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MANIFESTO CONGRESSO

X Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI)
LA PSICHIATRIA CHE CAMBIA IN UN MONDO IN TRASFORMAZIONE

Roma.
Hotel Hilton Cavalieri
22 febbraio - 26 Febbraio 2005

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IL CONGRESSO ON LINE

SECONDA GIORNATA - MERCOLEDI' 23 FEBBRAIO 2005
REPORT DALLE SALE CONGRESSUALI

Sotto una fredda pioggia battente sono ripresi stamattina i lavori del Congresso.
Come negli anni scorsi le prime ore della mattinata sono dedicate ai Corsi ECM, molto seguiti dai colleghi presenti.
Le sale dell'Hilton sono state parzialmente rinnovate con l'introduzione, era ora!!!, di collegamenti telematici a larga banda frutto del cablaggio completo dell'area congressuale.
Rispetto agli anni scorsi si notano molti piu' punti di accesso alla rete offerti ai congressisti da varie case farmaceutiche segno inequivocabile che il web e' diventato uno strumento imprescindibile nella nostra quotidianita'.

ECM “Terapie Anti-Craving” – G. Perugi “Dopaminergici e Dopamino agonisti”
Perugi precisa come sia elevata la comorbidita’ fra abuso di sostanze stimolanti (cocaina) e disturbi dell’umore, in particolare il disturbo bipolare di tipo II, e come l’assunzione non sia tanto legata alla fase depressiva come autocura bensi’ ancor di piu’ alle fasi ipomaniacali al fine di prolungare e potenziare la fase “up”.
L’abuso di sostanza, anche quando in comorbidita’, deve essere considerato un disturbo con la sua dignita’ – provoca infatti importanti e durature modificazioni neurofisiologiche nel SNC – e come tale trattato. Non esistono terapie di sicura efficacia o specifiche per trattare il craving da cocaina e da stimolanti, per alcune molecole esiste tuttavia evidenza di una possibile utilita’.
Antiepilettici (Carbamazepina, Valproato di Sodio): hanno una scarsa o assente efficacia sul craving, ma aumentano le capacita’ del soggetto di controllare l’assunzione della sostanza (di resistere all’impulso);
Antidepressivi: Imipramina e Desipramina ad alte dosi (maggiori di 200 mg) hanno un certo effetto anticraving, il Bupropione sembra utile nel diminuire la sintomatologia astinenziale piu’ che nel ridurre il craving.
Risultati migliori nella riduzione del craving si ottengono con derivati anfetaminici quali il Metilfenidato e la Destramfetamina, mentre appaiono promettenti quelli ottenuti con i Dopamino agonisti (Pramipexolo, Ropinirolo, Cabergolina e Pergolide), usati a dosaggi inferiori rispetto a quelli necessari per il morbo di Parkinson.
I limiti principali sono legati al fattore temporale, infatti tale sostanze a lungo termine tendono a perdere efficacia, ed all’elevata percentuale di drop out: sia Dopamino agonisti che derivati anfetaminici bloccano l’effetto della cocaina senza avere in compenso un’efficacia completa sul craving, inducendo in tal modo l’utente ad abbandonare la cura.
( a cura di F. Fiscella ed E. L. Fiscella)

Lettura magistrale – E. Vieta “Dalla neurobiologia alla pratica clinica: un approccio dimensionale alla schizofrenia e al disturbo bipolare”
Vieta analizza sovrapposizioni e differenze fra Disturbo Bipolare e Schizofrenia, ipotizzando geni candidati legati alla vulnerabilita’ per tali due patologie, alcuni dei quali sarebbero comuni ad entrambe. In definitiva il rischio genetico è maggiormente correlabile alla dimensione sintomatologia piuttosto che alla sindrome globale.
Esistono disturbi cognitivi sia nella Schizofrenia che nel Disturbo Bipolare ed i deficit sembrano essere qualitativamente gli stessi sebbene piu’ attenuati quantitativamente nel Disturbo Bipolare.
In diversi studi di coorte (Israele, Nuova Zelanda) in cui sono state valutate le funzioni cognitive di bimbi di 7 anni (QI, funzione motoria, comprensione verbale). Si e’ evidenziata una differenza tra i bambini che nei successivi 20 anni hanno sviluppato schizofrenia e quelli che invece hanno manifestato un disturbo bipolare: i primi avevano bassi punteggi ai test cognitivi, i secondi addirittura piu’ elevati della media. Visto che entrambi presentano da adulti deficit cognitivi, si puo’ pensare per la schizofrenia ad una patologia del neurosviluppo gia’ presente nell’infanzia, e per il disturbo bipolare ad un meccanismo neurotossico prodotto dagli effetti della malattia nel tempo. Non esistono comunque sintomi patognomonici specifici, per questo Vieta consiglia di porre particolare attenzione nell’impostare una terapia psicofarmacologici anche alle diverse dimensioni sintomatologiche, sempre basandosi sulle evidenze e la letteratura.
