logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

EGIDIO PRIANI

AUSCULTUM

L’ASCOLTO NELLA GRECITA’

L’ascolto nasce innocente. Atto vergineo e inintenzionato, puro; l’etimo della parola "auscultum" ci conduce direttamente all’organo: auscultare significa infatti "orecchiare", "porgere l’orecchio", gesto che non si potrebbe pensare più naturale, fisiologico.

Con "Ous", la lingua greca ci indica parimenti l’orecchio, confermandoci l’assenza di mediazione propria dell’atto dell’ascoltare, la sua costitutiva naturalezza coincidente con la sua fisiologia, disegnando una linearità che va dal pensiero all’organismo lungo un continuum diretto e senza scarti.

L’identificazione tra atto di pensiero e fisiologia non ci deve sorprendere: il mondo greco è segnato radicalmente dalle reciproche rifrazioni tra logos e physis ; tale intreccio lo possiamo riconoscere tanto nella elaborazione sapienziale, mitico — religiosa e pre filosofica, quanto nel suo successivo sviluppo propriamente filosofico e dialettico — argomentativo.

L’intelligenza delle parole ci offre ulteriori, preziose indicazioni: il termine greco oùs viene reso anche come sento, percepisco, percezione; la sua radice accadica hasìsu trova corrispondenze in voci dalla medesima base, come hasasu, hussu, hassutu , nelle quali il sentire, il percepire, la sensibilità, l’intelligenza, lungi dall’essere funzioni distinte, come vengono concepite dalle scienze contemporanee, si coappartengono in una costellazione di pensiero dalla matrice unitaria.

Con achouo, termine che in prima approssimazione indica l’atto dell’ascoltare, incontriamo significati quali comprendo, intendo, porgo l’orecchio, vengo a sapere, odo, do retta, ma anche apprendo, imparo; parimenti, anche il latino ausculto rimanda al prestare l’orecchio, fare attenzione, nonchè, originariamente, ad un tendere l’orecchio in silenzio che esplicita la piega non detta dell’ascolto, ciò senza il quale l’ascolto non potrebbe essere tale, ossia il silenzio.

Se con il vedere e con la visione l’esperienza conoscitiva viene colta nella sua essenza in quanto vedere è conoscere e conoscere è vedere, nell’ascolto greco è l’interezza delle facoltà umane nel loro complesso che vengono dispiegate e messe in gioco; anche ascoltare, per il greco, rimanda dunque al conoscere: con l’ascolto, entra in scena ciò che per il greco è il valore supremo ossia la conoscenza, la sapienza, e per suo tramite viene dischiuso l’accesso alle parole di verità.

Omero ci regala, col "Canto delle sirene" contenuto nel libro XII° dell’Odissea, una indimenticabile trasposizione letteraria di quanto andiamo esprimendo; ne riportiamo alcuni passi:

" A me solo ordinava d’udire quel canto: ma voi con legami strettissimi dovete legarmi, perché io resti fermo, in piedi sulla scarpa dell’albero: a questo le corde m’attacchino. E se vi pregassi, se v’ ordinassi di sciogliermi, voi con nodi più numerosi stringetemi! (160) . . .

"Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire. Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose. . . Noi tutto sappiamo, quello che avviene sulla terra nutrice. (185)"

"Così dicevano alzando la voce bellissima, e allora il mio cuore voleva sentire, e imponevo ai compagni di sciogliermi, coi sopraccigli accennando, ma essi a corpo perduto remavano." (190)

Odisseo ascolta il canto delle sirene con tutto sé stesso: è il suo cuore che vuole sentire, la sua volontà che s’impone ai suoi uomini, la sua astuzia ad escogitare l’espediente, i suoi sensi a catturare il piacere, il suo desiderio di conoscenza a spingerlo oltre gli scogli, la sua fisicità a governare l’azione, in una trama narrativa dove si intrecciano l’arte letteraria e la rappresentazione antropologica.

In questi passi Omerici viene anche alla luce uno dei tratti peculiari dell’ascolto: la sua congenita attitudine alla prossimità, alla vicinanza, il carattere materico e talora anche invasivo che si esprime nell’ascolto; tutti elementi, questi, che per la loro inerenza alla corporeità e ai sensi, saranno trattati con problematica diffidenza da Platone.

L’ascolto non viene tuttavia mai messo a tema come tale, in quanto è atto impregiudicato il cui compiersi inerisce tout — court loffrirsi stesso della verità, è integrato pienamente in essa e nel suo disvelarsi, così come in ogni elemento sapienziale che viene attinto dall’uomo greco; è il riflesso fisiologico coessenziale al percorso di conoscenza.

Ci troviamo all’interno di una sfera semantica che, rinviandoci all’antica sapienza orale, vede attribuito al dio Apollo il dominio sulla sapienza, laddove ". . . sapiente non è il ricco di esperienza, chi eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti. . . Sapiente è colui che getta luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, che precisa l’incerto".

Attraverso l’oracolo si rende manifesta la parola del dio, parola di conoscenza del futuro comunicata all’uomo dal dio mediante un’oralità che assume i caratteri dell’oscurità, dell’ambiguità, dell’allusione: Apollo è il titolare di questa parola divina che parla per bocca della sacerdotessa di Delfi; ma questa parola, questa conoscenza, presuppongono quello sfondo pre — conoscitivo, misterico e religioso, rappresentato dall’iniziazione ai misteri di Eleusi, che culmina nella mistica visione panoramica dell’ "epopteia", visione di beatitudine e di purificazione.

L’oralità contrassegna l’origine della nostra civiltà e della nostra storia: dal XII al IX secolo la civiltà greca si fondò sulle tradizioni orali e affinché questo potesse accadere, si rese necessaria l’elaborazione di una serie di "mnemotecniche"; queste non vanno però intese con lo sguardo della modernità, come "funzioni psicologiche": la memoria è qui onniscienza di carattere divinatorio: "Come il sapere mantico, essa si definisce attraverso la formula "ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu". Con la sua memoria, il poeta accede direttamente, in una visione personale, agli avvenimenti che evoca; ha il privilegio di entrare in contatto con l’altro mondo. La sua memoria gli permette di decifrare l’invisibile." La memoria è dunque in primo luogo "potenza religiosa che conferisce al verbo poetico il suo statuto di parola magico religiosa. . .", dove la parola di veggenza diviene parola efficace, parola istitutiva di un mondo simbolico religioso coincidente con lo stesso reale, parola di verità: tra aletheia e mnemosyne intercorre una solidarietà ed una vicinanza tali, da arrivare a confonderle in una medesima rappresentazione.

