" Si scopre un segreto: che la bestialità non risiedeva nellanimale, ma nel suo addomesticamento: il quale, col suo solo rigore, riusciva a costituirla."
Michel Foucault Storia della follia
IL LUOGO DELLASCOLTO: LISTITUZIONE
"La psichiatria, scienza deputata al controllo e alla terapia dei soggetti malati, porta a compimento, sul suo terreno specifico, una rottura con il pensiero senza soggetto della tradizione classica: una rottura che il mondo cristiano aveva già attuato in epoca medievale, consegnando così ai saperi secolari delletà moderna uneredità inesauribile"
Abbiamo lasciato i processi istitutivi della soggettività e delloggettivazione, sulla soglia della modernità; la loro definitiva affermazione sancisce la nascita della psichiatria moderna come apparato dottrinario, non disgiungibile dal sorgere dellistituzione manicomiale quale luogo delezione per la produzione di verità sulla follia; infatti, modificatosi il rapporto delluomo con la verità, si modifica il rapporto della verità con la follia, ormai non più enunciativa e rivelativa.
La storia della psichiatria coincide dapprima con la storia degli istituti di custodia, per divenire, in seguito alle grandi riforme degli anni 70, la storia di un sapere medico esercitato prevalentemente, anche se non in via esclusiva, nellistituzione pubblica.
La produzione di verità sulla follia, la legittimazione epistemologica del suo statuto, lascolto e losservazione che li sostanzia, conservano però una costanza di tratto che collega i primi ospizi per malati di mente, ai più avanzati e coraggiosi esperimenti di psichiatria di comunità contemporanea: non si dà pluralità di luoghi per questa produzione, per questo ascolto, per questa osservazione; si dà invece il luogo, ossia listituzione psichiatrica, quale titolare della delega che la collettività le assegna per ladempimento di tali compiti.
In altri termini, in tanto si dà ascolto, in quanto vi è uno spazio fisico, un luogo ed un tempo listituzione come sua condizione di possibilità e ambito deputato ad ospitare ed accogliere lascolto, sulla base di un preciso mandato sociale; listituzione consiste in questo sincretismo tra dimensione spazio temporale e rappresentazione collettiva del patologico; la psichiatria ha potuto nascere, costituirsi e consolidarsi in virtù di tale incardinamento spazio temporale dellascolto della follia, quale sua dimensione imprescindibile .
Come sostiene Galzigna". . . le pratiche ed i rapporti di potere da cui è scandita (la psichiatria), sono parte costitutiva dei suoi stessi paradigmi. E impossibile, in altri termini, unanalisi concettuale della psichiatria moderna che non sia, al tempo stesso, analisi delle istituzioni e dei differenti piani di vissuto da cui sono attraversate."
Se la dimensione istituzionale satura i paradigmi conoscitivi della psichiatria, il problema teorico e pratico che si pone è: come sciogliere questa intricata coimplicazione tra natura del patologico e istituzione che le dà forma, come scindere ciò che afferisce alla patologia in quanto tale, dalla dimensione istituzionale che la sovradetermina?
La malattia mentale abita, di fatto, una narrazione collettiva diversa dalle altre branche specialistiche della medicina: essa è circondata da un sistema di attese e da un alone simbolico, ovvero - per usare la felice espressione di J. Jaynes - da un "imperativo cognitivo collettivo" altro; esiste, in altri termini, una pressione culturale che sancisce determinati sintomi e specifiche affezioni morbose, come socialmente più accettabili, come più o meno riprovevoli o legittime rispetto ad altre.
Da un punto di vista storico epistemologico ed antropologico, il nucleo problematico della disciplina psichiatrica contemporanea andrebbe riposizionato al centro di questa triangolazione tra cogenza dellimperativo cognitivo collettivo, sistema istituzionale, natura del patologico: si tratta di un complesso, segmentato, intricato, non chiaramente visualizzabile crocevia di istanze che sono spesso estranee a ragioni di ordine sanitario e terapeutico e dove i bisogni autentici delle persone malate si smarriscono.
Tutto ciò porta ad inficiare, a erodere, a smascherare, a de-ideologizzare, sul terreno della prassi, quel principio di razionalità scientifica che legittima ed è alla base del mandato sociale, della delega al trattamento dei disturbi mentali conferita a saperi specialistici appannaggio di una specifica comunità di professionisti e tecnici.
Già in Pinel troviamo la consapevolezza dellinflusso patogeno dellistituzione; se ci si ammala a causa della malattia, ci si può ulteriormente ammalare anche per limperativo cognitivo collettivo che la circonda, per il sistema di attese che la connotano, per la qualità dello sguardo e della rappresentazione che listituzione produce sul paziente; in quanto sempre esposta al rischio dello stravolgimento e della degenerazione, listituzione è costitutivamente problematica e attraversata da chiaroscuri, fondata ed eretta su un terreno sismico, costantemente precario: Giano bifronte, ambivalente e duplice, sospeso in un difficile equilibrio tra un funzione integrante di cura, di accoglimento, di ascolto, di attenzione allinteriorità, di restituzione della persona a sé stessa ed al mondo, ed il rischio permanente di rinforzare ed ideologizzare la malattia, di ipostatizzarla, di co-generare patologia, di assolutizzarla attraverso le sole lenti delle categorie diagnostiche.
Può così accadere che, non riconosciuto nel suo essere persona prima che etichetta diagnostica, colui che è affetto da una patologia mentale avverte più acuta e più cocente la sua, inascoltata, sofferenza; luomo, attraverso listituzione, viene alienato nella malattia, viene confiscato dalla classificazione, per farsi malato, per essere prodotto come malato, artefatto istituzionale, secondo lantica espressione basagliana: listituzione diventa così il plusvalore della malattia, quel sovrappiù arbitrario che la ispessisce e la aggrava.
I nessi di causa ed effetto finiscono per rovesciarsi, allinterno di un nebuloso effetto alone prodotto dallimperativo cognitivo collettivo : una persona si rivolge allistituzione perché, in quanto malata, necessita di cure? Ovvero, dato che frequenta quell istituzione, è malata?
Se la storia esterna allistituzione si esprime sul terreno dell imperativo cognitivo collettivo, delle rappresentazioni sociali culturalmente dominanti, la storia interna allistituzione osserva uno slittamento dallapparato di forze, allassetto istituzionale contemporaneo attraversato da un apparato di autoreferenzialità burocratica, a sua volta induttore di patologia; listituzione verrebbe a caratterizzarsi come tutta centrata su sé stessa e sui suoi bisogni: autoperpetuazione, tutela di privilegi, conservazione dei vantaggi secondari legati allo status, interessi corporativi, conflittualità latenti, rendite di posizione, affetta da una sorta di Freudiano narcisismo istituzionale secondario che la vede totalmente ripiegata su sé stessa e sottratta ad ogni investimento oggettuale esterno, incapace di autentico investimento verso laltro.
Listituzione finisce così per essere piegata agli obiettivi parcellizzati, puntiformi e singolari di chi vi opera e non è più volta al servizio di coloro che dovrebbero realmente fruirne: sul piano formale e burocratico, listituzione continua ad erogare prestazioni di cura e di assistenza sanitaria; sul piano sostanziale e dei contenuti, ma soprattutto sul piano del vissuto dei pazienti, listituzione è alienata in sé stessa, è cronicizzata.
E ancora dunque possibile, oggi, una autentica e radicale forma di ascolto nel contesto istituzionale? Quali sono le sue condizioni di possibilità? Quali dispositivi di critica interna possono essere attivati per salvaguardare listituzione ma soprattutto, attraverso di essa, il lavoro con e per le persone sofferenti ?
La psichiatria moderna è radicata ed incarnata nella simbiosi tra saperi ed istituzione manicomiale, trovando in questa le sue condizioni di esistenza e di esercizio: sarà pertanto il manicomio, fin dal suo sorgere a cavallo tra il XVIII° e il XIX° sec., lo spazio deputato ad accogliere lascolto della sofferenza mentale.
Secondo Foucault, la fase iniziale dellepoca moderna vede un paesaggio sociale in cui ". . . la follia ha un profilo assai famigliare. Le vecchie confraternite dei folli, le loro feste e i loro convegni generano un nuovo ed intenso piacere . . . La società degli inizi del XVII° sec. è stranamente ben disposta, in tutti i sensi, nei confronti della follia."
Altre fonti storiografiche (Shorter, 2000) dipingono invece un panorama che appare ben più fosco; i primi ospizi per malati di mente sorsero sin dal medioevo concentrati prevalentemente nelle aree urbane e con mere funzioni custodialistiche, assistenziali (nelle migliori delle ipotesi) e di ordine pubblico, mentre nelle aree rurali, sia europee che nel nuovo continente, il compito di provvedere a malati di mente, dementi, ritardati, gravava interamente sulle loro famiglie; tale compito veniva talvolta assolto riservando loro, specie ai malati con le manifestazioni comportamentali più gravi, trattamenti di segregazione, isolamento e intolleranza ai limiti del disumano, con incatenamenti, allontanamenti dalla casa di famiglia, "sepolture" di queste persone in fosse chiuse o costringendoli a vivere in promiscuità con animali in ambienti come stalle o porcilaie.
Tali atteggiamenti erano peraltro legati anche al sentimento di vergogna delle famiglie ed alla riprovazione sociale verso questi soggetti, nonchè alla necessità di dover sfamare membri improduttivi del clan famigliare.
