilita’ della coppia e quindi alla sopravvivenza della specie, in quanto il “cucciolo uomo” necessita piu’ dei cuccioli delle altre specie del supporto della coppia genitoriale; nel sesso maschile sembra legata alla sicurezza della paternita’, nel sesso femminile, alla necessita’ di tenere legato un partner in grado di assicurare cibo e protezione a se’ e alla prole.
Nel meccanismo della gelosia sembrano implicati il sistema dell’allarme (arousal, ansia) e il sistema di stabilizzazione dei rapporti sociali (sistemi a matrice serotoninergica).
Viene proposta allora una ricerca utile a fornire una delimitazione tra gelosia normale e ossessiva attraverso la messa a punto di un questionario (Questionario delle relazioni affettive) ed alla valutazione delle correlazioni tra tali diversi quadri ed il funzionamento del sistema serotoninergico (tramite il dosaggio ematico del trasportatore piastrinico della serotonina). Il questionario ha consentito di discriminare tre differenti gruppi (soggetti normali, soggetti normali con tratti di gelosia ossessiva e pazienti con ossessioni di gelosia); i soggetti del secondo gruppo sono risultati tuttavia non facilmente distinguibili dai pazienti relativamente al trasportatore della serotonina; rilevando quindi tanto nei gelosi “normali” quanto nei pazienti con DOC una comune alterazione del suddetto sistema serotoninergico.
Segue l’intervento di A. Sbrana sull’inquadramento psicopatologico della gelosia, considerata fenomeno poco omogeneo, che puo’ costituire o il sintomo di un altro disturbo psichiatrico o una malattia vera e propria, quale la paranoia.
Anche Sbrana, proseguendo la linea dell’intervento precedente, sottolinea come sia complessa la definizione della gelosia “normale”, considerata a meta’ strada tra un’ emozione e un sentimento.
La ricerca presentata offre un contributo all’identificazione delle varie tipologie che puo’ assumere la gelosia normale attraverso la messa a punto di un questionario in autovalutazione che ha consentito di estendere la sottotipizzazione della gelosia a cinque gruppi: depressiva, ossessiva, paranoicale, ansiosa (nel senso di ansia da separazione) ed iperestesica. E’ dimostrato che tali caratteristiche psicopatologiche possono ritrovarsi in tempi diversi nello stesso paziente e cio’ e’ stato esemplificato mediante la presentazione di un caso clinico.
Nel suo intervento il Prof. Maggini ha sottolineato la differenza tra amore geloso e gelosia amorosa; l’amore geloso e’ la precondizione cognitivo-affettiva e comportamentale della gelosia amorosa.
L’amore e’ geloso quando e’ divorato dal desiderio di possesso, esclusivo e totalizzante, del partner, cui e’ avidamente richiesta una presenza incondizionata e continua. In esso la gelosia e’ sempre presente, anche in assenza di una situazione inducente, perche’ l’amore captativo contiene in se’ l’anticipazione di un’ eventuale frustrazione per il conflitto che inevitabilmente si determina con la realta’. La gelosia amorosa nasce come evento emozionale connesso ad un avvenimento piu’ o meno significativo relativo al comportamento del partner. Questo vissuto breve ed intenso lascia un ricordo piu’ o meno sfumato, e tende a reiterarsi progressivamente radicandosi come sentimento.
Il prof. Volterra, nel suo intervento dal titolo “Il dramma della gelosia nelle sue varie declinazioni” , ha esordito con una citazione di Shakespeare per definire il concetto di gelosia.
Il “mostro dagli occhi verdi” e’ uno stato emotivo determinato dal timore, fondato o no, di perdere la persona amata nel momento in cui questa rivela, o si presume che riveli, attrazione per un’altra persona.
Questa emozione e’ una manifestazione dell’incapacita’ di amare in modo autentico ed esprime un amore ancora di tipo infantile. Gli aspetti psicodinamici implicati sono la proiezione della propria infedelta’, la difesa da una omosessualita’ latente, il masochismo immaginario ambivalente. I sentimenti coinvolti sono l’ambivalenza, l’afflizione, la ferita narcisistica che genera un crollo dell’autostima, il senso di colpa e l’ostilita’. Gli aspetti ossessivi sono, invece, coazione ideativa, compulsione, follia del dubbio ed insicurezza; quelli deliranti, costruzione psicotica e inclusione acritica.
Dal punto di vista della psicopatologia della gelosia morbosa si puo’ individuare una sorta di escalation che va dall’inquietudine alla trasformazione del mondo, passando per il sospetto, il dubbio, le allusioni, l’interpretazione, la certezza intuitiva e le richieste di conferma. L’escalation dissociale della gelosia, invece, si manifesta con:. Stalking, interrogatori, inquisizioni e processi, aggressivita’ verbale e fisica fino all’omicidio. Il prof. conclude l’intervento con la proiezione di alcuni minuti del film “Toro scatenato”.