A verità e memoria, si oppongono le figure di oblio e silenzio; solo nella parola del cantore è data la possibilità di sfuggire al silenzio e alla morte: " nella voce dell’uomo privilegiato, nella vibrazione che fa salire la lode, nella parola vivente che è potenza di vita. . . si svela l’Essere della parola efficace."

La parola oracolare, la parola del veggente, annunciano una verità non concettuale bensì simbolica, magico — religiosa, ma non per questo meno effettuale sul piano della realtà: il verbo krainein sta ad indicarci l’efficacia, il potere di compimento di tale parola; " La parola è concepita veramente come una realtà naturale, una parte della physis. Il logos dell’uomo può crescere, ma allo stesso modo può anche decrescere, deperire. . . la parola è sempre sottomessa alle leggi della physis, alla fecondità e alla sterilità degli esseri viventi."

Tale visione dinamica, potente della parola, costituisce una delle cifre peculiari delle civiltà a tradizione orale (tra le quali, come avremo modo di vedere, anche l’ebraismo): al suono è infatti collegato un potere magico che è del tutto incomprensibile per quanti siano immersi in una cultura fondata sulla scrittura; per questi ultimi infatti, le parole non sono suono, evento, carico di potere sul reale, bensì cose, oggetti, etichette.

La parola sapienziale è dunque azione realizzata nel tempo della vita, nel presente assoluto, un tempo che congloba le dimensioni del presente, del passato, del futuro, un tempo che trascende queste partizioni per irradiarsi nell’ordine cosmico. La parola è il tramite per mezzo del quale, attraversando l’esaltazione e la follia, la sfera divina entra in comunicazione con la sfera umana e si manifesta in una condizione sensibile ossia nell’udibilità.

E’ sull’oggetto ineffabile di tale parola, evocata da Pindaro nel verso: " Beato colui che avendo visto quello entra sotto la terra: conosce la fine della vita e conosce il principio dato da Zeus", che è necessario interrogarsi.

Occorre tuttavia preliminarmente esplicitare un punto nodale: la follia (manìa) è da assumere come elemento e tratto costitutivo della sapienza greca; di più, " La follia è la matrice della sapienza. . . lo sfondo del fenomeno della divinazione."

Ne deriva che la follia non potrà non essere costitutiva, consustanziale, alla vita e alla visione del mondo greche, ovvero sarà in queste pienamente integrata; per cogliere appieno la portata teoretica di questo punto, e al contempo lumeggiare l’interrogativo che ci siamo posti, è opportuno arretrare alle indicazioni che ci suggeriscono le pratiche della divinazione, l’articolazione Aletheia — Lethe, il rapporto tra Dioniso e Apollo.

Come è noto, gli iniziati ai misteri di Eleusi , prima di introdursi nella bocca dell’oracolo, bevono contemporaneamente alle fonti di Lethe (Oblio) e Mnemosyne (Memoria): attraverso la prima l’iniziato si fa simile ad un morto, mentre per le virtù della seconda, che costituisce un antidoto alla prima, mantiene la facoltà del ricordo di quanto ha visto e sentito e "conseguentemente acquista il privilegio di vedere e di sentire in un mondo dove il mortale comune non vede più, non sente più." Il consultante beve quindi ad ambedue le fonti ed è solo in virtù di tale procedura che potrà entrare in contatto con le potenze dell’aldilà: non è raggiungibile una Verità disarticolata da Oblio, una Verità che non riconosca in Lethe la sua inseparabile ombra.

Analoghe suggestioni ci vengono dagli studi sul binomio Dioniso — Apollo; tali ricerche, prendendo significativamente le distanze dalle conclusioni cui era pervenuto Nietsche, disegnano distanza e affinità tra le due figure, differenza e identità, opposizione e sovrapposizione: Apollo e Dioniso interpretano la storia di due polarità che appaiono perennemente compresenti sugli scenari mitologici, con tratti di irriducibile doppiezza, di contraddizione simultanea, di riverberante specularità.

In realtà, è la totalità del pensiero mitico greco ad essere attraversato dell’ambiguità, dall’ambivalenza, dalla duplicità, da opposizioni polari che si configurano come unione di contrari complementari, dove le opposizioni contraddittorie non si escludono e dove non domina il principio di identità e non contraddizione; è un pensiero che pensa l’inclusione ( e/e ), non l’espulsione di parti di sé (o/o); è un pensiero del duale come differenza — diversità — distinzione che apre alla conoscenza, ma è al contempo pensiero della duplicità che attraversa uomini e dei, dell’alterità come intima, profonda, autentica modulazione dell’identità.

E’, in una parola, un pensiero dell’altro; le vicende di Dioniso e Apollo incarnano paradigmaticamente e con una potenza simbolica inaudita, il delinearsi delle origini della nostra cultura e della nostra civiltà, con i caratteri del doppio, dell’alterità.

Potrà essere, questa, una risposta al quesito ispirato da Pindaro? Il viaggio iniziatico come accesso a quella dimensione di sacralità cosmica da cui l’uomo è abitato a propria insaputa e che gli consente di entrare in dialogo col divino.

L’ascolto è per il greco compartecipazione cosmica, appartenenza ad una totalità universale di uomini e dei, evento di condivisione destinale e necessario della verità; è immemore e convergente adesione ad un universo simbolico di interalità e pienezza, ove, con Eraclito, "tutto è uno".

Ad analoghe considerazioni sembrano pervenire anche le suggestive e affascinanti ricerche di J. Jaynes sulla mente bicamerale; tali ricerche confermano il ruolo centrale della follia nell’universo conoscitivo greco arcaico, a condizione che con il termine follia si indichi qui un processo ancora non assoggettato alle successive sovrastrutture scientifico razionalistiche: si tratta piuttosto di quella che Jaynes considera la fisiologica modalità conoscitiva e decisoria che l’umanità ha adottato sino al definitivo avvento della razionalità filosofica.