(a cura di E. L. Fiscella e F. Fiscella)

La psicopatologia che cambia
G. B. Cassano, P. Pancheri, R. Rossi

L’intervento del Prof. Cassano apre la sessione plenaria sul tema della psicopatologia che cambia parlando di “Nevrosi bipolare o bipolarita’ nevrotica”. La sua relazione inizia con una riflessione su alcuni limiti dell’approccio categoriale adottato dal DSM, con particolare riferimento alla difficolta’ di ottenere, soltanto tramite l’impiego di categorie diagnostiche, una descrizione completa del quadro clinico. A questa carenza, si aggiunge la rigidita’ della valutazione dell’elemento temporale nello sviluppo della patologia e il concetto di comorbilita’, non sempre adatto a descrivere la realta’ clinica.
Segue un’ampia presentazione di studi clinici approfonditi con dati esposti in modo chiaro e puntuale. Si inizia con la dimostrazione della presenza di elementi sintomatologici riconducibili allo spettro maniacale presenti, in maniera transdiagnostica, non solo nella forma bipolare (come e’ ragionevole attendersi), ma anche nella forma unipolare del disturbo depressivo. Il relatore ha poi esteso quanto sopra detto includendo le complesse sovrapposizioni tra spettro panico – agorafobico e disturbi dell’umore. L’applicazione di questo modello metodologico offre piu’ di un vantaggio dal punto di vista sia classificatorio che terapeutico, attraverso una migliore descrizione dei quadri clinici e una terapia piu’ attenta e mirata.
Questo tipo di approccio e’ in corso di sperimentazione nell’ambito di uno studio condotto in collaborazione tra l’Universita’ di Pisa e quella di Pittsburgh con l’obiettivo di ottenere una migliore descrizione dei fenotipi clinici in una prospettiva lifetime, che comprenda sia la fase sindromica che subsindromica. Il Prof. Cassano conclude sintetizzando lo scopo di questo lavoro nella citazione di G. Galilei: “Misura cio’ che e’ misurabile e rendi misurabile cio’ che misurabile non e’”.
Prosegue il prof. P. Pancheri sul tema "L'universo dimensionale della Psicopatologia", che gia' si interessava di dimensioni nel periodo di massimo fulgore del DSM, affrontando il discorso della comorbilita', che non esaurisce il problema della psicopatologia, dei correlati biologici e soprattutto della terapia.
Mostrando Platone ed Aristotele da un dipinto di Raffaello, evoca il mito della caverna, dove le ombre di una realta' che sfugge qui diventano i sintomi nella patologia psichiatrica.
Si puo' arrivare alla realta' nella clinica, come avviene nella medicina in generale? In psichiatria e' diverso: si ragiona per sindromi, trasportati nei disturbi ed infine si giunge alla terapia, oppure si usa un approccio differente (dimensionale), nel tentativo di avvicinarsi di piu' alla realta'.
L'universo categoriale (DSM) e' sempre piu' preciso, ma si deve considerare il problema dei confini (se troppo larghi, avremo aree di sovrapposizione, viceversa spazi aperti se troppo stretti, con l'esigenza di inventare nuove categorie). Un altro problema aperto e' la comorbilita' : si tratta di aspetti distinti o di meccanismi comuni?
Ci si puo' chiedere se in clinica sia veramente utile l'approccio categoriale, o se si possa ragionare in dimensioni. Oggi si preferisce piuttosto utilizzare un modello categoriale con sindromi che sottendono le dimensioni psicopatologiche, attraverso il quale risulta piu' facile avere terapie mirate legate alla patofisiologia e centrate sulla dimensione, ed in effetti il clinico ragiona quotidianamente piu' in termini dimensionali (es. apatia, rabbia,...) che categoriali.
Un'altra via che si puo' intraprendere e' ottenere una conferma (o base empirica) per affermare la realta' delle dimensioni. A tal scopo si introducono le "S.VA.RA.D." (entita' dimensionali-cliniche "comuni" a carattere trans-nosografico), in cui gli items ad es. sono Apprensione/Timore, Tristezza/Demoralizzazione, Rabbia/Aggressivita' ecc..., che possono aiutare lo psichiatra ad uscire dalla sopracitata "caverna".
Un'altra via, ancora piu' complessa, che puo' dare scientificita' alle "intenzioni cliniche" e' l'analisi fattoriale, valutando una popolazione di pazienti con una rating scale allo scopo di vedere se si possano ridurre i sintomi ridondanti ed identificare un numero piu' ristretto di variabili (dette "componenti principali") che sottintendano la patologia. Si tratta di una tecnica statistica, con la quale, per esempio, da 9 item, estraendo le componenti principali, si esce con 3 variabili descrittive di un fenomeno sottostante, non necessariamente legate ad un sottotipo categoriale.
In un'analisi fattoriale di segni e sintomi psichici e comportamentali in pazienti con disturbi di Asse I esempi di dimensioni estratte possono essere: Distorsione della realta', Apatia/Abulia, Rabbia/Aggressivita' .