L’ultimo degli interventi e’ condotto dalla dott.ssa Dario che ha introdotto il concetto di co-dipendenza, individuata nell’ambito di coppie con disfunzionalita’ relazionale e riguardante una condizione di labilita’ dell’oggetto d’amore.
Il concetto di co-dipendenza fa riferimento a teorie riguardanti il Falso Se’, la malattia del Se’ perduto (Whitfield, 1997), la sindrome del Bambino adulto (Friel e Friel, 1998) la forma di dipendenza (Cermak, 1986), controllo delle funzioni dell’Io del partner (parassitismo psichico relazionale). La co-dipendenza e’ influenzata da condizioni quali il ferimento psicologico nell’infanzia, la situazione evolutiva (in relazione ad esperienze di abuso), situazione cronica.
Essa comporta fenomeni di perdita del controllo, craving, astinenza, perdita dell’identita’, distorsione nella distanza interpersonale, tendenza ad altre forme di addiction e di comportamenti impulsivi o compulsavi. In particolare si manifesta una sintomatologia di reazione, sotto forma di disorganizzazione, dissociazione, panico per aspetti di singola relazione quali: separazione, abbandono, solitudine, distanziamento, controllo, instabilita’.
E’ possibile il viraggio verso la gelosia paranoide (nello studio realizzato dalla relatrice e dai suoi collaboratori su 15 pazienti seguiti in psicoterapia un’evoluzione di questo tipo si e’ verificata in 4 casi) ed e’ frequente la comorbidita’ con i disturbi dell’umore.
Allo stato attuale non e’ chiaro se la relationship addiction possa essere inquadrata come sindrome da dipendenza o, piuttosto, non si tratti di una particolare modalita’ di presentazione della sindrome borderline.

Disturbi affettivi e patologia tiroidea
Nel primo intervento, dal titolo “Postnatal Depression in thyroid antibody positive women, and a randomised trial df Thyroxine”, il prof. Harris (Cardiff, United Kingdom) ha proposto i risultati di uno studio condotto recentemente e pubblicato nel 2002 sul British Medical Journal. Dopo aver presentato alcune considerazioni generali relative al funzionamento della tiroide, ai quadri patologici da iper e ipo funzione, alla correlazione tra attivita’ tiroidea e eventi negativi della vita e tra tiroide e cervello e gravidanza, il relatore ha esposto i dati di alcune ricerche del passato, a partire da quella “pilota” di Roberton del 1946.
Sulla base di tali risultati è stato realizzato il disegno dello studio in esame (in doppio cieco controllato con placebo), che ha riguardato un campione di circa 700 donne scelte da una popolazione di 7500 puerpere sulla base della positivita’ degli anticorpi anti-tiroide ed alle quali e’ stata somministrata tiroxina alla dose di 100 mcg/die. Scopo della ricerca era stabilire se la somministrazione di T4 diminuisce la frequenza e la gravita’ della sintomatologia depressiva associata alla situazione di anomalia tiroidea (positivita’ anticorpale ed eventuale ipofunzione). Il periodo di trattamento era compreso tra 6 settimane e 6 mesi dopo il parto e la valutazione comprendeva la somministrazione di scale (RDC, MADRS e EPDS).
Il risultato dello studio, inatteso visti i precedenti, dimostra che la somministrazione di tiroxina non riduce i sintomi depressivi, poiche’ non si registrano differenze significative tra i due campioni a nessuno dei tempi di valutazione (intervallo di 4 settimane). Nuovi studi indagheranno il possibile ruolo in questo campo delle citochine e si e’ appena conclusa una ricerca che ha valutato IL-6, senza trovare dati a favore di un suo coinvolgimento nella genesi delle anomalie tiroidee nel post-partum.
Il dott. Carta ha esordito proponendo i dati della letteratura rispetto al rischio di disturbi affettivi in soggetti eutiroidei con positivita’ per gli anticorpi anti-tiroide, anche in caso di pazienti in post-partum.
I disturbi affettivi che piu’ di frequente si osservano appartengono allo spettro bipolare, anche se si trovano casi di depressione unipolare e anche disturbi d’ansia. La patogenesi del malfunzionamento tiroideo, espresso prevalentemente come ipotiroidosmo subclinico, viene ricondotta da alcuni autori ad un meccanismo di tipo centrale, verosimilmente in relazione ad alterazioni dell’assetto ormonale (ad esempio aumentati livelli di cortisolo per iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene – HPA - in condizioni di depressione melanconica) o al ruolo di citochine proinfiammatorie. Sono stati inoltre forniti dati interessanti relativi alla presenza di eventi di vita stressanti (fattore di rischio per l’ipotiroidismo in quanto condizione capace di attivare l’asse HPA), al ruolo della gravidanza sul controllo dell’immunita’ e quindi della produzione di citochine, alla diagnosi di vasculite di Hashimoto quale condizione che si accompagna di frequente alla tiroidite ma che interessa anche precise localizzazioni cerebrali. Proprio su questo argomento il gruppo di lavoro del relatore ha realizzato uno studio presentato nella sezione poster del presente convegno.