Il paradigma della mente bicamerale colloca le voci degli dei (le "allucinazioni") provenienti dall’emisfero destro del cervello, al centro dell’esperienza esistenziale di intere generazioni e di svariate civiltà a cultura orale: l’esperienza allucinatoria scaturiva con l’imporsi della necessità di assumere decisioni intorno a determinati aspetti della vita a forte carica emozionale; tali decisioni obbedivano all’ordine allucinatorio impartito dagli dei, la cui presenza nella mente si faceva tanto più potente, quanto più intenso si rivelava lo stress connesso alla necessità di orientare le scelte, di oltrepassare la sospensione del non sapere e dell’incertezza.

Impartendo le sue disposizioni, la voce divina metteva fine allo stato di tensione: " Udire è in realtà una sorta di obbedienza. Anzi, entrambe le parole derivano dalla stessa radice e in origine erano probabilmente una stessa parola. Ciò vale in greco, latino, ebraico, italiano, inglese, francese, tedesco, russo: la parola latina obbedire è un composto di ob + audire, udire stando di fronte a qualcuno."

La volontà dell’uomo bicamerale veniva dunque a manifestarsi come obbedienza ad un comando neurologico, riconosciuto però come voce divina onnipotente ed onnisciente e deputata a presiedere i pensieri tanto dei sovrani, dei sacerdoti, dei guerrieri, dei maestri di verità, quanto dei comuni mortali; siamo, come si vede, ancora ben lontani dalla volontà come espressione della coscienza.

Condurre la voce degli dei, con un salto di alcuni millenni, sotto l’egida del comando neurologico, significa riconoscere ai fenomeni allucinatori dell’uomo bicamerale un correlato fisiologico ed organico individuato da Jaynes nell’emisfero destro e segnatamente nell’area di Wernicke.

L’organizzazione delle competenze tra i due emisferi cerebrali nell’uomo bicamerale era infatti sensibilmente diversa dall’attuale e solo con le pressioni selettive dell’evoluzione, con le vicende filogenetiche ed ontogenetiche della nostra specie, si è giunti all’attuale dominanza dell’emisfero sinistro e ad un relativo depauperamento dell’emisfero destro; questi percorsi hanno visto assegnare alla tecnica (Tèchne) messa in campo dal genere umano, un ruolo decisivo: basti pensare alla scrittura e alla stampa e al retroagire delle loro funzioni sui processi mentali, sull’organizzazione stessa del pensiero.

E’ dunque sulla base dell’apprendimento e della cultura che si sono andate modificando le condizioni morfologiche e funzionali del nostro cervello.

Nel paradigma della mente bicamerale, incontriamo una figura del doppio saldamente ancorata all’apparato neurofisiologico e riccamente documentata da lunghe indagini e prove di laboratorio; queste ultime, effettuate sulla base di stimolazioni all’encefalo, procurano infatti esperienze all’insegna dell’alterità, ossia tali esperienze vengono subite passivamente e vengono percepite come in opposizione al sé, anziché come atti o parole proprie: "Gli studi . . . dimostrano senza ombra di dubbio che i due emisferi sono in grado di funzionare come se fossero due persone indipendenti, persone che nel periodo bicamerale erano, a mio avviso, l’individuo e il suo dio." Due persone dunque in un’unica testa, una delle quali "ascolta" l’altra.

I tratti che andiamo descrivendo segnano dunque la fase aurorale della nostra civiltà; essi possono essere rinvenuti anche aggirando a ritroso il mondo greco arcaico fino a risalire al XII — XIII secolo a. C., laddove prende forma la prima grande narrazione epica conosciuta a memoria d’uomo, ossia la"Saga di Gilgamesh": muovendo dai più antichi racconti sumerici e transitando attraverso l’epopea paleobabilonese, mediobabilonese ed ittita, la saga giunge a compimento nell’epopea classica del XII sec. a. C.

La ricchezza simbolica pressoché inesauribile e l’universalità dei contenuti antropologici ed esistenziali, fanno di quest’opera un caposaldo della storia culturale e un patrimonio dell’intera umanità; l’intento, in questa sede, è però quello di rinvenire le linee di continuità e i luoghi di condivisione tra l’opera stessa e la posteriore visione del mondo della grecità arcaica che abbiamo profilato.

Fin dalle prime battute, la saga ci regala delle immagini di intensa forza emotiva e di solido spessore narrativo: ci vengono descritti i due grandi protagonisti della saga, le due figure umane attorno alle quali ruoteranno tutti i successivi eventi, ossia Gilgamesh ed Enkidu; le loro rispettive descrizioni sono antitetiche: Gilgamesh incarna il simbolo supremo della civiltà, la più elevata espressione dell’ideale umano, sovrano inesausto, temuto, volitivo ed inappagato.

Ascoltando il pianto delle figlie dei guerrieri, delle mogli dei nobili, la dea Aruru è spinta a ". . . crea(re) ora la sua controparte (79). Per contrastare l’ardore delle sue energie, fa che essi combattano tra di loro, cosicché ad Uruk torni la pace (80)"

Il primordiale Enkidu è invece a tutti gli effetti l’alter ego di Gilgamesh: " Tutto il suo corpo era coperto di peli (88), . . . Egli non conosceva né la gente né il Paese (91); . . . Con le gazzelle egli bruca l’erba, con i bovini sazia la sua sete nelle pozze d’acqua. Con le bestie selvagge, presso le pozze d’acqua, egli si soddisfa (95)."

Gilgamesh ed Enkidu rappresentano le opposte polarità che attraversano l’animo umano, genialmente intuite dall’autore della saga attraverso una sorta di visionario presagio paleopsicoanalitico; venuti originariamente al mondo per confliggere e per avere il sopravvento l’uno sull’altro attraverso la potenza e la forza, essi finiranno in realtà per saldare un’inseparabile amicizia, le cui vicende innervano tutta la prima parte del poema.