Dalla statistica si arriva alla clinica, con una correlazione tra variabili dimensionali e variabili biologiche, identificando target piu' specifici, verso una nuova farmacoterapia, e potenziando le possibilita' di valutazione differenziale delle terapie psichiatriche.
Non bisogna pero' dimenticare che esistono problemi tutt'ora aperti.
I modelli: noi ragioniamo con modelli da cui si traggono le dimensioni, ma cambiando i modelli cambiano di conseguenza anche le dimensioni: i risultati possono essere diversi;
Le misure: usando determinate scale (es. PANSS) ottengo determinate dimensioni, ma se le cambio o le mescolo ne avro' altre;
Il numero delle dimensioni: quanti fattori sono sottesi? Esiste un limite tecnico, ma ci si deve chiedere anche se e quando tagliare il numero delle dimensioni, se non sono significative; non meno importante, la dimensione mancante, cioe' la dimensione longitudinale (il Tempo), che avra' un ruolo di primo piano in futuro.
Tirando le somme, a che punto siamo con il mito della caverna? Possiamo vedere cosa sta sotto le apparenze (i sintomi)?
Siamo dell'idea che oggi si sia piuttosto spostato il mito ad un altro livello, vediamo meglio le immagini, ed e' un piccolo passo. Si conclude che se riuscissimo a vedere gli endofenotipi correlati geneticamente, forse riusciremo a scorgere la realta' e saremo al livello della medicina generale.
Chiude la sessione plenaria la applauditissima relazione del Prof. R. Rossi intitolata “questa nostra psichiatria di oggi. Cambiamento della psichiatria o cambiamento dello psichiatra?”.
Rispetto alla evoluzione della psicopatologia descritta nei precedenti interventi il focus della riflessione viene spostato sul cambiamento, in questo contesto, della figura dello psichiatra: della sua identita’ professionale e del suo agire (dal modo di curare a quello di fare ricerca). Il percorso va dalla nascita della psichiatria descrittiva, che il relatore individua non tanto nei trattati quanto nelle piu’ efficaci opere della letteratura ottocentesca, come la “Come’die umaine” di Balzac, al devoto rigore dello psichiatra di oggi verso il DSM IV TR, alla ricerca dello psichiatra perfetto di Elias Canetti.
R. Rossi ci dimostra che il cambiamento dello psichiatra segue criteri che richiamano al procedimento Darwiniano secondo le esigenze di un ambiente che muta, con i mutamenti delle altre scienze, e della variabilita’ individuale che per lo psichiatra si esprime nella tensione costante verso il bisogno di uno statuto scientifico piu’ forte, di fronte alla intrinseca debolezza di partenza.
Vengono descritti allora in un brillante e coinvolgente per l’uditorio percorso nell’ “evoluzione della specie” i diversi psichiatri: ritroviamo lo psichiatra narratore, abile descrittore con la passione per la lettura e la scrittura, che non segue le guidelines o i protocolli, lo psichiatra positivista-linneianoche procede per classificazioni e assemblaggi di caratteristiche, soprattutto comportamentali, e traduce ogni evento in terminologia tradizionale e raggruppa in grandi categorie con in mente la psicosi unica tedesca. Vediamo poi lo lo psichiatra economico-positivo o positivista classico che a partire dall’idea di Freud vede i sintomi nascere da rapporti di forze e controforze, secondo un criterio strettamente economico-positivo e che individua nella consapevolezza la soluzione dei sintomi o delle turbe di personalita’.
Troviamo quindi lo psichiatra positivista moderno alla Pavlov o alla Bowlby per il quale la malattia deriva da rappresentazioni mentali od oggetti interni deformati che producono i sintomi e la psicoterapia assume un’impronta pedagogica intrinseca. Arriviamo allo psichiatra tendenzialmente farmacologo o neurobiologo per il quale il modello e’ neurochimico e neurofisiologico ed il recupero dell’insicureza dello statuto scientifico avviene tramite l’utilizzo di schemi semplici (tipo mediatore-recettore) necessariamente riduzionistici; questi usa i farmaci in modo competente ed ha un “impact factor” mediamente piu’ alto dei precedenti. Quindi lo psichiatra iperdiagnosta che si basa sul concetto categoriale e segue l’ultimo DSM come un vero e proprio trattato, particolarmente sensibile nelle sue indagini statistico-farmacologiche alle esigenze esterne dalla ricerca. Infine lo psichiatra socio-organizzatore o dimissionario, lo psichiatra italiano medio di oggi che e’ un buon dirigente amministrativo, meno interessato alla psicopatologia, che segue le guidelines e i protocolli e fa ricerche di ordine prevalentemente statistico-epidemiologico finalizzate al miglioramento dell’organizzazione dei servizi.
Rispetto a questo divertente e provocatorio panorama di psichiatri di oggi la riflessione finale e’ su quello che per il relatore resta il mestiere piu’ bello del mondo, fatto con un’attrezzatura che e’ essenzialmente mentale e di per sé specifica e straordinaria, e con un invito a farlo forse al di la’ del costante e pressante bisogno di inseguire statuti ineccepibili che ci diano sicurezza.