Nella parte iniziale del suo intervento il Prof. Placidi ha presentato un’ampia rassegna della letteratura sul tema del simposio, comprendente il ruolo degli ormoni tiroidei nel SNC, i sintomi ed le sindromi psichiatriche che si osservano in condizioni di ipo ed iper-funzionalita’ della tiroide, le tiroiditi autoimmuni, la condizione di ipotiroidismo sub-clinico ed il rapporto litio/tiroide.
Il relatore ha quindi concluso il simposio presentando i dati di uno studio retrospettivo condotto su 485 pazienti valutati mediante controllo di funzionalita’ tiroidea e presenza di anticorpi antitiroidei oltre che impiego della scala SCID I.

Trattamento con SSRI: terapia o scelta di vita?
Il prof. Rossi ha introdotto il suo intervento sulle note dell’Elisir d’amore di Donizzetti, con il “gran medico” Dulcamara che invita a comprare il “suo specifico” utile contro i piu’ diversi malanni…
La domanda del relatore e’ , allora, spontanea: “nel 1821 c’erano gia’ gli SSRI?”.
La prima molecola appartenente a questa classe a fare la sua comparsa sul mercato e’ la fluoxetina. Negli stessi anni usciva un libro di Kramer dal titolo “Listening to Prozac” nel quale si esploravano le potenzialita’ del farmaco non solo in relazione alla sua efficacia antidepressiva, ma anche rispetto al suo ruolo nella “ricostruzione del Se’”: “la persona che e’ triste diventa allegra, chi e’ infelice diventa felice …”. “Il dio della psichiatria – Prozachius – trova il modo di risolvere i problemi” e nasce la “psicofluoxeterapia”.
Le persone che erano depresse e non lo sono piu’ (non mostra piu’ insonnia, variazioni mattino-sera, angoscia …), ma non sono neppure contente, sono tra coloro che Dante metteva all’Inferno, nel girone degli Accidiosi e, pur vivendo “nell’aere lieto che del sol si allegra”, non riescono a gustarlo e chiedono che si risolva il loro problema di fondo, un disturbo sub-clinico, una depressione sottosoglia, un “temperamento”. Come rispondere a questa richiesta? Magari esistesse un farmaco capace di rendere felici! Anche la dipendenza non rappresenterebbe un problema!
Il fatto e’ che esiste una “terra di nessuno” tra la soglia della patologia e la soglia della felicita’, piu’ o meno ampia a seconda della persona. Forse la norma e’ la micromaniacalita’, o meglio se l’uomo fosse veramente normale sarebbe depresso (“in melancholia veritas”), visto che passa la sua vita attraversando eventi di perdita (l’utero , il seno, la madre – quando lo lascia all’asilo -, la vita stessa), obbligati. Se l’uomo normale non e’ depresso, allora, e’ solo perche’ puo’ usare “la mente come droga”, cioe’ puo’ ricorrere alla negazione che, comportando una certa micromaniacalita’, produce anche felicita’.
Si possono individuare degli obbiettivi per un farmaco teorico e perfetto da utilizzare quando la disperazione e’ passata e si e’ in una fase di mantenimento? Forse si’, nella tolleranza delle frustrazioni, nella soddisfazione delle pulsioni, nell’aumento dell’autostima, in “un tanto” di euforia espansiva. Ma sarebbe un uomo normale, questo?
Il livello della ferita narcisistica deve essere basso, e cioe’: si deve nascere bene, si deve aver avuto una madre “rotonda e non spigolosa” e che sorride di gusto, si deve avere un buon contatto con il corpo e la capacita’ di usare la mente, si deve avere un equilibrio nel rapporto tra Io e Super Io, si deve usare in modo discreto la negazione. In questo modo la felicita’ risulta strettamente collegata alla fortuna che una persona ha avuto (o non ha avuto) nella vita, e fare prevenzione a questo livello e’ impossibile.
Esiste, poi, una psicopatologia della felicita’ (”Eudaimonopatia”), che comprende la felicita’ espansiva (tendenza maniacale), quella estatica (come nella Santa Teresa del Bernini), quella sadica (cioe’ fare lievemente soffrire gli altri), quella negatoria ed altri tipi.