Gilgamesh ed Enkidu guadagneranno però il loro sodalizio solo grazie alla intermediazione del femminile: è una donna, la prostituta, che, concedendo i suoi favori sessuali ad Enkidu, lo spoglia della sua ferina brutalità e lo inizia alla civiltà e alla conoscenza: " (180) Enkidu infatti era diverso, una volta che il suo corpo era stato purificato: le sue gambe, che prima tenevano il passo delle bestie, erano diventate rigide; . . . non poteva più correre come prima; egli però aveva ottenuto l’intelligenza; il suo sapere era divenuto vasto. . .(189) Tu sei diventato buono o Enkidu, sei diventato simile a un dio. . . (195) Egli, infatti, sarebbe andato alla ricerca di un amico, di uno che lo potesse capire."

E’ ugualmente una donna, la madre di Gilgamesh, che, interpretandone i sogni premonitori, lo rassicura e lo dispone al prossimo incontro col futuro amico: " . . . un compagno forte verrà da te, . . .(250) e lo terrai sempre stretto a te; ed egli avrà sempre cura della tua salute. . . (265) Un compagno forte verrà da te, uno che può salvare la vita di un amico. . ."

Non possiamo non cogliere, in queste decisive presenze femminili, una stretta analogia con l’iniziazione di Socrate ad opera di Diotima, l’amica di terre lontane, la quale, nel Convito, lo accompagna verso la conoscenza del daimon erotico, del demone mediatore tra il mortale e l’immortale, tra l’umano e il divino, a dimostrazione che l’emancipazione umana, il percorso verso la conoscenza e la civiltà, si rendono possibili solo attraverso l’intervento e l’azione del femminile: un femminile che si fa generazione del mondo, messa al mondo del mondo.

Parimenti, è la volontà di dominio e di controllo sul femminile, comune ad entrambi i contendenti ed esercitata tramite lo jus primae noctis, a scatenare le ire dei due protagonisti; il loro primo incontro inscena infatti un aspro e teso affrontamento, un vero e proprio corpo a corpo: "(90/II) Enkidu bloccava con il suo piede l’accesso alla porta della casa del padre della sposa; egli non permetteva a Gilgamesh di entrare: essi allora si affrontarono. . . si rotolarono nella strada, il Paese tutto fu scosso."

Il testo, pur lacunoso, assume in questa parte una potentissima rilevanza simbolica: descrive la lotta tra i due eroi, che si conclude con la vittoria di Enkidu, il quale però riconosce la superiorità di Gilgamesh e da questo riconoscimento nasce la loro amicizia e la loro solidarietà che si spezzerà solo con la morte di Enkidu.

Questa paradossale immagine della vittoria, coincidente col riconoscimento della superiorità dell’avversario, potrebbe essere concepita e altrimenti rappresentata da Eraclito e dalle sue parole: "L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia [e tutto accade secondo contesa.]" (Eraclito, Fr. 8); con il riconoscimento dell’altro, l’unità degli opposti, il potere generativo di polemos, l’inclusione del doppio nel medesimo, incontriamo quelle configurazioni di pensiero, quella visione del cosmo, degli dei, degli uomini elaborate nella grecia pre — classica e che vedono qui una loro prima e originaria manifestazione.

Nella successione narrativa, le azioni dei due sono condotte all’unisono, appaiono mosse da una stessa volizione ed ispirate da un’intesa soprannaturale; è peraltro bellissima l’immagine ricorrente dei due che si tengono per mano, quasi a voler indicare con la fisicità il loro essere, al contempo, due e uno: "(170) . . . essi si lavarono le mani, e tenendosi per mano,vennero cavalcando per la strada di Uruk."

La natura dell’esperienza conoscitiva magico religiosa rimase pressochè inalterata sino attorno al IV secolo; va tuttavia lentamente affacciandosi e a contrapporsi alla parola magico religiosa, un altro tipo di parola: la parola dialogo.

I due tipi di parola sono destinati a confliggere; mentre "il primo è efficace, atemporale; è inseparabile da condotte e da valori simbolici; è il privilegio di una specie eccezionale di uomo. Al contrario, la parola-dialogo è laicizzata, complementare all’azione, inserita nel tempo, provvista di una propria autonomia ed elargita alle dimensioni di un gruppo sociale."

E’ con il profilarsi ed il prevalere della parola dialettica che assistiamo alla prima, grande frattura storico epistemologica dell’ascolto ed al primo, grande scarto di razionalità, alla progressiva presa di distanza dal mondo sapienziale; siamo di fronte ad un percorso di disgiunzione della conoscenza dal mondo divino, conoscenza che andrà via via costituendosi quale prerogativa del mondo umano attraverso il sistema della ragione, del logos.

La parola dialettica è una parola laicizzata, inscritta nel tempo umano, che segna "il più decisivo mutamento intellettuale che il pensiero greco abbia conosciuto: la costruzione di un pensiero razionale che segna una rottura clamorosa con l’antico pensiero religioso, di carattere globale, dove una medesima forma d’espressione copre tipi diversi di esperienza."

I movimenti embrionali di tale rottura sono riscontrabili fin dal VII e VI sec., in particolare nelle pratiche istituzionali di tipo giuridico e politico; Platone ci offre ripetute testimonianze della genesi e dello sviluppo di questi eventi, peraltro egregiamente documentati e tematizzati da vaste ricerche a cui rimandiamo.

E’ comunque con l’affacciarsi (720 — 700 a. C.) e con l’interiorizzarsi della scrittura nel mondo greco che assistiamo ad una svolta epocale che non ha precedenti nella storia del pensiero: la parola scritta si pone infatti come condizione di possibilità per esonerare il pensiero dall’immagazzinamento mnemonico, liberando così la mente alla possibilità di formulare pensieri astratti di impronta logico razionale; lungi dall’essere mero strumento tecnico, dispositivo d’uso, la scrittura alfabetica modifica i processi mentali, ristruttura le modalità della conoscenza, ridefinisce le forme con cui il pensiero organizza la realtà.

Per la prima volta nella storia della civiltà, si consuma sullo scenario greco lo scontro tra l’antica oralità ed una cultura alfabetica scritta ormai mentalizzata ed interiorizzata; il logos dialettico scaturisce da questo scontro, connettendosi alla ragione e declinandosi nei diversi ambiti della vita pubblica greca: è la ratifica del gruppo sociale a conferire autorità ed efficacia alla parola, è la potenza agonistica dell’argomentazione dialettica che la legittima ed è l’autonomo dispiegarsi della ragione a produrre i più rilevanti effetti sociali; solo un pensiero condizionato dalla scrittura "riesce a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descrizioni inclusive o auto analisi articolate. . ."

