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Risto Fried, Freud on t he Acropolis - a detective story, Therapeia Fundation, Helsinki 2004

[Freud on the Acropolis - a detective story, è stato pubblicato in una edizione speciale, con un limitato numero di copie e deve essere ordinato direttamente a Therapeia Fundation, Topeliuksenkatu 15, 00250 Helsinki, Finland (hallinto@therapeiasaatio.inet.fi).

(Questa recensione è stata tradotta in italiano dall’autore: Carlo Bonomi, Borgo Pinti 87, 50121 Firenze, mail@bonomicarlo.191.it - www.bonomicarlo.191.it)]

Ma Freud aveva paura di volare?

Poco prima di scoprire l’universalità del complesso edipico Freud era in viaggio per l’Italia, da solo e alla ricerca di esperienze estetiche. Nel settembre del 1897 visitò Orvieto e qui, dopo esser entrato in una tomba etrusca (che in seguito sarebbe riapparsa nei suoi sogni e nei suoi lavori come persistente simbolo di morte), salì fino alla cattedrale dove rimase senza fiato davanti agli splendidi affreschi del pittore rinascimentale Luca Signorelli. La bellezza del momento venne però disturbata da qualcosa — forse un presagio o forse un semplice timore: egli sarebbe morto prima di visitare Roma. Il 3 dicembre, proprio nel mezzo della sua autoanalisi, scrisse a Wilhelm Fliess che il suo desiderio per Roma era "profondamente nevrotico". Un anno dopo stava viaggiando ancora solo e, conversando con un occasionale compagno di viaggio, gli stava dicendo che per nulla al mondo poteva perdersi un posto come Orvieto, quando ebbe un disturbo della memoria: non riusciva a ricordare il nome dell’autore degli splendidi affreschi, nonostante che li vedesse come se li avesse di fronte agli occhi. Ancora una volta la delusione venne compensata da una conquista intellettuale: in pochi giorni scrisse il primo saggio su un "lapsus freudiano", Sul meccanismo psichico della dimenticanza (1898), che sarebbe in seguito diventato il primo capitolo della Psicopatologia della vita quotidiana (1901). In questo periodo fece vari viaggi in Italia con lo scopo di raggiungere Roma, ma non vi riuscì mai. La "fobia romana" divenne il simbolo di tutte le conquiste più intime e segrete che gli erano vietate e un punto focale nella sua autoanalisi. Infine, nel 1901, al suo sesto viaggio Italia, la fobia venne superata. Come avvertendo l’assurdità della sua nevrosi, egli scrisse alla moglie: "a mezzogiorno, di fronte al Pantheon … Così questo è ciò che ho temuto per anni!"

L’esperienza di visitare Roma fu qualcosa "sconvolgente", come scrisse a Fliess il 19 settembre 1901, e rappresentò una "vetta" nella sua vita. Egli era così preso e assorto dai monumenti che si "sarebbe inginocchiato in adorazione davanti all’umile e mutilato tempio di Minerva". Eppure qualcosa sopraggiunse a guastare il godimento. Questa volta capì di che cosa si trattava, o almeno gli parve. A Fliess scrisse che la ragione del suo turbamento interiore era la "Roma Cristiana": incapace di dimenticare la propria miseria, era stato preso dalla rabbia per "la menzogna della salvezza del genere umano che innalza così orgogliosamente la sua testa verso il cielo". Riuscì comunque a liberarsi dei pensieri che lo turbavano con un rito privato: introdusse la mano nella Bocca della Verità, giurando che vi sarebbe tornato — ciò che poi fece. Ma Roma non era tutto: come il tempio dedicato alla dea Atena, il Partenone, era molto più bello del tempio di Minerva (l’equivalente romano della greca Atena), così Atene superava Roma. E però Freud non osò mai pianificare un simile viaggio.

Atene venne visitata da Freud tre anni dopo, nel 1904, in modo quasi furtivo e in compagnia del fratello minore Alexander. Essendo intriso di cultura classica, amando paragonare il suo lavoro a quello dell’archeologo e avendo fatto di una leggenda greca la chiave per comprendere l’umanità intera, la salita fino al Partenone si profilava come il raggiungimento del grado più alto del piacere. E però ancora una volta il piacere venne rovinato da uno stano sentimento di incredulità. Anzi, l’esperienza si rivelò così rovinosa e perturbante che ad Atene Freud non sarebbe mai più tornato (mentre avrebbe visitato Roma altre sei volte). Perché?