Diceva Freud che il tributo che bisogna pagare in termini di pulsioni al vivere civile e’ altissimo: noi dobbiamo allora sostituire le nostre pulsioni complesse con quelle piu’ semplici mediante il ricorso alla negazione ed alla sublimazione, cosicche’ il chirurgo sublima il suo sadismo ed il fotografo il suo voyeurismo.
Gli SSRI sembrano agire nella stessa direzione, sostituendo pulsioni complesse (si veda ad esempio l’attivita’ sessuale ) con quelle piu’ semplici (l’alimentazione).
Il prof. Bogetto ha quindi affrontato il tema delle indicazioni terapeutiche degli SSRI, sottolineando il loro aumento esponenziale. Partendo da indicazioni ristrette ai soli disturbi depressivi, infatti, questa categoria farmacologica e’ attualmente indicata per moltissimi disturbi d’ansia, superando o affiancando altre classi farmacologiche, quali le benzodiazepine. La riflessione centrale del suo intervento e’ quella che concerne la necessita’ di attualizzare la visione sindromica e sintomatologica dei disturbi psichiatrici, con un ripensamento di tipo etiopatogenetico, ad esempio con un modello che parte dal gene e attraverso i recettori e gli enzimi arriva ad individuare circuiti neuronali che definiscono gli endofenotipi (come la working memory, ad esempio)
I diversi disturbi d’ansia, ad esempio, sono riconducibili a diversi circuiti cerebrali “alterati” e cosi’ anche i diversi aspetti sintomatologici dell’episodio depressivo.
Il modello di diagnosi categoriale, infatti, presenta alcuni evidenti limiti sia per quanto attiene alla loro validita’ (ad esempio il concetto di depressione maggiore sembra piuttosto eterogeneo) sia alla loro utilita’; il relatore auspica che nel futuro si possa fare riferimento ad una diagnostica di tipo dimensionale e basata sul modello dello spettro.
Il prof. Pini ha presentato una relazione sul tema delle aree dei disturbi psicopatologici sottosoglia. Dopo aver ricordato la concettualizzazione di Haykal e Akiskal (1999) al riguardo, il relatore ha preso in esame i diversi aspetti dell’argomento a partire dai sottotipi di depressione sottosoglia. Esiste, infatti, una notevole varieta’ di quadri che possono essere raccolti sotto questa definizione, come il temperamento depressivo, il disturbo distimico, le forme depressive ricorrenti brevi, la depressione minore, la depressione atipica, i sintomi depressivi sub-sindromici e la depressione mista ansiosa-depressiva. Di questi solo alcuni trovano posto nel DSM IV: e’ il caso della distimia (in realta’ non disturbo sottosoglia, ma gruppo eterogeneo e da ridefinire), delle forme brevi ricorrenti (nell’appendice B) e del disordine misto ansioso-depressivo, sorta di stato misto attenuato. Tali quadri possono sfuggire all’osservazione clinica anche in setting specialistici.
Sono stati presentati i risultati di alcuni studi internazionali e nazionali condotti in tempi recenti, come la ricerca di Angst e colleghi nell’area di Zurigo (1997), a proposito sia delle tipologie della depressione sottosoglia, sia del loro decorso e della comorbidita’. Il disturbo sembra essere stabile nella maggior parte dei pazienti, con un 30% dei casi che evolve in forme maggiori (depressione o disturbo bipolare). La comorbidita’ e’ frequente con disturbi d’ansia (GAD, DAP), ma anche dell’umore di tipo bipolare ed e’ essenziale per la risposta al trattamento.
Rispetto al quadro della distimia, poi, il relatore ha citato un recente contributo di Akiskal (2001) che classifica il disturbo in due distinte tipologie, la distimia ansiosa e quella anergica, associate a diversi comportamenti rispetto a parametri di riferimento quali il sesso, la possibilita’ di mettere in atto tentativi di suicidio, i probabili neurotrasmettitori implicati.
Sono state presentate anche alcune considerazioni sui disturbi sottosoglia nell’ambito del disturbo bipolare ove, accanto ai classici quadri di Disturbo Bipolare I e II, si potrebbero ipotizzare quadri “minori” come la presenza di singoli sintomi ipomaniacali. Anche in questo caso, come per le depressioni sottosoglia, esiste una comorbidita’ con disturbi d’ansia e di abuso di alcol e sostanze.
L’approccio terapeutico a questi disturbi non e’ raccomandato dalle linee guida internazionali, che consigliano piuttosto un atteggiamento attento all’evoluzione e l’eventuale impiego della psicoterapia, ma di fatto e’ segnalata la prescrizione di antidepressivi. Da ultimo il relatore ha sottolineato che queste forme, talvolta sottostimate e non diagnosticate, comportano tuttavia un elevato grado di sofferenza personale, indipendentemente dal fatto che si tratti di prodromi o sequele di episodi “maggiori” ed in tal senso si comprende il motivo della prescrizione farmacologica.

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