Tutto ciò segna la fine della parola magico religiosa e della rete di rimandi simbolici che le è propria, tanto che Gorgia dichiarerà l’atto di morte dell’età dei sapienti, di coloro che avevano messo in comunicazione gli uomini con gli dei.

Nel Gorgia, il protagonista che presta il suo nome al titolo del dialogo, apostrofa Socrate: " Dico, o Socrate, che la retorica produce quel tipo di persuasione che si esplica nei tribunali e nelle assemblee, . . . e che riguarda il giusto e l’ingiusto." ( Gorgia 454 B) Il filosofo replica seccamente: " La retorica. . . è produttrice di quel tipo di persuasione che fa credere e non di quel tipo di persuasione atta ad insegnare intorno al giusto e all’ingiusto. . . il retore dunque, non è atto ad insegnare nulla nei tribunali o nelle altre assemblee circa il giusto e l’ingiusto, ma produce solamente credenza." ( 455 A)

La parola si autonomizza, accede ad uno spazio suo proprio, un agòne dialogico, dove i discorsi si affrontano configgendo; dal canto suo, la poesia, con Simonide, inizierà ad essere concepita come un mestiere e la parola poetica sarà parola del poeta, non parola ispirata.

" E così, se dovesse competere con qualsiasi altro artefice, il retore persuaderebbe a scegliere sé piuttosto che qualsiasi altro, perché non c’è nessuna cosa di cui il retore, di fronte alla folla, non sappia parlare in maniera più persuasiva di qualsiasi altro artefice. Tanta e tale è la potenza di quest'arte! . . . bisogna fare uso della retorica come di tutti gli altri strumenti di contesa." (456 C)

Tutte le grandi categorie sapienziali sono investite da un irreversibile processo di secolarizzazione; dal logos sapienziale al logos dialettico, dalla dialettica alla retorica ed alla sofistica, dal primato dell’oralità all’imporsi della scrittura: queste successive metamorfosi del pensiero greco rappresentano altrettanti momenti di progressiva erosione di quella dimensione cosmologica e simbolica dell’ascolto delle origini: è il rapporto con la totalità, con il rinviante rimbalzo dei simboli che vanno richiamandosi reciprocamente, ad essere definitivamente intaccato.

L’ascolto perde qui la sua innocenza e si fa finalistico e antropomorfico, a misura umana e del tempo umano, strumentale; la memoria diventa così mera tecnica, esercizio che poggia su testi scritti affinché questi vengano riprodotti oralmente, mentre la doxa si sostituisce ad aletheia nell’ambito della decisione politica: non a caso sofistica e retorica si affermano a partire dall’azione politica, interpretata ora come antitetica al piano filosofico, sfera della contingenza e della instabilità. Le scelte umane non trovano ispirazione e rispecchiamento nell’ordine cosmico, ma sono cangianti e mutabili in quanto dettate dalle specifiche situazioni, dalle impermanenti vicende umane.

Il logos dialettico, nelle mani della retorica e della sofistica, viene a sua volta ulteriormente volgarizzato e ridotto a mero strumento, oggetto di oculate tecniche di influenzamento e persuasione, terreno in cui la parola " è delimitata dalla tensione dei due discorsi possibili su ogni cosa, dalla contraddizione delle due tesi a proposito di ogni problema. . . piano di pensiero retto dal principio di contraddizione; il sofista appare come il teorico che logicizza l’ambiguo. . . " Come osserva M. Detienne, confortando le nostre valutazioni, sono le strutture mentali a venire radicalmente sovvertite, "entriamo in una altro sistema di pensiero" a cui aletheia è estranea, in cui "l’ambiguo non è più l’unione dei contrari complementari, bensì la sintesi dei contrari contraddittori."

E’ qui che possiamo rinvenire "in nuce" il primo nucleo del principio di identità e non contraddizione, principio rigidamente dualistico, dicotomico ed oppositivo, che impone scelte tra loro alternative; possiamo riconoscere in questa fase l’atto di nascita di un principio di razionalità che presiede l’ascolto, una forma aurorale di analitica dell’ascolto governata dalla identificazione e dalla razionale partizione delle forme e dei contenuti messi in questione nell’ascolto: un pensiero che lavora per disgiunzioni non potrà che presiedere un ascolto parimenti disgiuntivo.

Inizia da qui a disegnarsi quella strategia dell’anima che sarà inaugurata e portata a compimento da Platone e che segnerà indelebilmente tutto il successivo tracciato della nostra storia culturale.

Se la parola viene dunque brandita come uno strumento di potere e persuasione, la scrittura assume anche una funzione operativa per governare al meglio tale strumento: l’oratore, tramite il testo scritto, impara a memoria i suoi discorsi per poterli drammatizzare ed inoculare al pubblico sollecitandone così l’emozionalità; l’ascolto si fa qui deliquio dei sensi, ottundente fascinazione, riuscito esercizio di seduzione, da cui nemmeno Platone sembra essere immune.

L’ascolto della lunghissima narrazione mitica ad opera di Protagora, nell’omonimo dialogo a lui dedicato, trova infatti Socrate colpito da uno straniante stordimento; allorché Protagora cessa di parlare ". . . per molto tempo io, incantato, continuai a guardarlo, sperando che dicesse ancora qualcosa, tanto ero preso dal desiderio di ascoltarlo. Ma allorché mi accorsi che egli aveva veramente finito, riavutomi a fatica. . . (Prima) io ritenevo che non fosse opera umana quella per cui gli uomini diventano buoni; ora invece ne sono stato convinto." (Protagora, 328 D — E)

L’irretimento nel piacere che emana dal profluvio oratorio di Protagora, appare irresistibile anche per uno spirito vigile come quello di Socrate, che sembra addirittura cedere alle argomentazioni addotte dall’interlocutore: " Io sulle prime, come colpito da un abile pugilatore, vidi tutto abbuiarsi e provai un senso di vertigine udendo queste sue parole. . . " ( 339 E).

Socrate, abbandonatosi a Peitho per alcuni istanti, non tarderà tuttavia a riaversi ed a mettere successivamente alle corde l’avversario, nell’avvincente dipanarsi del dialogo.