(a cura L. Adriano, G. Bergamino, M. Fenocchio, W. Natta)

Gli effetti delle guerre sulla salute mentale S. Priebe, G. M. Galeazzi, A. Reda
Il simposio si apre con la relazione del prof. S. Priebe (Universita’ di Londra) su “Il trattamento dei soldati tedeschi con Sindrome da Stress nelle Guerre Mondiali e il cambiamento dei concetti psichiatrici di trauma”, seguendo il monito dato da W. Churchill :” Piu’ si guarda indietro, piu’ si vede avanti”. Inizia ad analizzare il XIX sec., ed il concetto di “railway spine”, con l’indennizzo dato agli individui che subivano incidenti ferroviari: a seguito di un notevole aumento delle richieste, si introdusse un’assicurazione obbligatoria, con conseguenti denunce alle compagnie assicurative. Questo porto’ all’esigenza di definire la “nevrosi traumatica”, e al dibattito sul ruolo dell’indennizzo e del rapporto con il morale delle classi lavoratrici e sull’esistenza di una predisposizione, nell’ottica che il trauma innescava il sintomo, ma non ne era la causa.
In seguito, si affronta il trattamento dei soldati tedeschi durante la prima guerra mondiale affetti da “nevrosi da guerra”,la cui sintomatologia era costituita da tremore, disturbi del linguaggio, della vista, dell’udito. Con l’avanzare della guerra, aumento’ il numero dei casi, costituendo una seria minaccia alla disciplina e al morale delle truppe, ed in seguito ad una conferenza del 1916, si adotto’ la linea dura: rifiuto da parte dei medici a fare diagnosi di nevrosi di guerra in segno di lealta’ alla patria. Inoltre, i piu’ comuni metodi di trattamento erano: l’ipnosi, con suggestioni perentorie e subordinazione del paziente, ed il trattamento attivo, esercitazioni militari e stimoli dolorosi provocati a mezzo di corrente elettrica. Un piccolo gruppo comunque utilizzo’ psicoterapia psicodinamica a breve termine. I tentativi terapeutici comunque terminarono alla fine della guerra, e nel 1926 la nevrosi da guerra venne rimossa dalla previdenza sociale.
Durante la seconda guerra mondiale, il fenomeno venne trattato meno apertamente (forse anche in relazione alle modalita’ diverse di combattimento), e la sintomatologia inizialmente era esteriorizzata (sintomi psicosomatici, es. ulcera peptica, tanto che i soldati furono raggruppati in speciali battaglioni). Con il passare del tempo i sintomi vennero interiorizzati, e si ebbero anche reazioni isteriche. Il trattamento in questi casi fu di non dare pensioni ne’ congedi, si utilizzarono forme meno invasive di ipnosi (training autogeno) e psicoterapia, associate pero’ a forme al limite con la tortura (correnti galvaniche a tutto il corpo, ipnosi aggressiva, catene, e per chi non rispondeva, corte marziale e campo di concentramento).
Le vittime della prima guerra mondiale furono soprattutto soldati, mentre nella seconda vi furono moltissime vittime civili: e’ importante ricordare che fino ad oggi il disagio dei civili non e’ stato mai trattato dagli psichiatri tedeschi (un ipotesi ricollega questo alla situazione del popolo tedesco, impegnato nella sopravvivenza e nella ricostruzione, dopo il senso di colpa del Nazismo).
Anche per quanto riguarda i sopravvissuti all’olocausto, gli psichiatri tedeschi hanno ammesso la presenza di disturbi, giustificati pero’ dalla situazione eccezionale.
Solo negli anni ’90 si e’ iniziato a parlare di PTSD, seguendo gli Stati Uniti; oggi comunque lo si accusa di tautologia, in quanto la qualita’ del trauma sarebbe definita dalle sue conseguenze, inoltre molti pazienti non soddisfano adeguatamente i criteri. Per altri sarebbe il risultato di una psicopatologia individualista, o servirebbe soltanto ad alimentare l’industria assicurativa. Si conclude che i cambiamenti nel concetto di PTSD nel tempo non sono dovute a nuove intuizioni, ma a forze sociali e politiche, e la diffusione della cultura del risarcimento nelle societa’ occidentali potrebbe portare ad altri cambiamenti nel concetto di PTSD.
Segue l’intervento del Prof. G. M. Galeazzi che verte sugli esiti sociali e clinici in popolazioni di profughi e sulla presentazione della ricerca CONNECT. Partendo dalla definizione, con i suoi risvolti politici, dei termini immigrante, rifugiato, profugo e sfollato interno presenta le conseguenze per la salute mentale di queste condizioni con riferimento ad i fattori di rischio ed a quelli protettivi.