Questa domanda, che per molti anni continuò a stregare i suoi pensieri, venne affrontata in una lettera aperta a Romani Rolland, scritta nel 1936. l’ultimo saggio autoanalitico di Freud, a cui venne dato il nome prima di Incredulità sull’Acropoli e poi di Un disturbo della memoria sull’Acropoli, è una meditazione sul credere e il dubitare, sulla realtà e il sogno, sull’ambizione e la pietà, scatenato dai turbamenti di un uomo il cui desiderio infantile viene finalmente soddisfatto. In gioventù Freud aveva sofferto la povertà e poteva solo sognare di posti lontani che a lui apparivano semplicemente irraggiungibili; ma ora egli era lì, aveva fatto un lungo cammino e ora se ne stava in piedi sulla vetta del mondo! In qualche modo la situazione rassomigliava ad un episodi molto più grande, l’incoronazione di Napoleone a Notre Dame, quando l’imperatore si girò verso uno dei fratelli dicendo: "Che cosa direbbe Monsieur notre père, se potesse essere qui adesso?"

Nella sua analisi Freud notò che il piacere era stato rovinato da uno strano vissuto di incredulità spostato nel passato, come se, stando in piedi sull’Acropoli, fosse stato spinto a credere in qualcosa la cui realtà gli era da sempre sembrata dubbia — per fare un paragone: era come se qualcuno stesse costeggiando il lago di Loch Ness, quando l’improvvisa apparizione del famoso mostro lo costringesse ad ammettere "Dunque esiste veramente il serpente acquatico al quale non abbiamo mai creduto!"

La premessa di questa strana incredulità si era insediata già all’inizio del viaggio, a Trieste, quando l’idea di andare ad Atene glie era apparsa "too good to be true", troppo bella per essere vera, come se egli non "fosse degno di tanta felicità", come se non "se la meritasse". Secondo Freud questo dubbio era stato conservato nel sentimento di incredulità, producendo in seguito il vissuto "Ciò che vedo non è reale". Se il dubbio aveva potuto interferire con il piacere di stare in cima all’Acropoli era perché, in definitiva, questo piacere implicava il desiderio di superare il padre, come se eccellere sul proprio padre fosse qualcosa di proibito — questa era la conclusione di Freud.

Il saggio dell’Acropoli è l’incoronazione di una autoanalisi durata tutta una vita. Come possiamo avvicinarci ad essa? E come dovremmo considerare la reazione della comunità psicoanalitica? Per Risto Fried il disturbo dell’Acropoli "non riguarda un incidente isolato nella vita di Freud ma la sua personalità, la sua sincerità, i suoi principi morali, l’estensione del disturbo di personalità di cui egli soffriva, la sua accuratezza scientifica e la validità delle sue teorie. Quasi tutti i suoi critici erano loro stessi psicoanalisti. Se avevano trasformato Freud dal primo psicoanalista in analizzando, le loro reinterpretazioni della sua autoanalisi avrebbero dovuto essere la misura di quanto la psicoanalisi era progredita dalla morte del suo fondatore" (p. 27).

A parte un breve commento di Jones, per i primi trent’anni il saggio di Freud non ha prodotto alcuna reazione tra i membri della comunità psicoanalitica, ma negli anni Sessanta si era formata una nuova generazione di psicoanalisti pronta a esibire una nuova libertà nel criticare la loro più alta autorità. Il primo fu B. Harrison, il quale scrisse un primo articolo nel 1966, presto seguito da altri commenti in cui l’interpretazione di Freud veniva regolarmente trovata come non convincente e in cui quasi ogni aspetto dell’autoanalisi di Freud era sottoposto ad una nuova analisi. Negli anni 1966-69 una importante discussione apparve su American Imago con i contributi, fra gli altri, di Leonard Shengold, Mark Kanzer, Harry Slochover, William Niederland and Max Schur. Molti altri articoli e persino libri sul disturbo dell’Acropoli vennero pubblicati nei seguenti 25 anni. Quali sono state le reazioni di questi autori? Possiamo oggi leggere l’autoanalisi di Freud indipendentemente dalle reazioni che ha provocato nel suo pubblico? O, per metterla in modo lievemente diverso, può la psicoanalisi, in principio, essere separata dalla storia dei commenti che ha suscitato? Questi sono alcuni dei pensieri con cui il lettore di Freud on the Acropolis - a detective story si trova a fare i conti. La principale peculiarità di questo libro è che il suo tema non è ristretto sulla autoanalisi di Freud ma comprende la risonanza che essa ha avuto nella comunità psicoanalitica.