In entrambi i contesti, sia manicomiale che famigliare, era comunque sconosciuto qualunque principio che potesse anche lontanamente ispirarsi ad unidea di cura delle affezioni mentali: non vi era traccia di pretesa terapeutica, tantè che in Francia i malati di mente venivano accolti nei ricoveri di mendicità o negli ospizi, ma non negli ospedali; in Germania esistevano invece talune Tollhauser (case dei matti) fondate già nel medioevo e del tutto simili a carceri.
Non esisteva dunque alcuna conoscenza di natura medica intorno alla follia; la nascita della psichiatria come disciplina medico specialistica, si inizierà ad intravedere solo nel corso del XIX° sec., nel solco di altre nascenti specialità mediche e sulla spinta dellottimismo razionalistico di stampo illuminista di fine 700.
Questepoca si caratterizza per il prevalere di una visione biologicamente orientata dei disordini mentali e, con leccezione di Esquirol, la prima generazione di psichiatri era concorde nellindividuare nellorgano cerebrale la causa delle malattie mentali: la psichiatria era sostanzialmente riducibile alla neurologia.
Battie nel 1758 elaborò una teoria secondo cui una presunta patologia dei "solidi" era allorigine del disfunzionamento dei vasi sanguigni cerebrali i quali, a loro volta, provocavano "lostruzione" dei vasi di tutto lorganismo e la conseguente "compressione" dei nervi; negli stessi anni Chiarugi poneva il sistema nervoso a base dellinfermità mentale; anche Rush era spinto a riconoscere nelle affezioni dei vasi sanguigni del cervello, lorigine della follia; per Reil, le malattie mentali scaturivano dalla "irritabilità" della materia cerebrale stessa.
Tale interpretazione in chiave fortemente organicista dei disturbi mentali, era verosimilmente indotta anche dalla gravità delle manifestazioni psicopatologiche, dal debordante ed eclatante corteo di sintomi che le accompagnava, dai deliri ed allucinazioni, dalle condotte bizzarre ed alterate di questi malati, dal loro stato generale: tutto ciò portava "istintivamente" i primi alienisti a postulare delle compromissioni organiche.
Tuttavia, non è in ragione di questi primi tentativi eziologici che il concetto di curabilità della pazzia inizia a farsi strada, bensì attraverso lidea che linternamento, listituzionalizzazione in quanto tale, possiedono in sé una valenza terapeutica o comunque migliorativa delle condizioni del paziente; lottimismo terapeutico inizia ad irradiarsi anche nella ancora embrionale disciplina psichiatrica e troverà traduzione nelle concrete modalità della gestione asilare dei folli, ovvero utilizzando terapeuticamente lesperienza dellinternamento.
Foucault interpreta in una prospettiva di critica radicale questo momento della storia della psichiatria; egli lo legge infatti come ". . . unazione diretta sulla malattia: volta non solo a consentirle di rivelare la sua verità agli occhi del medico, ma anche di produrla."
Il contesto asilare di inizio 800, secondo Foucault, risponde alla necessità che la malattia si esponga per ciò che è, si disveli nella sua verità liberata da tutte le sovrastrutture che nell "ambiente esterno" la deformano, rendendola così mimetica, sfuggente, inaccessibile: lintento ultimo consiste però nell esercitare su di essa unazione di dominio e di potere in quanto essa viene percepita essenzialmente come condotta irregolare, anormale, perturbante dellordine sociale.
" Si trattava dunque di un luogo di osservazione e di dimostrazione, ma anche di purificazione e di prova
(teso a) far apparire e al contempo produrre realmente la malattia."
Il duplice registro della cura e del controllo sociale è inscritto nel codice genetico della psichiatria nascente e non cesserà di attraversarla; con felice immagine, Foucault descrive lospedale psichiatrico del XIX° sec. come ". . . luogo di diagnosi e di classificazione, recinto botanico in cui le specie di malattie sono divise in reparti . . . ma al contempo spazio chiuso in vista di un affrontamento, luogo di una gara, campo istituzionale in cui ad essere in gioco sono vittoria e sottomissione."
Linternamento e listituzionalizzazione, intesi quali presupposto, fattore e strumento di cura, potevano contemplare una organizzazione fondata su stili di vita salutistici e morigerati, allinsegna della moderazione, della misura, del controllo delle passioni , con programmi giornalieri rigorosamente scanditi tra attività di lavoro e attività di intrattenimento collettivo; tutto ciò sulla base del principio, inaugurato da Pinel e perfezionato da Esquirol, secondo cui un programma giornaliero unito ad uno stile di vita ordinato, disciplinato ed equilibrato, rappresentano di per sé dei fattori terapeutici.
Allinterno di questi processi ispirati dal rinnovato clima culturale illuminista, si colloca anche il problematico e controverso rapporto tra medico e paziente; a cavallo tra il 700 e l 800 questo rapporto viene esplicitamente messo a tema e diventa oggetto di riflessione: nei primi alienisti, inizia a prendere consistenza lidea che la relazione con il paziente sia decisiva ai fini della comprensione della malattia e dellindividuazione di possibili strategie di cura.
Queste aurorali ed ancora abbozzate intuizioni, apriranno tuttavia la strada alladozione del rapporto medico paziente quale componente fondamentale delle strategie di cura, dando così vita alle prime forme di terapia morale, ossia di ciò che oggi definiremmo psicoterapia.
Nel suo Traitè del 1801, Pinel esprimeva la necessità di "ridare speranza ai pazienti. . ., conquistare la loro fiducia . . ., penetrare nei loro pensieri più segreti, eliminare le loro ansie e affrontare le evidenti contraddizioni confrontando i loro problemi con quelli degli altri."
Parimenti Haslam, ufficiale sanitario dellospizio di Bedlam, riconosce quanto sia importante "dedicare un po di tempo e di attenzione per scoprire il carattere del paziente e per constatare in che cosa consista la sua infermità mentale e quali sono le sue caratteristiche. . . prestare attenzione a quanto dicono e dare limpressione di credere alle loro verità."
Impegnandosi nella sfida della cura, la nuova scienza medica in fase di gestazione deve guardare in faccia sé stessa: riconoscere un solido punto di ancoraggio su cui fondare ed istituire le sue categorie conoscitive e, a partire da esse, attivare quei dispositivi atti a sintetizzare cattura teorica, cura e normalizzazione.
Ascolto ed osservazione, da un lato, apparato di forze e strumenti di coercizione, dallaltro, configurano, nelle loro reciproche interconnessioni, i punti cardinali e le coordinate su cui viene ad erigersi la nuova disciplina, "entro la ferrea cornice della pratica asilare"; possiamo tuttavia osservare come, con Pinel ed Esquirol, il registro dellascolto e dellosservazione privilegia il dato fenomenologico a dispetto di quello eziologico causale, enfatizza il come delle manifestazioni morbose, i loro aspetti qualitativi e di contenuto: si vuole lasciare campo libero alla sintomatologia per tentare di coglierla al suo stadio originario.
Va da sé che tale atteggiamento clinico non è innocente né fine a sé stesso: è la dialettica tra sintomo e segno che viene posta in gioco, il movimento di traduzione dal personale al categoriale, il procedimento di cattura del soggettivo nelle maglie delloggettivo, la ricerca di "unarmonia impossibile . . . di una sintesi conciliatrice. . .tra linteriorità del folle e la positività di un sapere. . .questo singolare e contraddittorio connubio tra prossimità e distanza dal mondo interiore del folle."
Il destino dei sintomi può dunque oscillare tra due polarità: una, rappresentata dal dialogo, dal rapporto di ascolto con lalienista, dalla sua aspirazione a penetrare linteriorità del malato; l'altra, contrassegnata dalla traduzione categoriale dei sintomi, dalla loro riduzione a meri segni, dal loro incastonamento classificatorio.
Il giovane Esquirol interpreterà tale oscillazione privilegiando e valorizzando la relazione interpersonale con il malato, il dialogo e lascolto di questi con l'intento di produrre, in connubio con "la forza di convinzione", quelle "scosse morali" indispensabili per governare le passioni del malato e dunque per un suo duraturo recupero.
Entrare autenticamente in dialogo con il paziente e osservarlo nel quotidiano,
fa sì, secondo Esquirol, che il medico possa "mettersi in armonia con lidea madre del delirio", di coglierne il nucleo fondante; daltro canto, questa forte tensione interpersonale, questa spiccata attitudine allincontro ed alla relazione con i pazienti da parte di Esquirol, non cessano di coniugarsi e di fondersi con lelemento della forza coercitiva e dissuasiva incarnata dal perimetro asilare, il cosiddetto "apparato di forze".
Ciò nonostante, la centralità che Esquirol assegna ai processi di soggettivazione e allascolto del folle in tutte le sue drammatiche espressioni, gli consente di connettere i contenuti della malattia agli altri scenari esistenziali del malato, a quegli aspetti della vita e della storia dei pazienti che trovano nella malattia la loro manifestazione sofferta e disarticolata; tanto che Esquirol arriverà e designare la follia come malattia morale e sociale e ad aprire così una visione della follia quale affezione di quella soggettività intesa come "peculiare unità psicosomatica. . . superficie discrizione degli avvenimenti e della storia, sia individuale che collettiva."
Esquirol non riuscirà a scardinare il binomio conoscenza dominio da cui è intessuta la storia della psichiatria; pur movendosi allinterno di quelle coordinate, nella sua inclinazione epistemologica si possono riconoscere i nuclei teorici germinali che saranno recuperati dalla fenomenologia del XX° secolo ed addirittura dal movimento antipsichiatrico in talune delle sue istanze psicologiche, di umanizzazione e di rinnovamento storico sociale.