Inizia poi la descrizione dello studio le cui caratteristiche di spicco sono la multicentricita’ (ex Jugoslavia, Italia, Germania, Regno Unito), il considerevole follow-up, la creazione di una rete di istituzioni che collaborano sull’argomento.
Di particolare interesse risulta il confronto, in termini di incidenza dei disturbi mentali legati agli eventi bellici, tra la popolazione che si e’ allontanata dal paese in guerra (andando incontro alle problematiche psichiche arrecate dalla condizione di profugo) e quella che e’ rimasta.
Conclude l’intervento del prof. A. Reda su “Il concetto della disclosure nel DPTS” ponendo la domanda su cosa si propone come intervento psicoterapeutico, su come intervenire su cio’ che rimane nel ricordo di chi ha subito il trauma e su come farglielo affrontare.
Si e’ posto come esempio il tentativo di interventi di coping dopo gli eventi dell’Undici Settembre, con tecniche di training autogeno al fine di far tornare al lavoro e far tornare sui luoghi del disastro le vittime: inaspettatamente vi furono ricadute ed eventi psicopatologici, con insuccessi clamorosi. A quel punto vennero elogiati i meccanismi di difesa.
Per comprendere meglio il fenomeno, viene spiegato il significato di disclosure, come capacita’ di parlare degli eventi traumatici affrontati, soprattutto dei propri vissuti: ricollegare se stesso e comunicare il modo in cui si e’ vissuta la situazione, collegarsi anche con i propri segnali fisici, le sensazioni somatiche e mentali al momento in cui si ricorda. Si affronta poi il discorso dello stress e dei suoi effetti sulla memoria: immagini e sensazioni troppo intense diventano traumatiche se non sono collegate alla memoria narrativa. Come stress infatti definiamo un evento ad alto impatto emotivo a cui non riusciamo ad attribuire un significato narrativo. E’ quindi importante non far evocare troppo presto al paziente l’evento traumatico, se e quando non e’ stato elaborato e collegato alla memoria narrativa: questo puo’ forse spiegare il fallimento delle strategie di coping nell’interrompere i sintomi nel caso precedentemente citato dell’Undici Settembre. Anche riguardo all’Olocausto si sono fatti studi suddividendo i sopravvissuti in persone con buona disclosure vs coloro i quali non riuscivano, o riuscivano poco, a parlare del trauma subito: si e’ visto che dopo mesi questi ultimi, a basso livello di disclosure, avevano sofferto maggiormente di malattie organiche rispetto al primo gruppo (buona disclosure)
Infine, un ultimo spunto di riflessione e’ stato dato dall’esposizione dei risultati degli studi di Davidson, che hanno evidenziato una aumentata attivita’ dell’amigdala e del giro ippocampale a fronte di una scarsa attivazione della corteccia pre-frontale.
(A cura di L. Adriano, M. Fenocchio, W. Natta)

Report dal Simposio tematico parallelo: Le sindromi da discontrollo frontale: dal suclinico al clinico
Apre i lavori il Prof. Altamura con un intervento introduttivo al problema, partendo da considerazioni di tipo epidemiologico, in base alle quali patologie del lobo frontale sono relativamente frequenti e dunque importanti; infatti tali patologie non riguardano soltanto l’ eta’ senile con eziopatogenesi prevalentemente vascolari ma anche l’ eta’ presenile (40-65 anni) e giovanile (prima dei 40 anni), in questo caso con patogenesi prevalentemente degenerativa.
L’ attribuzione di competenza di tali patologie è spesso problematica, con la conseguenza che il paziente finisce per essere preso in carico solo parzialmente e con difficoltà sia dal neurologo che dallo psichiatra.
Un altro problema osservato in questi pazienti è la farmacoresitenza che si osserva o la risposta talvolta inadeguata ai farmaci. Sempre per quanto riguarda la patogenesi tali sindromi si possono presentare, oltre che di natura vascolare o degenerativa anche di natura di altro tipo (da accumulo etc) con aspetti di valutazione neuroradiologica ancora da approfondire.
Dal punto di vista clinico la sintomatologia risulta caratterizzata da una forte impulsività e discontrollo degli impulsi con la possibilità di atti suicidari improvvisi, ansia ingravescente e incontrollabile, attacchi di panico, aspetti di tipo compulsivo.
Gli aspetti di correlazione tra patologia della corteccia frontale e il DOC vengono affrontati dalla relazione del Prof. Biondi, che mette in evidenza il seguente quesito: nel DOC impulsita’ e compulsivita’ coesistono?
Secondo il modello temperamentale “Cloniger R” da lui utilizzato nei suoi studi la correlazione risulta molto scarsa, anzi risultano quasi all’ opposto.
Dati di neuroimaging mostano, dopo stimolazione, un iperafflusso nella corteccia orbitofrontale nel caso di pazienti con compulsioni, mentre tale quadro non si riscontra nei pazienti impulsivi. La clozapina fornisce un esempio di tale aspetto opposito-polare tra impulsivita’ e compulsioni: si è’ osservato infatti che in pazienti schizofrenici la terapia con clozapina diminuisce l’ impulsivita’ legata agli atti suicidari mentre determina talvolta la comparsa di rituali, compulsioni e ossessioni.