Risto Fried ha incominciato a lavorare su questo tema nel 1979. All’inizio era stato attratto dall’invito implicito di Freud di prendere e portare avanti il ruolo di "analista", come del resto ogni altro commentatore, ma poi ha incominciato ad esaminare i commenti degli altri analisti, a controllare scrupolosamente la loro accuratezza, a studiare la mitologia greca e a seguire passo dopo passo la salita del maestro fino al Partenone. Questa scelta è stata premiata con uno straordinario miglioramento della capacità di muoversi nello spazio mentale del testo originale, ma è anche risultata in un compito virtualmente infinito. Nel 1996 Risto ha presentato le sue riflessioni nella lettura magistrale della conferenza dell’IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies) tenuta ad Atene (il lavoro venne poi pubblicato sull’International Forum of Psychoanalysis, vol. 6, n. 1), ma il suo magnus opus richiese altri otto anni per essere portato a termine; il libro è stato infatti pubblicato solo nel 2004, pochi mesi prima della scomparsa dell’autore. A causa della malattia di cui soffriva, l’apparato delle note non è stato completato, ma la qualità di questo lavoro durato un quarto di secolo è così alta che questa lacuna non viene avvertita dal lettore. Rispetto agli standard odierni può apparire troppo lungo (più di 600 pagine), ma chiunque è insoddisfatto dalla tendenza di fare della psicoanalisi una dottrina stereotipata sarà ampiamente compensato dalla sua lettura. Questo libro è in effetti un raro e prezioso contributo sia alla storia della psicoanalisi che alla ermeneutica psicoanalitica, due ambiti a torto tenuti separati. In questa recensione — che scrivo come continuando tutte le ascese e discese fatte in compagnia di Risto — cercherò di riassumere alcune delle sue principali linee di pensiero.

Gran parte del volume (circa 400 pagine) consiste in un riesame dei 28 scritti principali sul disturbo dell’Acropoli. Gli autori di questi commenti concordano tutti sulla inadeguatezza della interpretazione fornita da Freud e suggeriscono ipotesi alternative. Jones e Schur, che conoscevano Freud bene e avevano accesso a documenti riservati, "hanno fornito un quadro clinico più ampio che includeva l’irrazionale paura di morire"; Harrison ha parlato di una crisi che ha minacciato il suo "senso di identità", e la maggior parte degli autori concordano nel ritenere che Freud avesse attenuato la gravità della crisi ateniese liquidandola come un "disturbo della memoria". In tutti questi commenti è passato inosservato che la lettera aperta era scritta in uno stile classico, seguendo le regole della retorica stabilite da Cicerone e Quintilliano; così i suoi critici hanno preso i suoi giochi (come l’inserimento del mostro di Loch Ness nella Acropoli classica) per prove di psicopatologia e lo hanno rimproverato per errori e incoerenze che esistevano solo nella loro mente. Quasi tutti i commentatori erano convinti "di aver trovato almeno un lapsus, un falso ricordo o una invenzione deliberata indicativa dei conflitti interiori irrisolti di Freud"; tuttavia, caso dopo caso, l’attenta indagine "rivela che non era Freud ad aver sbagliato, e che chi era disinformato era il suo critico" (p. 380). La prontezza nel criticare Freud per gaffes che non aveva commesso e nel "metterci dentro errori propri" (p. 381), facevano parte, secondo Fried, di un sottostante schema di risposta composto da tre elementi interrelati: a) la delusione per quello che Freud ci ha dato; b) vendetta; c) auto-punizione per il desiderio di superare il padre della psicoanalisi. E poiché il patto silenzioso di non vedere e commentare le cantonate degli altri era un ulteriore elemento comune, è facile pervenire alla conclusione che "la condivisione della fratellanza, vissuta attraverso la colpa per il comune parricidio, cerca di evitare di sfociare in fratricidio" (p. 381). La reazione corale al saggio dell’Acropoli era in definitiva una messa in scena e una reiterazione della trama edipica implicata nel desiderio di eccellere sul padre.