La cifra agonistica, ma anche di compiaciuta autocelebrazione propria della sofistica, emerge nelle stesso dialogo dalle parole del suo protagonista: " O Socrate, io ho già sostenuto gare di discorsi con molte persone e se avessi fatto ciò che tu chiedi, cioè se avessi discusso nella maniera in cui l’avversario mi chiedeva di discutere, non sarei risultato migliore di nessuno, ed il nome di Protagora non sarebbe corso sulla bocca dei Greci." ( 335 A)

Sciolta ogni connessione con la ricerca del vero e del bello, la parola si fa qui tautologica e quasi fine a sé stessa, tanto da indurre Platone a riservare alla sofistica ed ai suoi rappresentanti delle sferzanti definizioni: "Caccia di uomini mediante persuasione [ in vista di una ricompensa] (Sofista, 223 B). . . importazione ed esportazione di beni relativi all’anima (224 D). . . rivendita al minuto di nozioni ( 224 E). . . possessori di scienza apparente (233 C). . . incantatori, imitatori di cose reali" (235 A).

La condanna senza appello nei riguardi di sofisti e retori ad opera di Platone, si accompagna però alla parallela e definitiva presa di distanza del filosofo verso l’antica tradizione sapienziale, nei cui riguardi egli scava uno jato non più colmabile: " Quando uno di loro parla e dice "è", oppure "è divenuto" o "diviene" molti oppure uno o due, e "caldo che si mescola con freddo", supponendo da una parte disgiunzioni e dall’altra congiunzioni, tu, Teeteto, capisci ogni volta, per gli dei!, qualcuna delle cose che dicono? Io, infatti, quando ero più giovane, pensavo di capire esattamente, quando qualcuno nominava ciò che ora ci crea difficoltà, il non - ente. Adesso, invece, tu vedi a che punto di difficoltà ci troviamo a proposito di ciò." ( Sofista 243 b)

La nascita della scrittura come methodos mnemonico e la sua successiva autonomizzazione ed affermazione quale tramite espressivo, letterario e filosofico, introducono un ennesimo stravolgimento dei tratti costitutivi del logos: con l’avvento della parola scritta viene meno la centralità dell’interiorità ed il primato di quelle tonalità dell’animo umano inestricabilmente legate ai processi conoscitivi, alle vicende terrene, al loro vivo parteciparvi: svanisce quel fremito che attraversa ogni essere umano nell’istante tellurico in cui una stilla di conoscenza, deponendosi in esso, libera la sua potenza germinativa; istante s — terminato, poiché tale modalità del conoscere non viene polarizzata da un termine, quale esso sia: psychè, sòma, noùs, biòs; ognuno di essi si abbandona piuttosto ad una trasfigurazione che protende la totalità umana verso stadi in cui la conoscenza si fa compiuto esercizio di umanità.

Tutto ciò, con l’avvento della parola scritta, può non essere più avvertito; laddove l’oralità implicava "identificazione stretta, empatica, con il conosciuto. . .La scrittura separa chi conosce da ciò che viene conosciuto, stabilendo così le condizioni per l’oggettività, il distacco personale."

"Nessun uomo di senno oserà affidare i suoi pensieri filosofici ai discorsi e per di più a discorsi immobili, come è il caso di quelli scritti con lettere."

L’ammonimento di Platone contenuto nella " Settima lettera", ribadisce che i processi conoscitivi si trovano inscritti nelle vicende interiori, vissute e partecipate dagli esseri umani in una dimensione di comunione e di condivisione, la cui riproduzione è inattingibile alla parola scritta.

Una significativa testimonianza degli epocali rivolgimenti che andiamo descrivendo, ci è offerta da Plutarco nel suo " De defectu oraculorum", opera redatta sul finire del I° sec. d. c.; viene qui rappresentato limpidamente l’angoscioso sentimento di fine del mondo, di destabilizzante smarrimento legato alla perdita, al venir meno di quell’orizzonte di riferimenti religioso - sapienziali attraverso i quali il mondo era reso decifrabile e abitabile. Le argomentazioni avanzate dai protagonisti della narrazione, ora di ispirazione naturalistica, ora filosofica, ora razionalistica, sono tutte protese alla disperata ricerca di ragioni intorno a quanto andava accadendo: ecco dunque affollarsi teorie cosmologiche, numerologiche, demografiche, climatologiche . . . che appaiono come altrettanti, estremi tentativi di ricomposizione e ricostituzione di un ordine andato ineluttabilmente perduto; che esprimono l’anelito al ripristino di armonie ed equilibri, forme e riferimenti, ormai estinti.

Un dubbio terribile e radicale pervade dunque il testo: il divino ha abbandonato la terra?

Il responso oracolare è certo importante per il suo contenuto anticipatorio e di pre — veggenza, ma rappresenta soprattutto il segno costantemente riattualizzato che il cammino umano è affiancato dallo sguardo divino e che quest’ultimo è presente nelle vicende umane. E’ il catastrofico sgomento dell’Assenza che sentiamo palpitare nelle pagine di Pluraco: "la virtù profetica è sì di natura divina e demonica, ma non per questo immune da declino, corruzione, invecchiamento, né capace di contrastare all’infinito l’azione del tempo, che ogni cosa affatica, come abbiamo detto, tra la terra e la luna."

L’inquietudine di un’età di mezzo, la deriva tra un mondo che non è più e l’incerto profilarsi di un altro mondo che non è ancora, appaiono come la cifra emotiva che segna tanto le pagine di Plutarco quanto una condizione epocale collettiva.

Chi ha male alla testa, studi la Torah

(Talmud)

"Danny, - disse sommessamente — sei capace di udire il silenzio?" (C. Potok, "Danny l’eletto")

"Oltrepassammo la mia sinagoga, . . . camminando sempre in silenzio e dicendo più cose con quel silenzio che con le parole di una vita intera." (C. Potok, "Danny l’eletto")

L’ASCOLTO NEL MONDO EBRAICO

L’antica sapienza greca e l’ebraismo si incontrano in un medesimo punto: nella parola e nella sua condizione di udibilità, una condizione sensibile dove le sfere del divino e dell’umano possono entrare in comunicazione. Shema Israel, "Ascolta Israele", recita l’atto di fede ebraico; Dio si è rivelato a Mosè nella parola, a sua volta anche Mosè ha parlato al suo popolo e nel Talmud l’espressione ta shema, "vieni, ascolta" è ricorrente.