Conclude infine la Dott.ssa Bassetti con un’ analisi sui correlati tra patologia del lobo frontale e sintomi depressivo-ansiosi. Nell’ impostazione del loro studio hanno ricercato in particolare due quadri: uno di depressione nell’ anziano legata agli aspetti vascolari nel lobo frontale, con prevalere di somatizzazione, arresto psicomotorio, sintomi pseudodemenziali e relativamente esigua presenza di impulsivita’ correlata ad azioni suicidarie, anche dopo sei mesi di terapia antidepressiva con TCA e SSRI combinata i miglioramenti sono scarsi e poco significativi e si osserva uno scarso miglioramento dei punteggi della Hamilton e altri test mirati.
L’ altro quadro si è’ osservato in pazienti dai 40 ai 65 anni, e’ caratterizzato da eziopatogenesi degenerativa e prevalenza di impulsivita’ e ideazione suicidaria, anche in questo caso la risposta ai farmaci e’ carente e non univoca. Tale quadro e’ stato da loro denominato sindrome da discontrollo emozionale. Sara’ da valutare con futuri follow-up il decorso di tali pazienti vista la scarsa risposta alla terapia in relazione a considerazioni di farmaco economia.
Conclude il Prof. Altamura sottolineando l’ importanza di riconoscere gli aspetti affettivi nella patologia del lobo frontale, questo permetterebbe di essere da subito gia’ consapevoli della scarsa risposta alle terapie farmacologiche evitando cosi’ un inutile trasferimento per competenza del paziente tra psichiatra, medico delle emozioni e neurologo, medico chiamato a valutare gi aspetti di deficit cognitivi.
(A cura di Emanuela D'Angelo e Giuliano Sciaccaluga)

Simposio tematico parallelo: cosa ne faremo di tutte queste psicoterapie?
Apre la sessione l’intervento del prof. R. Rossi che propone una riflessione sui cambiamenti della psicoterapia nel panorama dei cambiamenti della prassi e, piu’ a monte, dello stesso statuto scientifico in atto in campo psichiatrico. Viene messo in evidenza come sempre maggiormente gli elementi e i fattori aspecifici acquistino peso e importanza in psicoterapia, rendendo piu’ difficile l’individuazione di riferimenti specifici sul piano teorico nell’agire psicoterapico. Alla ricerca di quelle caratteristiche che, la di la’ dei presidi teorici, rendano efficace e fruttuoso l’intervento psicoterapico viene alla luce il paragone con la cavalla di Jona Potapov del racconto di Cecov “Angoscia”; l’animale paradossalmente richiama al denominatore comune dell’ascolto partecipe, agli aspetti di presenza, di cavita’ contenitiva, come metafore del capire, a distanza dall’ambito delle teorie di base, dove le specificazioni rigide allontanano da una buona pratica clinica. Ci si interroga su cosa passa dietro il prevalere di tali fattori aspecifici e sul problema odierno delle cosiddette psicoterapie integrate.
Il seminario prosegue con l’intervento del Prof. A. Verde che, in qualita’ di presidente dell’Ordine degli psicologi della Liguria, ci parla di Psicoterapia senza farmaci secondo il punto di vista di uno psicologo che prova come il protagonista di “Balla coi lupi” a passare il confine ed a guardare il suo mondo da fuori. Uno psicologo non somministra farmaci, quindi e’ costretto a riflettere su come e cosa si fa in psicoterapia. Ci sono una o molte psicoterapie? L’attenzione viene posta sui rischi e sull’effetto disgregante del somministrare una teoria psicologica come un farmaco, derivanti da una serie di aspetti del terapeuta, come il timore dell’”ignoto” del lavoro psicoterapico, il possibile vuoto di formazione e la ricerca di un luogo sicuro a cui appigliarsi.
Nuovamente si evidenzia l’importanza dei fattori aspecifici, secondo il pensiero di Ogden si richiama il dibattito psicoanalitico su cio’ che realmente cura: l’importanza delle qualita’ affettive dell’introiezione, dell’interpretazione del contenuto corretto, dell’interpretazione in cui l’analista crede, fino al nuovo concetto di azione interpretativa ed agli aspetti del terzo analitico, secondo l’importanza del setting nel come si cura.
Il relatore propone in modo provocatorio il concetto di feticismo della teoria, come un’adesione acritica alle indicazioni della teoria di base di riferimento, tanto pericolosa quanto puo’ essere il feticismo farmacologico. Secondo i rischi individuati da Bion che parlava di Y come psicologo, in riferimento all’uso di una teoria per saturare l’esperienza e allontanarsi difensivamente da una comprensione emotiva. Cosi’ come il medico alessitimico che guarda il corpo ma non l’anima esiste il rischio di uno psicologo delle scuole di psicoterapia che fa all’opposto, distante dall’obiettivo di una buona psicoterapia fatta anche della presenza fisica di un corpo-contenitore emotivo.