La ricostruzione storico epistemologica di Galzigna intorno allo stato nascente della psichiatria, si discosta in un punto essenziale dalla prospettiva di Foucault; anchegli vede nella Paura, " un personaggio essenziale dellasilo. . . Ora la follia non dovrà più e non potrà più far paura; essa avrà paura, senza soccorso né scampo, interamente abbandonata alla pedagogia del buon senso, della verità e della morale." ; per il filosofo francese, tuttavia, il primato rimane allo sguardo, poiché solamente sotto di esso "la follia è incessantemente chiamata a negare la propria dissimulazione alla superficie di sé stessa. . . la follia esiste unicamente come essere visto . . . La scienza delle malattie mentali, come potrà svilupparsi negli asili, apparterrà sempre e solo allosservazione e alla classificazione. Essa non sarà dialogo.
Foucault stenta a riconoscere le dimensioni del dialogo e dellascolto, lassenza di linguaggio assurge anzi a "struttura fondamentale della vita dellasilo" ; il registro della segregazione, del dominio, del potere coercitivo, sembra non essere oltrepassabile, tanto che lo stesso ". . . allestimento scenico della giustizia, in tutto ciò che ha di terribile e d implacabile, farà dunque parte della cura."
Le mura manicomiali non sono teatro di alcuna attività clinica, diagnostica o terapeutica, non vi si offre spazio per losservazione e lascolto; ovvero, la relazione di ascolto viene sovvertita: il malato ascolterà il medico nella sua autorità non tanto di uomo di scienza, portatore di conoscenze oggettive, bensì di saggio, moralizzatore, Padre e Giudice dotato di integrità morale e grande potere di influenzamento; il manicomio si fa mero luogo di espiazione della colpa implicita nella follia, dove il tempo deve operare come dispositivo di interiorizzazione ed espiazione di tale colpa, sino al raggiungimento di una adeguata normalizzazione.
"Lasilo delletà positivista, come si fa gloria a Pinel di averlo fondato, non è un libero campo di osservazione, di diagnostica e di terapeutica; è uno spazio giudiziario dove si è accusati, giudicati e condannati, e dal quale non ci si libera se non con la versione di questo processo nella profondità psicologica, cioè col rimorso. La follia sarà punita nellasilo, . . . e fino ai nostri giorni è stata imprigionata in un mondo morale."
Dopo "La storia della follia", Foucault rettifica la sua traiettoria di ricerca e in particolare ne "Il potere psichiatrico", intende comprendere e dimostrare attraverso quali reticoli i dispositivi di potere giungono a produrre enunciati, discorsi, asserti con forza veritativa; il potere dello psichiatra non si fonda su di un corpus riconosciuto di conoscenze aventi lo status proprio delle discipline medico scientifiche dellepoca, bensì è "scontro tra due volontà", corpo a corpo, affrontamento, rapporto di forza, necessariamente impari, che attribuirà finalmente al medico psichiatra il potere di dire intorno alla follia.
Nella triangolazione colpa potere sapere si gioca la partita della verità sulla follia: tale verità non è altro, per lo studioso francese, che lepifenomeno dei rapporti di potere che governano sia linterno dello spazio manicomiale, la microfisica del potere disciplinare, sia soprattutto lintero funzionamento del sistema sociale, quella macrofisica della sovranità, di cui la microfisica è articolazione e funzione subordinata; la presa sulla follia si istituisce così nella circolarità ricorsiva e tautologica di un potere che fonda un sapere che a sua volta ri-legittima il potere che lo fonda.
Se per Foucault il sapere è la concreta declinazione delle tecnologie di potere, limporsi di una volontà di potenza su altre volontà di potenza, il prevalere di una certa modalità di produzione della verità, dai suoi testi emergono tuttavia, a nostro avviso, almeno due diversi e significativi momenti di ascolto; il primo coinvolge la confessione quale pratica inerente l interiorizzazione e il riconoscimento della colpa da parte del malato: questa consiste e si risolve nellesplicita dichiarazione dellinternato di riconoscersi non nella sua malattia ed in ciò che essa produce in lui, non nella verità della follia che "parla a proprio nome ", ma in una follia "che accetta di riconoscersi in prima persona in una certa realtà amministrativa e medica , costituita dal potere manicomiale."
La confessione non è altro che il riconoscimento di sé, da parte dellinternato, a partire dalle categorie giuridico morali, prima ancora che mediche, con cui listituzione lo guarda; la sua ossequiosa accettazione dellaltrui sguardo, recepito come proprio; la chiara cognizione di dover dire esattamente ciò che ci si attende sia detto, ovvero corrispondere positivamente allaspettativa dellapparato medico - giuridico in vista della validazione legittimazione di questultimo.
Il secondo contesto di ascolto, meno esteso dal punto di vista storico temporale, ma di grande significato epistemologico, investe lapprontamento di una scena o, per usare le parole dello stesso studioso, "un episodio teatrale, un rituale, una strategia, una battaglia."; ne " Il potere psichiatrico " Foucault prende in esame il caso particolarmente emblematico osservato da Mason Cox , pubblicato nel 1804 in Inghilterra e nel 1806 in Francia, in cui accade che lambiente asilare asseconda e si conforma allideazione delirante del paziente, fino ad inscenare nella viva realtà manicomiale una sorta di dilatazione e di prolungamento di quello stesso delirio.
Data limportanza paradigmatica dellepisodio segnalato da Focault, anche per i suoi dettagli applicativi, vale la pena riportarne per intero la citazione:
"Il signor
, di anni trentasei, dal temperamento malinconico, ma estremamente determinato nello studio, e soggetto ad accessi di tristezza immotivata, passava talvolta intere notti sui suoi libri, e in quei momenti era estremamente sobrio, beveva solo acqua e si privava di ogni cibo di origine animale. Invano i suoi amici gli facevano presente che in quel modo danneggiava la sua salute, mentre la sua governante, richiamandolo con forza perchè seguisse un regime diverso, per la sua insistenza fece nascere in lui la convinzione che costei volesse attentare alla sua vita. Arrivò persino a persuadersi che lei avesse architettato il piano di farlo morire mediante camice avvelenate, allinflusso delle quali egli attribuiva già suoi presunti malesseri. Nulla riuscì a dissuaderlo da questa idea sinistra. Alla fine si prese la decisione di fingere di assecondarlo. Una camicia sospetta venne così sottoposta a una serie di esperimenti chimici svolti in sua presenza con molte formalità, adattando il risultato in modo da confermare la verità dei suoi sospetti. La governante dovette allora subire un interrogatorio che, malgrado le sue proteste di innocenza, riuscì a farla apparire colpevole. Si ottenne poi contro di lei un presunto mandato darresto, che venne fatto eseguire in presenza del malato da presunti ufficiali giudiziari, che fecero finta di condurla in prigione. Dopo di che si tenne un consulto formale, nel corso del quale parecchi medici riuniti insistettero sulla necessità di prescrivere diversi antidoti che, somministrati per alcune settimane consecutive, persuasero alla fine il malato della propria guarigione. Gli vennero allora prescritti un regime e un modo di vita che lo hanno messo al riparo dal rischio di ogni ricaduta."
Nella vicenda riportata da Foucault, non solo il delirio viene attentamente ascoltato, ma il personale medico e di sorveglianza vi entra attivamente e vi partecipa; in tal modo si assiste ad una letterale e concreta messa-in-scena del delirio, allinterno della quale il paziente ed il personale conferiscono al delirio una trama comune sino a condurlo verso una sorta di viraggio e accompagnamento alla realtà; il tutto però dopo aver preso le mosse dal di dentro del delirio stesso.
Si è in questo modo costruita una sorta di realtà virtuale ante litteram, artificiosa e concreta al tempo stesso, in cui il paziente ha visto riconosciuti i propri contenuti deliranti e, proprio in virtù di tale riconoscimento, ne è stato liberato, sopprimendo dentro il delirio, ciò che lo produceva; la liberazione nel delirio ha così condotto alla liberazione dal delirio.
Ad avviso di Foucault, questo gioco organizzato di finzione e validazione attorno al delirio, verrà interamente soppresso nella pratica psichiatrica inauguratasi allinizio del XIX secolo, in forza dellimporsi della pratica disciplinare e della microfisica del potere.
Lascolto della confessione invece, altro non è che prova, verifica intorno alla effettiva realizzazione degli effetti attesi: si intende trovare, nel discorso del folle, il discorso sul folle che la disciplina psichiatrica gli ha anticipatamente impartito e che egli deve far proprio; lascolto della parola malata viene qui disperso per fare spazio alle categorie delladeguatezza e dellesattezza.
Nelladeguatezza si verifica la rispondenza ad un modello e lappropriazione dello stesso da parte del malato; il malato deve dimettere la sua parola folle, si deve spogliare della parola di cui è in balìa, per dirsi nella parola disciplinata e disciplinante del potere medico e trovare, attraverso questa traslazione, la guarigione; lesattezza è invece da intendersi in senso etimologico, quale risultato ottenuto (ex actu) come rinvenimento a posteriori, nel folle, del discorso che su di lui è stato anticipatamente formulato.
Nellascolto governato dalladeguatezza e dallesattezza, è la verità della sofferenza, la sua viva parola, che scompare dalla scena; il doppio regime delladeguatezza e dellesattezza, presiederà comunque ulteriori scenari e come vedremo penetrerà in diverse forme le pratiche psichiatriche sino ai nostri giorni.