Se per il mondo greco arcaico, come per la quasi totalità delle culture orali primarie, la parola era concepita e vissuta come evento, analogamente la lingua ebraica designa in modo emblematico col termine dabar sia "parola" che "evento".

Nel pensiero ebraico la conoscenza si attua sia attraverso l’ascolto che attraverso la vista: solo quest’ultima però è prerogativa dei profeti, degli illuminati, ai quali è assegnato il privilegio di vedere; la dimensione dell’ascolto è invece quella di una relazione mediata e indiretta con Dio e si esercita in particolare nella lettura della Torah: attraverso di essa si instaura una relazione d’ascolto con la parola divina, ovvero un rapporto con Dio mediato appunto dalla sua parola, la cui conoscenza rappresenta la condizione di possibilità per arrivare a Dio, l’alimento essenziale per la fede: "Il cuore intelligente e l’orecchio dei savi cercano il sapere" (Proverbi 18, 15); si ripropone qui l’accostamento cuore — orecchio che ci conferma come, anche per l’ebreo, la conoscenza si offre solo allorché l’uomo si dispone ad un ascolto che impegna la totalità del proprio essere, dove è il cuore a simboleggiare fisicamente la sede dell’intelligenza.

Per i profeti tuttavia, le possibilità offerte dall’ascolto vengono oltrepassate dal vedere, facoltà a cui l’uomo tendenzialmente assegna maggior credito rispetto all’ascolto: la visione profetica eccede l’ascolto, il vedere porta con sé un’eccedenza paurosa, terrifica; il volto di Dio non è guardabile, pena la morte: Giobbe stesso potrà "vedere" Dio solo attraverso le sue opere; in ciò che vede, vede Dio: " Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere." ( Giobbe 42, 5 — 6)

Il "Libro di Giobbe" contenuto nell’antico testamento ci rende una tesa, sofferta e drammatica testimonianza della dimensione di reciproco ascolto tra il divino e l’umano, tra Dio e Giobbe ; come sappiamo, il Libro fa parte dei cinque libri biblici denominati sapienziali e che sono collocabili in un antichissimo filone letterario che trova origine fin dall’epoca dei Sumeri.

La letteratura sapienziale mesopotamica si espresse in tutto l’oriente antico tramite composizioni di proverbi, favole, poemi che vedevano al centro la sofferenza umana e le sorti degli individui con, sullo sfondo, la necessità dell’uomo di conformarsi all’ordine cosmico; tale letteratura, di matrice tipicamente orale perché scaturita direttamente da un’organizzazione sociale tribale e per clan, sorse anche con finalità educative e di iniziazione alla socialità, come ammaestramento circa le regole di vita collettiva.

Uno dei capolavori letterari di questa corrente sapienziale, è appunto il "Libro di Giobbe" che, con immagini iperboliche e di magnifica poeticità, ci consegna le vicende di un ormai anziano ed appagato Giobbe; il tema di fondo è noto: Dio consente a Satana di tentare Giobbe per misurarne la fedeltà anche nella cattiva sorte; Giobbe si vedrà colpito prima nei beni e nei figli, quindi nel suo stesso corpo da una malattia ripugnante e dolorosa.

Giobbe precipita in un abisso di dolore, di turbamento e di sofferenza, ma soprattutto di insensatezza legata alla natura, per lui incomprensibile ed arbitraria, di questi eventi; il male e l’ingiustizia del mondo, il mistero di un Dio giusto che affligge e si accanisce su di un uomo giusto, l’inaccessibilità all’uomo dei disegni divini, la fragilità della condizione e del destino umani, costituiscono i grandi temi fondanti del libro.

Lungo quasi tutta la narrazione incombe il peso di un’assenza, che potrebbe tradurre un’ abbandono, ma che potrebbe, al contrario, celare un’invisibile, inavvertita presenza: quella di Dio; "Che ne è di Dio, dov’è ?" sembra essere la domanda che, ora latente ed inespressa, ora gridata con disperata impotenza, attraversa buona parte del racconto, fino appunto al momento finale in cui Dio inaspettatamente si manifesta.

In realtà, lo si coglie appieno alla fine del libro, mai presenza è stata più potente: Dio è infatti presente nell’ ascolto; è anzi il solo ad ascoltare autenticamente, dacchè i saggi giunti a recare consolazione a Giobbe, si rivelano inadeguati a comprendere la tragicità della sua condizione ed esclusivamente intenti a far valere la forza dei propri argomenti.

Tutto il racconto è avvolto e raccolto nell’ascolto di Dio che è anche ascolto in Dio. Un ascolto nel silenzio, un silenzio però che potrebbe essere espresso con le parole del Rabbì di Worka: "Il grido più forte è quello che non è stato emesso". Benché Giobbe insista nel rivolgersi a Dio come ad un altro interlocutore, la tradizione a cui egli pur appartiene vuole che il confronto avvenga in Dio, quale orizzonte ultimo e in trascendibile di ogni possibilità e di ogni evento.

Dio è dunque lì, presente ed in ascolto, sino al momento del suo intervento finale, nonostante lo scoramento di Giobbe: " Se io lo invocassi e mi rispondesse, non crederei che voglia dare ascolto alla mia voce" (Giobbe 9, 16); Giobbe in verità desidera sopra ogni altra cosa che Dio gli parli ed è proprio il lungo silenzio di Dio a risultargli insopportabile perché, per lui, il vero Dio non è il Dio impersonale ed astratto di teologi e filosofi ma il Dio che mi parla: "Ma io all’onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare rimostranze." (Giobbe 13, 3)

Nel silenzio di Dio e del silenzio di Dio, Giobbe potrebbe morire; per questo egli pretende di sapere da Dio di quale colpa si è macchiato, si ribella al silenzio, cerca di romperlo: "Poi interrogami pure e io risponderò oppure parlerò io e tu mi risponderai" (Giobbe 13, 22), finchè, di colpo, compare Dio in pieno occhio del ciclone: " Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti?" (Giobbe 38, 1 — 2 ); il fatto che Dio risponde a Giobbe, chiarisce retrospettivamente la "posizione" tenuta da Dio sino a quel momento e ne conferma l’invisibile presenza.