Prosegue i lavori l’intervento della Prof A. Berti che si interroga su quale psicoterapia e per chi? Riflettendo sulla scelta della psicoterapia e sulla qualita’ dell’invio. La psicoterapia diventa sempre piu’ un qualcosa da somministrare come un farmaco, secondo certi obiettivi-bersagli; questo nel contesto della sempre crescente necessita’ di linee guida, di risultati testati, della valutazione degli obiettivi, i lavori clinici in questo campo sono diventati piu’ noiosi ma piu’ capaci di evidenziare questi aspetti. Si differenziano i tre grandi gruppi delle psicoterapie dinamiche, cognitivo-comportamentali, sistemico-relazionali, si differenziano i metodi sul piano nosologico, della formazione ed empatico; quest’ultimo sembra garantire dai rischi degli altri due di una psicoterapia in pillole dove la nosologia induce il trattamento e dove il paziente che si accorge della prevalente istanza classificatoria del curante spesso si allontana dal trattamento. Allora al di la’ dei criteri di invio, piu’ specifici in alcuni casi, piu’ generici in altri, diventano cruciali nella scelta della psicoterapia e dello psicoterapeuta altri aspetti come si possono ritrovare molto efficacemente nell’esempio letterario del romanzo di Philip Roth, inerenti quello che sa il paziente e la qualita’ empatica dell’incontro.
Chiude la sessione la relazione del Prof R. Rossi che riflette sulle teorie di base in rapporto alla pratica clinica; parla di diverse teorie, ma spesso di una stessa clinica.
A partire dall’esempio di Filodemo di Gaddara, individuato come l’inventore della psicoterapia di gruppo vengono ricordate le principali teorie e messe in relazione con i principali aspetti della pratica clinica: il transfert, l’accettazione dell’inconscio, le indicazioni dirette, la dimensione pedagogica, l’influenza della percezione del mondo e delle rappresentazioni mentali, gli aspetti sostitutivi della psicoterapia.
Si susseguono una serie di esempi letterari e clinici dove vengono evidenziati con efficacia aspetti specifici ed aspecifici, inerenti le diverse matrici teoriche e che si ritrovano, spesso compresenti, nella maggior parte delle esperienze cliniche. Si ritorna quindi all’esempio iniziale di Cecov, a conferma dell’importanza, al di la’ della teoria, dei fattori precedentemente descritti.
(a cura di G. Bergamino)

Simposio tematico parallelo: Il problema dell’obesita’.Cosa abbiamo imparato dalle tossicodipendenze. Moderatori prof.I.Maremmani, prof.G.Perugi
L’introduzione viene presentata dal prof.Maremmani il quale mette in evidenza la possibile correlazione esistente tra i disturbi alimentari e i disturbi d’abuso di sostanze ,grazie alle quale è stato possibile valutare un insieme di nuove conoscenze sia sul piano diagnostico,sia sul piano terapeutico.Viene messo in oltre in evidenza la notevole somiglianza tra i due disturbi che pare esistere non solo da un punto di vista clinico ,ma anche secondo aspetti culturali e anche cognitivo-comportamentali.
Il simposio prosegue con l’apertura della parte svolta dal prof.Nencini,neurofisiologo del dipartimento di fisiologia umana e farmacologia dell’universita’ di Roma “La Sapienza”,il quale evidenzia l’importanza di un particolare isomorfismo tra cibo come sostanza d’abuso e sostanze d’abuso propriamente dette ,in particolare facendo riferimento a oppiacei come la morfina.Da uno studio condotto su ratti esposti cronicamente ad anfetamina, viene osservata nel tempo una peculiare attività responsiva profagica nei confronti della morfina.Questa risposta sembra trovare spiegazione nell’attività dopaminergica sui recettori D2 del sistema mesolimbico .
Ci si chiede tuttavia se l’attività dopaminergica provochi un rinforzo della fase appetitiva o consumistica nell’animale preso in studio.Infatti tali ratti vengono successivamente esposti all’assunzione di neurolettici e si osserva un blocco della fase appetitiva con normalita’della fase consumistica,mentre invece dopo assunzione di anfetamina è chiara la disinibizione della fase appetitiva e meno di quella consumistica.
Questa netta dissociazione tra fase appetitiva e fase consumistica mostra pertanto un animale che non lavora necessariamente per consumare ,ma per gratificarsi, realizzando quello che viene definito “un comportamento appetitivo“.Quello che avviene e’dunque uno sganciamento del “volere”(wating)dal “piacere” ,fenomeno di notevole importanza che ritroviamo comunemente nelle tossicodipendenze,la’ dove si puo’ asserire che tutti gli stimoli dell’ambiente esterno riconducono il soggetto a identificarne in realta’ solo uno ,atto e unicamente diretto ad assumere la sostanza responsabile dell’ipertono dopaminergico che provoca il “piacere”.