Di segno opposto appare il significato dellepisodio tramandatoci da Mason Cox : " Nulla riuscì a dissuaderlo da questa idea sinistra. Alla fine si prese la decisione di fingere di assecondarlo" , recita il testo; ascoltata la parola delirante e persecutoria del malato, contrapposta ad essa la parola della realtà e della ragione, una volta esperiti tutti i tentativi di convincimento, i sanitari concludono che deve cambiare l essenza dellaffrontamento.
La scelta di confermare la centralità del dialogo col paziente ed il suo ascolto, pur mutando radicalmente lo scenario in cui ciò avviene, potrebbe offrirsi ad una duplice lettura: forse ed ancora una volta, la decisione di fingere di assecondare il paziente altro non è che l'ennesimo modo, certo geniale ed estremamente sottile e sofisticato, non brutale e privo di coercizione, per ribadire lessenziale cifra agonistica e polemologica della medicina, il senso ultimo della sua missione di sconfiggere la malattia nel nome della salute, di riportare la ragione la dove imperversa la follia, in ultima analisi di aver ragione del male; tutto ciò allinterno di una rigorosa logica binaria e oppositiva dove salute e malattia figurano disgiunte e polarizzate, nemiche perenni la cui relazione soggiace alla sola logica del mors tua, vita mea.
Possiamo però azzardare ad ipotizzare degli accadimenti tuttaffatto diversi, se solo tentiamo di calarci nei panni di quei primi alienisti e ci accostiamo al loro senso di fallimento e frustrazione nel constatare lesito nullo dei loro tentativi; questi ultimi finalizzati non tanto a riportare alla normalità e alla ragione il giovane paziente, quanto a vederne attenuare la sofferenza: non possiamo sottacere lenorme carico di angoscia e la dilaniante inquietudine che lideazione persecutoria può produrre in chi ne è vittima ed è difficile immaginare che il personale del manicomio potesse restare indifferente a questa dolente condizione, che non si producesse uno stato di commozione empatica nell animo di medici ed inservienti.
Da questo desiderio, tutto umano, di vedere attenuate le sofferenze nei propri simili, avrà forse preso le mosse quellallestimento scenico che intendeva eliminare la causa prima del malessere del giovane ( la donna individuata come fonte di complotti e raggiri).
Similia similibus curantur: gli psichiatri protagonisti dellepisodio in questione, sembrano intuire che la granitica superficie del delirio non può essere scalfita e colgono quanto sia importante, per il giovane paziente, riconoscersi in tale pur patologica ideazione; essi percepiscono, in forma ancora nebulosa e pre razionale, che il paziente ha bisogno di sentire legittimata la dignità del suo delirio e dello stato emotivo che lo sottende; il paziente, non potendo esprimere sé stesso altrimenti, necessita di essere riconosciuto per ciò che è.
Possiamo riscontrare in questi primi alienisti descritti da Mason Cox, una grande finezza psicologica ed anche una sensibilità istintivamente fenomenologica, che li spinge ad entrare in contatto con la modalità di essere nel mondo del paziente e di volgerla a fini terapeutici; il personale manicomiale non tiene a distanza la follia, ma accetta di contaminarsi con essa, di mettersi in gioco, di dialogare con essa attraverso il suo stesso linguaggio e in assenza di modelli normativi o regolativi aprioristici.
Sarà con la successiva generazione di alienisti, a partire da Falret e Morel intorno a metà 800 e per i decenni successivi, che vedremo infrangersi quel delicato equilibrio tra ascolto e dominio, quella contraddittoria contiguità tra intersoggettività e potere coercitivo, quella controversa coesistenza tra la considerazione verso la singolarità malata e lapparato di forze; la dialettica tra sintomo e segno, tra soggettivazione e obiettivazione sarà definitivamente spezzata a tutto vantaggio di questultima.
Le due antitetiche posture epistemologiche che erano venute profilandosi tra gli alienisti del XIX° sec., - luna, attenta ai dati positivi e qualitativi dellosservazione e dellascolto, che si lasciava guidare dal malato e dalle sue manifestazioni; laltra, che tenterà di cogliere la follia ed il delirio in una visione globale che ne includa anche le dimensioni spaziali e temporali, genesi ed estensione delle manifestazioni patologiche, ma anche i cosiddetti fatti negativi ("..lacune, omissioni, assenza di manifestazioni. . .) - si divaricheranno e questultimo atteggiamento clinico sarà privilegiato e sempre più orientato in senso quantitativo, finalizzato allinscrizione dei sintomi nei diversi quadri nosologici.
Se nella prima posizione si esprimeva la singolare mutevolezza di espressioni patologiche che mettono regolarmente in questione gli assetti classificatori, con la seconda si tenterà con pari costanza di ricondurre la prima a sé, di incorporarla alla positività del proprio sapere ed alla rete ordinata di regolarità che lo distingue, in un continuo gioco mobile e dialettico di inclusione e sottrazione.
Assisteremo così ad un costante tentativo di definizione di quelle configurazioni nosografiche che possano rispondere a forme naturali, rispetto alle quali i contenuti del delirio ed il suo ascolto appaiono scarsamente significativi; per Falret infatti, "la psichiatria non può costituirsi come variabile dipendente dellascolto" .
Inizia con Falret il primato della registrazione e produzione di segni, a dispetto di "una diagnosi fondata sullascolto dei sintomi"; la divaricazione tra sintomi e classificazione si consuma attraverso lintroduzione negli assetti nosografici della decisiva categoria della temporalità, implicante unevoluzione dei quadri clinici a partire da affezioni endogene su base biopsichica: "Introdurre la storicità nellassetto rigido e atemporale della nosografia, implica dunque uno spostamento epistemologico di grande portata: significa rendere possibile il passaggio da un impianto fenomenologico ad una prospettiva genetica. . .", venendo così a modificarsi radicalmente la ". . . relazione con la parola del soggetto internato."
Tale relazione vedeva nella parola del folle e nel suo ascolto, l". . . autentica matrice generativa della classificazione. . ." , ed anteponeva il primato dei fatti sui sistemi.
Storicità e processualità scandiscono questo scostamento epistemologico prodotto dalla dimensione della temporalità: si potrà infatti parlare ora di decorso dei quadri clinici, del loro andamento, delle loro metamorfosi, dei loro esiti, con Morel addirittura di degenerazione, lasciando ai margini, sintomo tra i molti sintomi, la parola del malato; la prospettiva teorica e antropologica che viene imponendosi, pur a pochi anni di distanza da Esquirol, mette in luce tutta la sua lontananza dallallievo di Pinel, laddove in questi linclinazione allascolto era componente costitutiva e fondante dellatto conoscitivo ed i processi di soggettivazione e oggettivazione si radicavano nella disponibilità umana dellalienista, nella fiducia di cui questi godeva presso il paziente, nel suo atteggiamento rigorosamente empirista e alieno a sistematiche precostitutite.
Nel 1861 Griesinger pubblica la seconda e definitiva edizione del suo manuale: i disturbi psichiatrici sono riconducibili a patologie cerebrali, o "malattie dei nervi"; fino al 1900, il testo di Griesinger costituirà il principale punto di riferimento per le generazioni di psichiatri della seconda metà del XIX° sec., sulla scorta dellapplicazione anche in ambito psichiatrico del metodo clinico patologico già introdotto nelle altre specialità; lenfasi della ricerca medica si sposta dallosservazione alla dimostrazione, tesa a connettere laffezione al corrispondente organo, individuando e riconoscendo in questo la sede della patologia e correlando ad esso segni e sintomi.
Nel primo numero di "Archiv fur Psichiatrie und Nervenkrankheiten" uscito nel 1867, così si esprimeva il medico tedesco: "La psichiatria ha subito una trasformazione in rapporto al resto della medicina. . . dovuta principalmente al fatto che si è compreso che i pazienti affetti dalle cosiddette "malattie mentali", sono in verità individui con patologie a carico dei nervi e del cervello."
Dal canto suo, Meynert rinforzava questa posizione ritenendo compito primo della psichiatria, quello di condurre ricerche e trovare proprie basi scientifiche "in una conoscenza approfondita e dettagliata della struttura anatomica del cervello. . . elevandosi allo status di scienza che indaga le cause."
Il paradigma anatomo patologico prende il sopravvento nella psichiatria della seconda metà dell800 e la ricerca si concentra sulla fisiologia, sulla neuroanatomia, sulla localizzazione cerebrale, ritenendo le malattie mentali fondamentalmente incurabili; lattività di ricerca e di laboratorio prevale sul lavoro clinico senza che si registrino significativi cambiamenti nelle condizioni dei pazienti, diffondendosi anzi una sorta di nichilismo terapeutico.
La variabile temporale già introdotta con Falret e Morel, viene forzata a tal punto da indurre Morel a concepire la tristemente nota teoria della degenerazione, secondo la quale i disturbi mentali, aggravandosi di generazione in generazione, producono devastanti effetti nelle successioni genealogiche e dunque anche nella popolazione generale; infelicissimo concetto, questo - che non può essere confuso con altri, pur problematici, come la famigliarità o lereditarietà di tali disturbi - che contribuirà a produrre nel 900 le aberrazioni che conosciamo.
Le vicende della psichiatria del secondo ottocento affondano nel darwinismo sociale e la psichiatria sembra coincidere tout court con ligiene sociale e con forme deviate e perverse di arbitrio e sopraffazione nei confronti delle fasce più deboli e marginali della società e non è un caso che il termine stesso di degenerazione, fosse mutuato dalla zoologia; la teoria di Morel incontra autorevoli sostenitori in tutta Europa e si propaga ben presto nei principali paesi del continente.