La natura edipica del disturbo dell’Acropoli, messa in dubbio dai critici di Freud, viene riaffermata e messa a fuoco nel capitolo successivo, intitolato "Il detective da tavolino" (circa 200 pagine), in cui la lettera aperta viene collegata alla autoanalisi di Freud in un modo nuovo e vitale. Mi limiterò ad illustrare il modo in cui l’inserimento del mostro di Loch Ness è trattato. Questa associazione, che ha dato origine a tutta una serie di interpretazioni psicoanalitiche stereotipate (in termini di fantasia edipica, di fallo del padre, madre simbiotica, madre terribile e castrante della fase fallica, e così via), è stata sempre vista come molto strana. Pur ammettendo che il lettore è in effetti spinto a domandarsi che cosa ci stia a fare sull’Acropoli "il serpente scozzese a cui non abbiamo mai creduto", Fried mostra non solo la pertinenza del tema (il serpente era il simbolo di Atena, a cui era dedicato il Partendone, e gli ateniesi erano convinti che il tempio fosse la dimora di un serpente gigantesco) ma anche l’esistenza di più sentieri associativi che puntano tutti al tema centrale del credere e del non credere. La domanda su che cosa sia reale non è infatti qualcosa di estraneo alla psicoanalisi: tutt’altro! Essa è insita nella sua stessa essenza, ed è significativo ritrovarla ad un solo anno dalla lettera aperta, in un articolo del 1937 in cui Freud parla dei "tempi in cui si potevano avere dei dubbi sul fatto che i dragoni dei tempi primordiali fossero davvero estinti" - nota bene: dragoni invece di "dinosauri" e estinti invece di "non esistenti". Parlando di dragoni estinti, Freud si stava riferendo ad un tema psicoanalitico centrale: illusioni e superstizioni che sono state superate, o fissazioni libidine precoci che sono state conservate a fianco di modi di amare più maturi e a scelte oggettuali sviluppate più tardi. Supponendo che il mostro di Loch Ness abbia un significato simile, l’indagine si orienta verso l’anello mancante tra i dragoni e la fissazione libidica. E qui troviamo Gisella Fluss, o più propriamente Ichtyosaura (pesce-rettile), come il sedicenne Sigmund Freud aveva chiamato il suo primo amore, negando la paura dell’incontro e degradando l’oggetto d’amore in un brutto rettile: era stato troppo timido per dare espressione ai propri sentimenti per Gisela e così la natura dell’attaccamento era passata dall’amore al suo opposto, come è registrato nella trasformazione dell’oggetto in un mostro attraente.

Il giovane Freud provava attrazione e repulsione libidica per creature di tal fatta? Secondo Risto Fried il pattern della "infatuazione-repulsione" lo si ritrova nel saggio del 1899 Ricordi di copertura — un articolo che anticipa il saggio sull’Acropoli sotto molti aspetti, come se i due lavori fossero entrambi tentativi di venire a patti con lo stesso problema. Nel saggio sui ricordi di copertura Freud stava ancora sognando della felicità di cui avrebbe potuto godere se solo avesse scelto di vivere con Gisela, rammaricandosi di non esser stato con lei coraggioso come da bambino lo era stato con Paulina, quando lui e John l’avevano assalita strappandole di mano un mazzolino di fiori. Che cosa c’era alla radice di questi rimpianti? Secondo la ricostruzione fatta da Risto Fried — che io trovo convincente — Freud si era arrabbiato con il padre ed era stato deluso dal fratellastro Emanuel perché si erano intromessi nella sua vita scegliendogli come moglie Paulina (la figlia di Emanuel), e rimase arrabbiato così a lungo che quando decise di fidanzarsi con Martha non disse niente alla propria famiglia. Ma poi arrivò la disillusione con la moglie e con la sua capacità di compiere delle scelte di vita valide! Subito dopo il matrimonio con Martha avrebbe trovato la loro relazione troppo stretta e avrebbe passato il resto della vita negando l’infelicità del proprio matrimonio, tradendosi tutto sommato solo un numero irrisorio di volte. E però, "doveva esser stato terribilmente infelice se abitualmente fantasticava su come la vita avrebbe potuto essere se solo non avesse chiuso così frettolosamente con Gisela. E doveva essere terribilmente scosso nell’autostima quando, oltre ad ammettere che il padre e il fratellastro avevano ragione, era arrivato a pensare che persino la loro scelta poteva essere migliore della propria" (p. 423).