Interviene il prof.G Perugi con un osservazione valutativa riguardante la comorbilità bipolare nei disturbi dell’alimentazione:
una prima importante valutazione verte su un’osservazione riguardante la frequente correlazione esistente tra “binge eating” e l’ipomania.A sua volta l’osservazione si estende nel ritrovare altrettanto frequentemente una forte comorbilita’ tra temperamenti ciclotimici e disturbi della condotta alimentare.In specifici studi infatti si e’ osservata la presenza di un 25% di disturbi bipolari e ben 85% di disturbi dell’umore in pazienti con alterazioni della condotta alimentare.Questo dato e’ di notevole importanza, infatti l’osservazione di un anello di congiunzione tra disturbi bipolari e dell’alimentazione sembra essere proprio rappresentato dall’obesita’
Tuttavia parlare di semplice comorbilita’ puo’ essere riduttivo.E’ necessario per tanto osservare altre realta’ psicopatologiche di altrettanto valore clinico,come l’impulsivita’e l’autosensibilizzazione che si traducono in azioni quotidiane di vita che possono presentare un certo rischio :azioni impulsive che riguardano ad esempio il sesso ,viaggi,gioco d’azzardo.
Si tratta per tanto di pazienti iperreattivi con un quadro di maggiore compromissione emozionale che talora presentano anche quadri comportamentali di evitamento e compulsioni.Possono in ultimo essere considerate altre condizioni psicopatologiche come i disturbi d’ansia e disturbi di personalita’con risvolti di notevole impulsivita’ iperreattiva.
In ultimo interviene il prof.Pani con un argomento definito”provocatorio” dal prof.Maremmani rappresentato dalla valutazione del cibo come sostanza d’abuso.
Il prof.Pani sottolinea il problema del non aver mai affrontato queste tematiche in passato e di come in realta’ la problematica doveva probabilmente essere valutata ancor prima.Infatti anch’egli mostra la stretta somiglianza tra le tossicodipendenze e i disturbi dell’alimentazione secondo la valutazione di molti elementi in comune:
il craving,la perdita di controllo,la preoccupazione quotidiana nel ricercare il cibo o la sostanza,il comportamento ripetitivo,le conseguenze dannose sul piano psicosociale e in ultimo la negazione del problema.
In studi condotti su ratti si e’ svolta una ricerca sulla valutazione della responsivita’ del nucleo accumbens nei riguardi di sostanze diverse dall’anfetamina ,responsabile infatti dell’ipertono dopaminergico.Tra queste sostanze vengono valutate,oltre oppiacei come cocaina ed eronia,anche particolari alimenti,come dolciumi e patatine fritte(le famose “fonzies”).E’ stato osservato infatti che la somministrazione di cocaina ed eroina provocano aumenti di dopamina nel nucleo accumbens anche nelle successive assunzioni.Per quanto riguarda invece gli alimenti utilizzati ,si e’ notato un aumento della risposta dopaminergica nel nucleo,solamente alla prima somministrazione,e non nelle successive.Ma l’aspetto piu’ importante sembra essere rappresentato non tanto dall’effetto del piacere provocato dall’attivita’ dopaminergica,piu’ che altro da un concetto legato all’apprendimento.
La dopamina infatti sembra segnalare l’attribuzione di proprieta’ incentive a stimoli associati a un particolare evento,fissandoli per tanto nella memoria a lungo termine.
Nel caso del tossicodipende si parla di “over apprendimento”per cui ogni stimolo riconduce obbligatoriamente a riproporre la situazione fondamentale della prima esperienza.Similmente ritroviamo questa realta’ psicopatologica in soggetti con disturbi alimentari,in particolare nella bulimia. Conclude il prof.Maremmani valutando gli aspetti farmacoterapici .
Anche in ambito terapeutico e’ possibile notare la somiglianza tra i disturbi alimentari e le tossicodipendenze.Difatti grandi risultati sono stati ottenuti con l’utilizzo di antagonisti per gli oppiacei ,in particolare naltrexone.Il problema sollevatosi deriva dal dosaggio,in quanto in letteratura le dosi solitamente utilizzate sono sempre state 200-300 mg,solitamente nelle tossicodipendenze.Nei disturbi della condotta alimentare tali dosi creano effetti di epatotossicita’ marcata. In uno studio condotto all’Università di Pisa si e’ utilizzata l’associazione del Naltrexone a dosi di 100mg con Fluoxetina. Lo studio e’ stato realizzato nell’arco di tre mesi secondo precise modalita’: nel primo mese si e’ utilizzato solo Naltrexone, nel secondo mese solo Fluoxetina, mentre nell’ultimo, la loro associazione.
Si e’ potuto osservare nei risultati dello studio il miglioramento delle pazienti per quanto riguarda l’area ossessivo-compulsiva grazie alla associazione di Fluoxetina ed il notevole progresso clinico quanto alla condizione psicopatologica “over-apprendimento”, anello di congiunzione clinico tra le tossicodipendenze ed i disturbi dell’alimentazione.
(A cura di E. D’Angelo)

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