In un tale clima "scientifico", lascolto dei pazienti rappresentava una variabile dipendente, funzionale alla conferma di teorie precostituite; ma non solo: in ragione del terrore che la teoria della degenerazione andava diffondendo tra larghi strati di popolazione, i medici riscontravano forti reticenze nelle persone a dichiarare i propri sintomi, nel fondato timore che il dichiararli potesse ritorcesi contro di esse, cosicché anche la raccolta di una anamnesi famigliare - ad esempio - risultava un atto spesso problematico, al punto che queste "reticenze e menzogne" potevano addirittura esse stesse venire annoverate come indizio di malattia mentale.
Sulla scena della psichiatria dellultimo scorcio di secolo, appariranno due figure decisive per gli sviluppi successivi della disciplina: Emil Kraepelin e Sigmund Freud; con il primo, assisteremo a significative modificazioni nei rigidi assetti categoriali della psichiatria positivista; il secondo, come sappiamo, rivoluzionerà non solo le metodologie di cura ma la complessiva rappresentazione antropologica che le scienze umane avevano sino ad allora costruito.
In Kraepelin vediamo confermata la dimensione temporale quale cardine decisivo attorno a cui ruota la costruzione della nosografia del primo novecento: rispetto ai suoi predecessori strenuamente biologicisti, pur riconoscendosi allinterno del medesimo paradigma, egli spostò lenfasi delle sue ricerche dalle cause delle malattie mentali, allosservazione del decorso delle stesse e dei loro esiti lungo una scansione temporale.
Su queste basi egli fonderà il suo inedito impianto nosografico; sensibile anche allutilizzo di strumenti psicologici, Kraepelin vuole dare continuità ai tentativi avviati dagli psichiatri che lo hanno preceduto, [miranti ad ancorare saldamente la psichiatria alla medicina attraverso la mediazione dellanatomia cerebrale, della neuropatologia e della fisiologia], studiando la malattia mentale come una malattia somatica tramite il metodo clinico - nosografico e descrittivo.
Nella prospettiva kraepeliniana, già avviata da Falret, linterpretazione dei sintomi ed il loro contenuto assumono un significato residuale; lapporto della soggettività del malato viene quasi del tutto marginalizzato, privilegiando una comprensione della malattia imperniata sulle sue manifestazioni, sulle sue forme esteriori, sulla sua evoluzione temporale, cosicché, mentre lapparato classificatorio vede una indubitabile crescita del suo potere conoscitivo, - Kraepelin, come è noto, introduce in via definitiva le due nozioni di schizofrenia (dementia praecox) e
disturbo maniaco depressivo, unitamente alla valutazione prognostica quale asse portante dei suoi costrutti nosografici -, ancora una volta il sintomo viene fagocitato nel segno e la parola della follia rimane fondamentalmente inascoltata e coartata nella rete istituzionale.
Con Freud e la psicoanalisi vediamo invece riemergere quella sorta di sotterraneo fiume carsico che percorre tutta la storia della psichiatria da Esquirol (per alcuni aspetti) passando per Bernheim sino a Basaglia e che, con termini di dubbia pertinenza, è stato di volta in volta definito psichiatria romantica, antipsichiatria, psichiatria sociale.
Freud non può certo essere annoverato tra i padri dellantipsichiatria; è tuttavia innegabile che lintero impianto psicoanalitico poggia sullincontro e sulla relazione tra paziente ed analista, in contesto (Setting) extraistituzionale; è altresì lascolto della sofferenza nel suo vivo prodursi, nel suo qui ed ora, che suscita linteresse di Freud.
Tratteremo diffusamente lascolto psicoanalitico nel capitolo che gli abbiamo dedicato; in questa sede ci limitiamo a considerare che tra gli eventi che hanno contribuito alla nascita della psicoanalisi, producendo nel contempo qualche frattura nel lineare e progressivo sviluppo della psichiatria positivista, troviamo, oltre alla nota terapia morale, anche la pratica ipnotica e le prime forme di psicoterapia adottate da Bernheim e da Dejerine, già collaboratori di Charcot in Francia.
Le prime pratiche psicoterapiche si fondavano su una sincera attenzione del medico nei riguardi del paziente, sulluso persuasivo e talvolta suggestivo della parola e del dialogo, sulla dimostrazione di interesse e di disponibilità verso la persona malata, sulla capacità di stare con essa, di lasciarla parlare, di ascoltarla con attenzione e pazienza, sul contatto emotivo e la trasmissione di comprensione.
In realtà, le vicende di queste inaugurali pratiche psicoterapiche sono assai significative: nate nel contesto della disciplina neurologica e non psichiatrica, le diverse forme di psicoterapia vengono esercitate non tanto in contesti asilari, ma prevalentemente negli ambulatori privati dei medici, per lo più neurologi, che vi si dedicavano: con il surrettizio viatico della neurologia, lascolto psichiatrico esce per la prima volta dallistituzione e fa il suo ingresso nei gabinetti medici privati.
Viene consumandosi, in tal modo, una netta divaricazione nel mondo della medicina: da un lato la psicoterapia nasce al di fuori dellorbita della psichiatria per divenire prerogativa di neurologi e anche di medici internisti, consentendo così ai pazienti affetti da disturbi mentali di allontanarsi dalla disciplina psichiatrica; quale paziente infatti avrebbe accettato di riconoscersi "pazzo", dunque incurabile e intrattabile, dunque da segregare?
D'altro lato la psichiatria, restando radicata ed appiattita nellorganicità ed abdicando ad ogni idea di cura, continua ad assolvere la sua funzione in termini meramente custodialistici e segregativi.
Se la parola, lascolto, il contatto emotivo, assumono nel rapporto medico paziente il valore di strumenti di cura, necessariamente anche le variabili ambientali, sociali, famigliari ed esistenziali troveranno la dignità di fattori incisivi sullo stato di salute delle persone: nella parola e nellascolto, il medico entra in contatto con la complessità del mondo della persona, che non potrà quindi essere ridotto a mero agglomerato di organi, tessuti, reazioni chimiche.
Ecco dunque riaffacciarsi quella visione della malattia mentale che, pur nelle sue diversificate declinazioni storiche, si riconosce complessivamente nel porre maggior risalto agli aspetti psicosociali, ambientali ed emozionali incarnati nella soggettività del paziente e considerati parte direttamente in causa dei processi patologici; lattenzione e la sensibilità verso queste dimensioni della persona e della malattia, colloca le antipsichiatrie in opposizione agli approcci genetici e biologici dominanti; questi ultimi, in realtà, non sarebbero altro che paludati epifenomeni del binomio sapere potere, conoscenza dominio.
Con Foucault, potremmo appunto "parlare delle anti-psichiatrie che hanno attraversato la storia della psichiatria moderna. . . se con ciò si intende tutto ciò che rimette in questione il ruolo dello psichiatra, incaricato un tempo di produrre la verità della malattia nello spazio dellospedale. . . Al centro dellanti-psichiatria sta dunque la lotta con, nella e contro listituzione. . . (mettendo in atto). . . la sua distruzione sistematica per mezzo di un lavoro interno, trasferendo al malato stesso il potere di produrre la sua follia e la verità su di essa, piuttosto che cercare di ridurlo a zero."
Mirando a sciogliere il sapere dalle sue connessioni con le tecniche di dominio, sotto la cui egida listituzione manicomiale si è perpetuata, lantipsichiatria del XX° sec. ha inteso liberare la voce della follia affinché potesse dirsi nelle sue proprie parole.
Obiettive ragioni di natura scientifica, ma prima ancora di natura umanitaria, imponevano una rottura nel senso indicato da Foucault: tra la fine del XIX° e linizio del XX° sec. le condizioni degli istituti manicomiali erano spesso al limite del disumano: il sovraffollamento e lassenza di reali prospettive terapeutiche, rendeva questi luoghi dei meri contenitori di umanità a perdere, siti concentrazionari nel quale scaricare le più varie forme di devianza e marginalità e dove regnava abbandono e desolazione; le conoscenze scientifiche sui disturbi psichiatrici segnavano il passo, tanto che la psichiatria non veniva nemmeno più considerata una branca della medicina e il ruolo medico era svilito al rango di custode e amministratore.
Sono vicende ben note, su cui non ci dilungheremo, ma che vanno ricordate per collocare gli sviluppi del pensiero scientifico in una corretta prospettiva storico sociale.
Nonostante si registrino, a partire dal 1917 con Wagner Jauregg e la sua piretoterapia, i primi esperimenti di terapie farmacologiche dei disturbi mentali, le possibilità reali di essere ascoltati da parte dei pazienti continuano a dipendere fondamentalmente dalle loro condizioni economiche e sociali: chi ne ha la possibilità, si rivolge ad un medico, magari di formazione psicoanalitica, presso il suo ambulatorio privato; chi non dispone di un buon livello economico, dovrà necessariamente rivolgersi agli istituti; la psichiatria del 900, fino agli anni 60 - 70, si dibatterà tra custodialismo, interventi organici (inclusa laberrante stagione delle lobotomie e dellECT), psicoterapia privata; al contempo però continuano a vivere quelle enclave residuali di psichiatria sociale o comunitaria che credono tenacemente nei metodi di cura fondati sulle relazioni umane e sullintegrazione sociale dei pazienti.