Dio appare nella tempesta: è la lacerazione del velo del silenzio a generare la tempesta, l’irrompere del discorso divino, come a sancire una sorta di trauma che l’evento della parola porta con sé; il testo biblico presenta qui una particolarità: la traduzione "Dio rispose a Giobbe" deriva dall’originale "et Yob" che significa sia "a Giobbe" che "con Giobbe", mentre è con "el Yob" che verrebbe tradotto "a Giobbe": Dio dunque parla con Giobbe, non necessariamente anche ad altri ed essendo attitudine divina quella di farsi ascoltare nel silenzio, possiamo ipotizzare che la tempesta sia tutta nell’animo di Giobbe e che, parlando Dio solo con Giobbe, si tratti dell’eco della voce divina, ovvero di una voce interiore.

Dio infatti non ha propriamente voce perchè non ha corpo: la voce di Dio è in verità la voce creata da Dio, tanto che il Talmud non parla di "voce" ma di "figlia della voce" (batqol).

La voce interiore accolta da Giobbe come diretta emanazione della voce divina, si accompagna all’ascolto divino del canto cosmico, del coro della creazione, della sinfonia celeste: tutto il creato canta coralmente per onorare Dio, e Dio è in costante ascolto della coralità cosmica; il senso stesso del mondo è quello di essere cantico, di essere cantato, l’intera creazione è canto, ogni essere è melodia, ma il canto più prezioso, agli orecchi di Dio, rimane il canto degli uomini, gli eletti della creazione e centro costante delle sue preoccupazioni.

Giobbe ritornerà finalmente a Dio, compierà atto di penitenza (teshuvà), risponderà alla sua chiamata; Giobbe è guarito dai propri mali: rispondendo alla sua voce, si è riconciliato con il dio che lo abita, che si fa carne nella sua carne; si è riconciliato con la sua vocazione, con il tratto destinale e storico esistenziale che gli appartiene e che segna la propria differenza (kadosh), la propria peculiare individualità, ricongiungendosi così con il divino e ritrovando quella voce smarrita, quel dio che parla con lui.

Se Dio è volontà trascendente e compito esistenziale, l’homo religiosus è desiderio di realizzazione della propria natura profonda, ascolto di dio affinché, come vuole lo chassidismo, ogni individuo lo possa servire nel modo che gli è proprio; nella Cabbalà è detto infatti che esistono tanti volti della divinità, quanti sono gli uomini: ad ognuno egli appare in modo differente ed in tutti questi differenti modi egli può essere servito.

Ebraicamente, il principio religioso della santità si contamina con il compito psicoanalitico dell’individuazione — differenziazione, unificando l’umanità in un unico grande disegno: "Il Signore sceglierà i suoi sacerdoti anche tra gli africani" (Isaia 66, 22), in cui l’uomo collabora con Dio nel continuare l’opera della creazione.

Le voci degli dei greci e la voce del Dio d’Israele segnano il sorgere della nostra civiltà sotto il sigillo del doppio; ma il dubbio, che di doppio condivide l’etimo (dubium, dubus, du-, -bho-), sarà sciolto dalla nascita della coscienza e dal primato del logos. Tale definitiva ed irreversibile affermazione, segnerà la fine della vitale potenza simbolica che accompagnò l’ascolto delle voci, ascolto che, con l’imporsi delle scienze moderne e dei loro dispositivi disciplinari, verrà coartato ed intristito nelle maglie del concetto.

L’introduzione delle categorie analitiche fa si che l’organizzazione della conoscenza si distacchi dall’esperienza vissuta, cosicché il contatto dell’uomo con la propria stessa vita si fa più debole, filtrato e desimbolizzato; i riferimenti umani vengono sottoposti a procedimenti di astrazione che li neutralizzano e li decontestualizzano e la connessione tra le parole e la vita, prima immediata, diviene ora mediata dalla parola scritta quale "sistema secondario di modellizzazione".

I significati delle parole vengono sganciati dalla realtà del presente e dalla loro appartenenza affettiva, gestuale, corporea, espressiva, ambientale…, ovvero dall’esperienza quotidiana.

L’astrazione separa ciò che prima appariva inseparabile: colui che conosce dall’oggetto della propria conoscenza, aprendo così la strada a quel processo di oggettivazione che investe il mondo, nel suo collocarsi di fronte allo sguardo umano, e l’uomo stesso nel suo essere cosciente, nel suo essere interiorità di contro ad un’esteriorità.

L’ascolto perde dunque la sua visionarietà, la sua immaginifica figurazione, il suo totalizzante simbolismo, il suo potere aggregativo e unificante che gli proviene da una parola non ancora analitica e designativa, ma simbolica; sciogliendo il suo legame con il sacro e con l’inconscio, l’ascolto non può recuperare l’intero del mondo dell’altro, la ricchezza e la complessità del suo mondo, perchè quel suo mondo non potrà mai più essere anche il mio mondo, perché le parole non eccedono più sé stesse, non sono più parole vissute, ma de-finiscono e logicizzano il loro senso.

L’uomo della modernità sarà accompagnato da un ascolto contrassegnato da questa cifra, un ascolto pregiudicato e monco, che tenterà tuttavia di recuperare, almeno in parte, la sua perduta innocenza.

COLLABORAZIONI

POL.it Ë organizzata per rubriche e sezioni affidate a Redattori volontari che coordinano le varie parti della Rivista. Anche tu puoi divenare collaboratore fisso o saltuario della testata, scrivi utlizzando il link proposto sottto, dando la tua disponibilit‡ in termini di tempo e di interessi, verrai immediatamente contattato. Come tante realt‡ sulla rete POL.it si basa sul lavoro cooperativo ed Ë sempre alla ricerca di nuovi collaboratori, certi come siamo che solo un allargamento della cerchia dei suoi redattori pu garantire alla Rivista la sua continua crescita in termini di contenuti e qualit‡. ti aspettiamo.....

Scrivi alla Redazione di POL.it

spazio bianco

Priory lodge LTD