Nella vita reale un uomo supera la sua paura dei genitali femminili adulti sufficientemente per far da padre ai propri figli e per vivere insieme alla moglie, qualche giorno meglio, qualche giorno peggio, ma in qualche luogo e in qualche tempo di una realtà alternativa le vecchie paure e fissazioni sopravvivono e, a volte, prevalgono. A sedici anni, sul treno di ritorno da Freiberg dopo l’eccitante ma pauroso incontro con Gisela, Freud rimase affascinato da una ragazzina di dodici anni descritta con una testa d’angelo e un viso da ragazzo - con l’infatuazione per una ragazza dalle apparenze maschili egli stava cercando di venire a patti con l’attrazione per l’altro sesso, smussandone i pericoli. Un episodio simile, che si trova narrato ne L’interpretazione dei sogni, avvenne tre anni dopo in Inghilterra, subito dopo l’incontro con Paulina. Il diciannovenne Freud aveva fatto una escursione sul mar d’Irlanda ed era sulla spiaggia, intento a guardare una stella marina, quando "una piccola e graziosa fanciulla si avvicinò chiedendomi Is it a starfish? Is it alive? Risposi: Yes he is alive, ma poi mi vergognai della scorrettezza e ripetei la frase correttamente". Secondo Risto Fried è qui che incontriamo il secondo significato del "serpente a cui non abbiamo mai creduto". La fuga dall’incontro sessuale con una ragazza adeguata alla sua età non assume qui la forma di attrazione per una donna mascolina ma di eccitazione sessuale inappropriata per una bambina e, più precisamente, di una fantasia esibizionistica. L’esibizionista si sente castrato, dubita dell’esistenza del proprio pene. "una donna fallica (Melusina, Gradiva) o un fallo femminile (Ichtyosaura) fornisce qualche rassicurazione, ma solo per analogia. Non è fino a quando egli mostra il suo organo e ottiene da una donna la conferma che egli può credere nella propria mascolinità" (p. 426). L’incredibile mostro di Loch Ness era proprio il fallo di Freud!

Il tema dell’esibizionismo riapparirà nel commento di un sogno che viene comunemente considerato come l’inizio della autoanalisi sistematica. "Così tu vedi," Freud scrive nella lettera a Fliess del 31 maggio 1897, "quanto la sensazione di essere paralizzati venga usata per la realizzazione di un desiderio esibizionistico". Nel sogno stava salendo una scala svestito e spedito, quando notando di essere seguito da una vecchia serva, si era sentito inchiodato sul posto, paralizzato, con un sentimento di eccitamento erotico. Le scale appartenevano alla casa di una vecchia signora a cui Freud somministrava regolarmente iniezioni; poiché non vi erano sputacchiere, egli aveva l’abitudine di gettare il prodotto delle sue espettorazioni sulle scale, provocando i continui rimproveri di una vecchia portinaia. Inoltre il giorno prima la serva lo aveva ripreso perché non si era pulito le scarpe e aveva macchiato di fango il tappeto. Gli sputi (urinare) e il fango (defecare) introducono elementi di degradazione e ostilità nella rappresentazione dell’atto sessuale (il salire le scale per somministrare alla vecchia una "iniezione"). La degradazione viene riflessa anche nella raffigurazione dell’oggetto d’amore come brutto e vecchio: le donne sono rappresentate come severe, brutte, disapprovanti — proprio come la bambinaia dell’infanzia di Freud a Freiburg, la quale lo aveva fatto sentire un’incapace e gli aveva fatto provare intensi sentimenti di vergogna. L’ostilità era implicata sia nel sogno campione della psicoanalisi (la "sporca siringa" del sogno di Irma era stata associata alla paura di aver causato un danno alla vecchia signora) sia nel riconoscimento della universalità della leggenda di Edipo. Come venne narrato nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901), tale riconoscimento era stato accompagnato da una pericolosa sbadataggine compiuta nell’atto di somministrare l’iniezione alla vecchia signora. La sbadataggine era stata interpretata da Freud come espressione della fissazione alla madre come oggetto d’amore e come una "violenza sessuale" simbolica. Ciononostante, egli non osò riconoscere del tutto che i sentimenti verso la propria madre non erano puramente erotici. Risto Fried parla qui di "odio irrisolto per la madre" e segnala la presenza in Freud della paura di una "irruzione dgli impulsi sessuali aggressivi" (p. 486). Freud doveva "prevenire la realizzazione delle sue aspirazioni edipiche … perché questo avrebbe significato l’omicidio sessuale della propria madre". La paralisi nel salire le scale era una anticipazione del disturbo dell’Acropoli, poiché essere salito sull’Acropoli "era troppo simile alla realizzazione del sogno infantile di volare" (p. 487).