Questo tipo di approccio, viene concepito e realizzato soprattutto in Inghilterra dove dagli anni 30, grazie ai fondamentali contributi di Joshua Bierer e di Maxwell Jones, prendono avvio le prime sperimentali formule di comunità terapeutiche, terapie di gruppo, centri diurni: in questi contesti veniva lasciato ampio spazio allautogestione dei pazienti e alla loro libera e reciproca interazione, con il sostegno del personale presente ma senza alcuna imposizione; le possibilità di reciproco ascolto e di spontaneo scambio interpersonale tra i pazienti e tra questi ed il personale, in una condizione di inedita "libertà", promuovevano un clima di gruppo a forte valenza emotiva che sarà successivamente utilizzato con consapevole intento terapeutico nello psicodramma di Moreno.
Ad un rinnovato clima nella gestione interna di queste istituzioni, corrispondeva una altrettanto decisa apertura verso lambiente esterno: ricoveri e dimissioni erano prevalentemente su base volontaria e già intorno al 1860 si erano realizzati i primi tentativi di assistenza familiare dei pazienti, ossia della loro allocazione presso famiglie private che provvedevano ai loro bisogni assistenziali e questa pratica proseguì sino ai primi decenni del secolo, pur rimanendo, in termini numerici, minoritaria.
Sembra ripresentarsi qui, in una rete di analogie tutta da indagare, il problematico binomio che abbiamo incontrato alle origini della psichiatria: questi primi e talvolta rivoluzionari tentativi di umanizzazione e di cura, contemplavano una spiccata attitudine allascolto e allattenzione verso i pazienti, talvolta il piacere e linteresse a stare con loro ed un forte coinvolgimento emotivo; ciononostante, le pratiche della psichiatria biologica dellepoca, anche le più invasive e violente (coma insulinico, lobotomia) non cessarono di essere utilizzate.
Abbiamo inteso svolgere questo rapido excursus storico (che recupereremo in momenti successivi) sino alla prima metà del 900, non solo per fornire uno sfondo temporale sul quale vengono a stagliarsi gli eventi e le idee, ma soprattutto per mettere in rilievo come lintera storia della psichiatria moderna e delle istituzioni in cui è andata via via incarnandosi, sia attraversata da chiaroscuri, da due anime che lhanno sempre abitata e che hanno convissuto in essa contraddittoriamente e problematicamente.
Lascolto della sofferenza mentale allinterno delle mura istituzionali non ha mai potuto disgiungersi dallimmaginario collettivo intorno alle patologie mentali e dai conseguenti attributi specifici implicati nel mandato sociale allistituzione, sintetizzabili nel binomio cura custodia; le alterne vicende della psichiatria moderna, non hanno cessato di assistere a tale sorta di critica contaminazione tra scienza e senso comune.
Nel già citato "Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza", J. Jaynes definisce con le parole seguenti il concetto di imperativo cognitivo collettivo: "sistema di credenze collettivo, attesa o prescrizione accettata da tutti gli appartenenti alla cultura, che definisce la forma particolare di un fenomeno e i ruoli che devono essere svolti allinterno di tale forma."
Tale sistema di credenze può attraversare fasi storiche di maggiore o minore forza e coesione, di maggiore o minore pervasività e incisività sulla comunità di riferimento; nella nostra contemporaneità, il costrutto dellimperativo cognitivo collettivo presiede lassegnazione alla scienza - nel nostro caso la medicina / psichiatria - della definizione di ciò che è sano e di ciò che è malato, di ciò che è normale e di ciò che è patologico; a sua volta, la scienza si servirà delle tecnologie istituzionali per la concreta applicazione dei saperi intorno a salute e malattia, normalità e patologia.
Le malattie dellapparato cardio vascolare, i tumori, le malattie neurologiche cronico degenerative (ad es. morbo di Alzheimer o morbo di Parkinson) e dellapparato respiratorio - solo per citare alcuni esempi di patologie riconducibili in ultima analisi ad uno sfondo organico -, sono contrassegnate da unevocazione simbolica che, pur carica di drammaticità e sofferenza per quanti ne sono implicati, inscrive queste affezioni in un orizzonte di senso che assegna loro i caratteri ora della ineluttabilità, ora della disgrazia, ora della fatalità, magari anche del dolo e della colpa (come nel caso delle malattie professionali), ma che trova allinterno della grande categoria moderna di malattia, nel carattere tragicamente esorcizzante e catalizzante di questo termine, nei nessi di causa ed effetto guadagnati dal sapere medico ed in esso contenuti, una quantomeno parziale soluzione e pacificazione; la scienza, da questo punto di vista, con le sue spiegazioni si fa solidale con la ricerca di senso del paziente e di quanti gli sono vicini.
La scienza moderna e la medicina, operando quel graduale processo di sterilizzazione e neutralizzazione del concetto di malattia, depurandolo simbolicamente ed eliminando da esso tutti i residui di superstizione e moralismo, hanno reso accessibile una diversa mentalizzazione degli eventi patologici.
La medesima trama che tiene collegati scienza e senso comune nelle diverse specialità mediche, si spezza nella psichiatria: la comunità degli psichiatri e l imperativo cognitivo collettivo sono separati, in epoca contemporanea, da un profondo jato; i tentativi della scienza medico psichiatrica di allargare e diffondere le proprie conoscenze allintera comunità, devono registrare, nel caso delle malattie mentali, uno scacco.
Nellimperativo cognitivo collettivo, la psichiatria viene collocata su una superficie di ibridazione dove la diagnosi convive col giudizio morale, il sintomo con la paura, lanomalia comportamentale con linterrogativo etico, la devianza con la condanna, leccentricità col compatimento pietistico, latto inconsulto con lattribuzione giudicante di intenzionalità; la rappresentazione collettiva della malattia mentale, - certo anche in ragione degli effetti diretti e talvolta devastanti di questa sulle relazioni, sui comportamenti, sugli affetti, in buona sostanza sul complesso dellesistenza di un soggetto, - è dominata da un continuo slittamento tra le categorie scientifiche e le categorie morali, dove il binomio salute/malattia si incrocia e si confonde col binomio bene/male, dove le polarità normale/patologico si trasvalutano in buono/cattivo.
Vediamo dunque riaffacciarsi quegli elementi, propri di una mentalità pre scientifica, (lirrazionale, il superstizioso, il moralistico. . . ) che con tanta fatica la scienza ha tentato di espellere dal suo orizzonte.
Da qui, il carattere inevitabilmente duplice ed ambiguo del mandato sociale allistituzione: cura e custodia, terapia e protezione sociale, riabilitazione e sicurezza pubblica, presa in carico e controllo; la cifra essenziale di questa perdurante ambivalenza sembra essere ancora una volta la paura, o meglio, il timore della violenza semantica implicata nella follia; ancora di più, la malattia mentale rinvia allorrore dell insensato e dell ignoto: laddove le altre specialità mediche, attraverso i loro reticoli eziologici ed esplicativi, riescono a disegnare una traiettoria di senso alle malattie, la psichiatria sembra ancora incapace di fornire visioni della malattia mentale in grado di emancipare questultima dal quel retaggio che la vuole incarnazione ed espressione dellinsensato: è la nozione stessa di malattia che qui viene a cedere, che dimostra tutta la sua insufficienza come contenitore di senso.
La storia interna della psichiatria, disciplina che dai primi anni 80 sino ad oggi ha registrato enormi progressi nella conoscenza delle malattie mentali e degli strumenti di cura, soprattutto se confrontati con gli sviluppi dei decenni precedenti, si divarica dunque dalla sua storia esterna e dal paradigma cognitivo collettivo che, in larga misura, la incarna: il sistema di credenze, di attese, di prescrizioni, la definizione delle forme dei fenomeni in questione e dei ruoli delle parti in gioco, la mutua accettazione di tutto questo da parte degli appartenenti alla cultura di riferimento, si costituiscono, tra l istituzione psichiatrica e la collettività, come tuttaffatto diverse.
La discrasia tra queste due dimensioni storico epistemologiche, è gravida di effetti: il più importante e più grave, consiste nel perpetuarsi, pur nel rinnovato assetto istituzionale, di quello stesso meccanismo di scissione e separazione su cui ha prosperato la lunga era manicomiale; la psichiatria, i suoi contenuti, le sue pratiche, le diverse modalità del suo esercizio, continuano ad essere una sorta di corpo estraneo incistato nella compagine sociale; incistamento tollerato ed in parte voluto dalla collettività, nella misura in cui risponde al sistema di attese ed alle aspettative dellimperativo cognitivo collettivo.
La delega ai saperi specialistici ed al corpus di professionisti, sussume in sé anche una esclusività dellistituzione nellapplicazione di pratiche e saperi, nonché nella "gestione" di ogni aspetto esistenziale dei pazienti: a dimostrazione del pericolo sempre incombente di rigurgiti neo manicomialisti.
I dipartimenti di salute mentale, vengono così ad assumere una problematica posizione che li colloca al tempo stesso dentro e fuori della compagine sociale: soggetti di delega e oggetti ineffabili, detentori di saperi ed entità enigmatiche, titolari di pratiche in nome e per conto della collettività e realtà non ben decifrabili; oscura la malattia, opaco il guaritore.
Lasimmetria delle reciproche rappresentazioni e delle reciproche aspettative tra listituzione e limperativo cognitivo collettivo, nutre un perverso gioco di scambi incrociati: le spinte centrifughe ed emarginanti dellimperativo cognitivo collettivo, rischiano di colludere con la "sindrome da cittadella assediata", con le forze centripete ed autoreferenziali dellistituzione, con la sua costitutiva tendenza verso quella sorta di narcisismo istituzionale secondario che abbiamo descritto, confermando e rinforzando così le già paventate spinte neo manicomialiste.
Il paziente, il suo ascolto, rischiano dunque di prodursi come variabili dipendenti delle dinamiche e degli antagonismi tra storia interna della psichiatria e dellistituzione, da un lato, e imperativo cognitivo collettivo dallaltro; come effetto di un gioco di forze al cui interno le persone si dibattono e dove, come vedremo, va perduto, con lautenticità dellascolto, anche il pluralismo identitario di cui ciascun paziente, come ogni uomo, è portatore.
Forse non ci si è ancora sufficientemente interrogati su questa scissione, già di per sé potenzialmente lacerante per il paziente, tra il corpo sociale ed il corpo istituzionale, laddove il soggetto malato abita entrambi e ad entrambi appartiene, ma allinterno di una incoerente duplicità tra i rispettivi registri simbolici e cognitivi.
Parte in gioco e compartecipe dellimperativo cognitivo collettivo ma nel medesimo tempo suo effetto distorto, sua periferica deviazione, nella soggettività malata la sofferenza della malattia mentale si salda con il cocente sgomento che deriva dal vissuto di diversità, di alienità, di marginalità dal corpo sociale.
A questa sofferenza addizionale, i pazienti delletà moderna hanno sempre tentato di contrapporsi, quantomeno parzialmente, attraverso la regolazione del repertorio dei sintomi: dalla nascita della medicina moderna, sono sempre esistite forme di espressione del patologico che incontrano maggiore o minore accettazione nella cultura di appartenenza, che sollevano disapprovazione o rifiuto, che vengono considerate legittime ovvero riprovevoli da parte della compagine sociale.
La morfologia del patologico è mutevole, cangiante, potremmo dire camaleontica, in quanto tende ad assumere quelle configurazioni che limperativo cognitivo collettivo riconosce come proprie e reputa accettabili e tollerabili: la malattia viene così ad affacciarsi nelle modalità leggibili dalla specifica cultura di appartenenza; in altre parole, la pressione sociale e culturale orienta, in qualche misura, la produzione dei sintomi ed il ruolo del medico consiste anche nel veicolare e farsi agente della cultura più ampia cui appartiene.
Compatibilmente con la pervasività della sua patologia, a livello inconscio il paziente si sforzerà di modulare le forme esteriori della sua sofferenza in sintonia con il sistema di aspettative e con il quadro di legittimazione sociale che gli viene offerto dal contesto di appartenenza; la qualità soggettiva delle sue sensazioni interne cercherà un punto di aderenza che le possa corrispondere, su un doppio fronte esterno: luno, quello del riconoscimento sociale, dellapprovazione, dellaccettazione e legittimazione dello status di malattia così come viene collettivamente concepito; laltro, quello del medico, a cui il paziente paleserà dei sintomi da questi "riconoscibili" ed inscrivibili in un quadro sindromico per quanto possibile limpido e coerente.
I processi di socializzazione contemplano anche linteriorizzazione dei modelli di sviluppo e di espressione del patologico che sono sempre e necessariamente intrisi di storicità, costrutti storico sociali prima ancora che entità naturali; a loro volta infatti, tali modelli operano in coerenza ed in corrispondenza con lo hegeliano spirito del tempo, con il sistema di valori sotteso allimperativo cognitivo collettivo.
Potrà così accadere che il paziente si mostri nelle sue molteplici maschere, in ragione del teatro, della scena di questo mostrarsi: se per un verso queste maschere gli appartengono, gli sono proprie, per un altro verso sono date, esse gli preesistono.
Giocata al contempo nel corpo sociale e nel corpo istituzionale, la soggettività malata si offre dunque in un duplice livello di esposizione nel quale la posta in gioco sembra essere comunque il pluralismo identitario del paziente, la possibilità di vedere amputate, ovvero accolte, quelle molteplici componenti dellidentità, quei prismatici volti che abitano ogni essere umano non diversamente da ogni soggetto sofferente.
E qui che lascolto istituzionale incontra la sua crisi nel senso propriamente etimologico di krìsis: listituzione, per essere in grado di prendersi cura e di curare, deve saper accompagnare i pazienti con una sorta di ascolto che è anche sguardo - sincopato, in controtempo, che sa prestare orecchio al qui ed ora della malattia ma anche al suo oltre, allulteriorità della persona del paziente, al suo essere (anche) altro dalla malattia e non solo malattia; i pazienti hanno bisogno di cogliere questa qualità di ascolto, che non istituzionalizza la malattia rendendola in tal modo cifra esclusiva e totalizzante della soggettività.
Esiste una qualità di ascolto che può restituire al paziente delle immagini di sé che eccedono la patologia, che la oltrepassano e gli consentono di immaginare un più ampio orizzonte di possibilità esistenziali, che gli aprono lopportunità di pensarsi altrimenti.
E nel momento in cui il paziente sente che linterezza della sua umanità e della sua persona è chiusa, assorbita e risolta nelle (pur sempre importanti ma) anguste categorie cliniche, che listituzione diviene componente iatrogena, valore aggiunto di patologia, follia istituzionalizzata: il paziente non potrà essere - altro che il paziente, non potrà che assumere questa pietrificata identità, rispondendo e corrispondendo perfettamente allascolto e allo sguardo istituzionale; nellattribuzione forzata ed ineluttabile di tale identità, listituzione si sovrappone alla patologia, costituendone così il plusvalore; i pazienti regoleranno lentità dei loro sintomi disturbanti, in funzione non solo del peso e della disponibilità a recepirli da parte della loro controparte istituzionale, ma soprattutto in funzione di ciò che essi percepiscono come aspettativa nei loro confronti.
Come sostiene E. Borgna " . . . i sitomi psicotici non tematizzano una realtà rigida ed impenetrabile(. . . ) ma tematizzano, invece, una realtà friabile e camaleontica che cambia e si trasforma in riferimento ai modi con cui il paziente viene avvicinato, accettato o rifiutato. . . nel contesto della qualità della relazione interpersonale che si ha con il paziente e della qualità della atmosfera ambientale in cui egli vive la sua esperienza psicotica."
Fintantoché listituzione non sarà in grado di ascoltare il folle anche in ciò che di altro vi è in lui, non sarà in grado di pensarlo come entità personale irriducibile, non sarà in grado di guardarlo come soggettività plurale, la ricchezza e le potenzialità del paziente, il gioco di rifrazioni tra le sue diverse identità, andranno perdute e con esse le potenzialità di cura che vi sono contenute.
Queste considerazioni non intendono certo sottovalutare il devastante depauperamento con cui talvolta la malattia mentale aggredisce le funzioni superiori, né minimizzare limpoverimento ed il restringimento dellideazione e della prassia imposti da talune forme schizofreniche.
Vorremmo tuttavia evidenziare come listituzione possa e debba, a nostro avviso, coesistere faticosamente e quotidianamente con il proprio paradossale compito: non istituzionalizzare la follia; solo sapendo sempre cogliere, oltre alla patologia, anche il suo altro, il suo doppio, lhegeliano "resto di ragione", unistituzione potrà operare con modalità non istituzionalizzanti.
Tale inclinazione epistemologica e antropologica, oltre che pragmatica, incontra considerevoli e obiettive difficoltà di non facile superamento; in primis nella logica di pensiero che il paziente stesso induce nel gruppo istituzionale: una logica di pensiero tendente a produrre una lettura parziale, viziata, semplificata, frammentata, decontestualizzata, del paziente e del suo mondo ed in base alla quale "loperazione di scomposizione e occultamento di parti della realtà, che è strutturale, viene fatta passare per un fatto accessorio; quello che è un lavoro sulle forme del pensiero viene presentato come un lavoro sui contenuti o sugli stati danimo. . .(in tal modo) il paziente. . .ci fa dimenticare che ci sta coinvolgendo nel suo processo di reale e strutturale restringimento del proprio orizzonte esperienziale."
Attraverso il suo stile relazionale, attraverso le sue modalità di presentarsi frequentemente nella forma della "bisognosità", della fragilità, della carenza, della debolezza, attraverso limmagine povera, stereotipata, monolitica che il paziente tende a fornire, egli può spingere il terapeuta, il gruppo curante, addirittura lintera istituzione, a delle interpretazioni deviate, delle letture distorte, delle rappresentazioni frammentate, circa i fenomeni e gli eventi in cui è inserito.
Ne esce così una visione complessivamente sintonica con la struttura psicotica del paziente, in cui il livello di integrazione e di coerenza dei fenomeni che lo riguardano risulta assai carente; trascurando la complessità del fenomeno morboso, la sua reale ampiezza ed entità, listituzione si nega alla possibilità di cogliere in esso il significato strategico - esistenziale che assume per la persona.
Per ovviare a questo, listituzione ed il gruppo curante possono attivare una sorta di ascolto difensivo atto, da un lato, a proteggerli dalle intossicazioni da parte di forme patologiche di psichismo, dallaltro lato a creare le condizioni per dei livelli di lettura evoluti e coesi intorno alla situazione complessiva del paziente; tale qualità di ascolto si pratica attraverso rapporti costantemente mediati e mai diretti con i pazienti: agenti della mediazione possono essere il gruppo, le tecniche, altri colleghi, rigorosi riferimenti teorici, consulenze esterne.