L’aver stabilito un nesso tra la salita sull’Acropoli e il sogno di volare è il più importante contributo clinico del lavoro di Fried. Sia la paralisi nel sogno di salire le scale che il disturbo dell’Acropoli erano inibizioni non solo della conquista edipica ma anche del desiderio onirico di volare. Anche se non viene esplicitamente asserito, è piuttosto chiaro che per l’autore il tema di Icaro del salire su in alto fino alla volta celeste e del precipitare giù, fino a infrangersi al suolo, rappresenta un complemento necessario alla psicologia del complesso nucleare, facendo da ponte alla transizione tra Narciso e Edipo. Risto Fried era stato profondamente influenzato dalle ricerche sulla personalità Icariana di Henry A. Murray, con cui egli aveva studiato e collaborato ad Harvard — ricerche che subirono un arresto quando Murray "scoprì l’estensione degli affetti regressivi e distruttivi mischiati con la bellezza degli ideali" (p. 490). Con questo arriviamo punto nodale dell’intero lavoro. Secondo Risto Fried, la grandezza ed lo splendore del volare devono la loro intensità estrema alla bruttezza e depravazione dei sentimenti" da cui chi vola sta fuggendo, e questo anche nel caso di Freud, le cui trepidazioni dinnanzi all’Acropoli diventano ora comprensibile: "Era Freud meritevole di salire ad una tale altezza? Ed era l’Acropoli all’altezza delle sue aspettative?" (p. 491).

L’ultima parte del libro è una affascinante ricostruzione dell’incontro di Freud con il mondo classico dell’Acropoli, al centro del quale vi è la trasformazione dell’orrido in bello. Fin dalla scuola gli era stato insegnato che i greci avevano trasformato un mondo invaso dalla paura in un mondo pieno di bellezza e che lo spirito Greco considerava l’armonia, la bellezza, la ragione e la moderazione come misure dell’universo. Eppure, scegliendo Edipo come paradigma della personalità, "egli si era implicitamente dichiarato come antagonista della idealizzazione semplicistica della cultura greca". Ciononostante, "questa idealizzazione era stata parte della sua educazione e non era facile da abbandonare", così, quando vide il tempio circondato "dai corpi delle vittime di violenza sessuale e di morte violenta, egli rimase diviso tra il credere e il non credere nei suoi ideali più cari, nell’amore, nella bellezza e nella ricerca della verità" (p. 524). Nel saggio sull’Acropoli la rottura dell’armonia è rappresentato dalla improvvisa irruzione del mostro di Loch Ness: una metafora per "le credenze arcaiche (che i pensieri possono uccidere, che i morti possono tornare in vita, che le donne nascono con un pene) che la propria razionalità ha rifiutato ma che non sono state del tutto abbandonate" (p. 552).

Il lettore troverà molto di più in questo libro di 600 pagine che corona una vita dedicata alla comprensione della vita e che ci permette di incontrare il padre della psicoanalisi con un vero sentimento di pietà filiale.

CARLO BONOMI

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