Oltre che dal rischio, sempre presente, di coinvolgimento nello psichismo malato dei pazienti, un approccio non istituzionalizzante alla malattia mentale è ulteriormente inibito da un fattore intrinseco allistituzione stessa: il cosiddetto effetto setting, per il quale ". . .le persone inserite in un campo rituale, subiscono una particolare forma di regressione parziale che le induce a funzionare con modalità diverse da quelle che adottano al di fuori di quel contesto. Listituzione, per esigenze di funzionamento proprio e, in parte, per esigenza terapeutica, si frappone fra il mondo esterno e gli individui che essa contiene, cioè gli operatori ed i pazienti, creando una barriera "dentro fuori". . . che attribuisce al loro operare un carattere recitativo- rituale e li rende, per esempio, meno responsabili, meno critici, meno capaci di operazioni ad alta integrazione, in termini di consapevolezza e maturità. Ogni istituzione, ogni gruppo organizzato, attiva meccanismi di questo tipo."
Leffetto setting produce una sorta di sospensione della realtà, come avviene in ogni contesto magico rituale, nellarea protetta del sacro, nello spazio circoscritto della trasformazione terapeutica: queste aree di non realtà fanno emergere modalità di funzionamento mentale infantili, arcaiche ed inconsce, difficilmente controllabili dalla coscienza e che si traducono in concrete difficoltà individuali, relazionali e di gruppo tra gli operatori.
"In quanto membro di un campo rituale, (loperatore) si trova perennemente e senza accorgersene in uno stato di leggera regressione transferale" , che lo conduce ad uno stato di inconsapevole distorsione emotiva e cognitiva; tanto più è forte la barriera tra il dentro ed il fuori istituzionale, tanto più amplificato sarà l effetto setting.
Stretto in una duplice morsa, tra la patologica collusione assecondata dallequipe curante e leffetto setting prodotto dallistituzione, il paziente troverà ben poche opportunità di ascolto e di comprensione; questi processi contribuiranno piuttosto ad acuire il suo senso di dispersione, di frammentazione e di non contenimento, con i conseguenti rischi di ricadute e di agiti.
Incontriamo inoltre un ulteriore elemento di problematicità nella costitutiva immaterialità che è caratteristica del contenuto di lavoro con i pazienti e che si traduce in conflitti, angosce, frustrazioni, aggressività e distruttività, allorché il gruppo non riesce a svolgere quel costante e difficile lavoro di co-costruzione, di integrazione organizzativa e di convergenza di significati, attorno alloggetto specifico del proprio lavoro; in altri termini, ciò che deve essere condiviso allinterno dellequipe non è esclusivamente loperatività, ma soprattutto il significato che essa assume in rapporto al compito e alloggetto del lavoro.
Come sostiene Montinari, listituzione potrà trovare una sua espressione realmente curativa e non patogena ed istituzionalizzante, nel dinamico equilibrio tra dimensione paterna e dimensione materna nelle loro molteplici declinazioni: distanza e vicinanza, severità e tenerezza, responsabilità e indulgenza, alterità e fusionalità, immedesimazione e obiettivazione etc.; tra gli attributi di marca paterna strategicamente prioritari che devono essere annoverati allinterno dellistituzione, vi è la costruzione concreta, strutturale, del concetto di altro: questo si materializza nella diversificazione dei gruppi di lavoro, delle persone addette a medesime funzioni, delle attività che vengono promosse, delle metodologie di lavoro e dei riferimenti teorici, facendo sì che lalterità costituisca uno dei princìpi cardine attorno a cui ruota lintera organizzazione istituzionale, che contempla una diversificazione antifusionale sulla base di una fondamentale omogeneità del gruppo di lavoro: una unificazione nelle diversità da parte dellistituzione, cui dovrebbe specularmente corrispondere una unificazione nelle diversità personologiche del paziente.
Come sappiamo, "la dimensione verticale (del simbolico e dellIo), quella per cui il mondo diventa rappresentazione (adeguata) e le idee diventano fatti (adeguati), è quella più carente nei pazienti psicotici e va trattata con estrema attenzione. . . E importante quindi che pazienti ed operatori vedano e anzi tocchino con mano il modo in cui i processi conoscitivo-decisionali avvengono e cioè si rendano conto di come lespressività non verbale, i bisogni, gli stati danimo, vengono raccolti, elaborati e trasformati in relazioni umane, decisioni, fatti."
Le potenzialità trasformative interne allistituzone non possono non riverberarsi sulle capacità trasformative interne del paziente: uno degli agenti fondamentali di trasformazione è appunto lorganizzazione; le tematiche organizzative sono tradizionalmente ostiche tra gli addetti ai lavori della psiche e vengono talvolta considerate con una certa supponenza, nella convinzione dell'esclusività e primato del mondo interno a fronte di una realtà esterna erronemente considerata quale variabile indipendente.
In realtà, moltissime istituzioni e con esse i rispettivi pazienti, sarebbero molto meno malate se solo fossero in grado di agire criticamente, con competenza e con lucida consapevolezza sulla leva organizzativa; con abbondante ritardo, anche nella nostra realtà (Angelozzi, 2005) inizia a farsi strada lidea che la filosofia organizzativa attraverso cui unistituzione opera, è decisiva rispetto ai risultati che produce: constatazione lapalissiana per qualunque realtà organizzativa evoluta, ma non per le troppo spesso cogitabonde, ruminescenti e pensose istituzioni dedite alla salute mentale nel nostro servizio sanitario nazionale.
Va da sé che un pensiero organizzativo orientato alle persone, che investe su di esse in termini di fiducia e di formazione, che stimola allinvestimento sulla mission del servizio e sul gruppo di lavoro, dove le relazioni di potere non sono formali e gerarchiche ma sostanziali e fondate sulle reali competenze, che è flessibile e sensibile ai cambiamenti, responsabilizzante, partecipativa e pluralista, contribuirà di gran lunga al benessere di chi vi lavora e di chi fruisce dei servizi dellorganizzazione; non è peraltro casuale che modelli organizzativi ispirati alla piramide rovesciata siano nati in realtà aziendali for profit: non certo per motivazioni umanistiche o filantropiche ma semplicemente perché tali modelli si sono rivelati massimamente produttivi.
In un contesto istituzionale di cura è indispensabile che le difficoltà e i momenti di empasse vengano affrontati in una logica preventiva, lavorando sugli aspetti strutturali dellorganizzazione ed incentivando la realizzazione nellistituzione di più percorsi, complessi, creativi, plurali, rispetto al puro e semplice contenimento dei pazienti; ciò può essere reso possibile anche da una maggiore vicinanza tra il luogo di insorgenza dei problemi ed il luogo della loro elaborazione di gruppo, evitando deleghe o rinvii alla direzione dellistituzione; è importante che i pazienti (ciascuno secondo le proprie forze) e i professionisti entrino in contatto e si approprino dei diversi momenti della vita istituzionale, da quelli più concreti e pratici a quelli elaborativi e decisionali, sulla base di una attenzione prioritaria agli aspetti di marca paterna (la realtà, laltro, lobiettività, gli aspetti strutturali. . . ).
In linea con quanto sopra, andrebbe seriamente valutata lipotesi di far partecipare al lavoro dequipe anche un rappresentante dei pazienti, nominato da questi ultimi ed in grado di offrire contributi costruttivi.
Una organizzazione istituzionale flessibile, realmente disegnata attorno ai bisogni dei pazienti, deve necessariamente affrontare la scottante questione del potere, ovvero reinterpretare in forme radicalmente diverse i rapporti gerarchici: una loro nuova rilettura, dovrà relativizzare gli aspetti di autorità e di controllo ed indicare piuttosto come priorità leffettivo contributo del singolo professionista, la sua competente assunzione di responsabilità, la forza delle sue idee e la sua determinazione a tradurle concretamente; una istituzione incapace di ascoltare chi vi lavora, ben difficilmente sarà in grado di ascoltare chi vi si rivolge in una condizione di bisogno.
Una organizzazione non verticistica ma orizzontale e strutturata come una rete integrata, implica necessariamente una diversa modalità di circolazione delle informazioni e delle idee, tale da consentire a ciascuno cooperazione, coinvolgimento e consapevole condivisione, in un clima di reciproca fiducia; il salto cognitivo ed organizzativo dellistituzione deve però coniugarsi con un altrettanto decisivo scarto epistemologico nella forma mentis di ciascun professionista: infatti, lavorare realmente in modo integrato allinterno delle equipe psichiatriche, presuppone un grande sforzo di scomposizione e ricomposizione dei propri assetti cognitivi ed epistemologici.
In tanto si pone la questione teorico pratica dellintegrazione, in quanto si è imposta, a sua tempo, una dis-integrazione nellorganizzazione dei saperi, delle pratiche, dei bisogni, delle conoscenze, delle competenze: lintero delluomo e dei suoi bisogni è stato diviso e separato dal metodo scientifico, attraverso le categorie conoscitive con cui questo ha guardato alluomo e ne ha fatto oggetto di studio; nello sguardo separante ed oggettivante del metodo scientifico, che cerca nelluomo non ciò che, aristotelicamente, "lo costituisce nella natura che gli è propria", quanto piuttosto il riscontro delle proprie categorie, luomo che la scienza osserva non potrà essere altro che una sua proiezione riflessa.
Istituiti i saperi sulluomo - e ancor prima, con Foucault, i reticoli di potere che generano i saperi - si istituisce luomo come oggetto di tali saperi nella cui natura è il procedere per separazione ed oggettivazione; separiamo dunque conosciamo: tale rimane ancora lessenziale matrice epistemologica di impronta cartesiana al cui interno agiscono e pensano molti dipartimenti di salute mentale, nonostante gli enormi contributi evolutivi offerti dallepistemologia del 900; pur con diverse opzioni, molte discipline continuano ancor oggi a muoversi allinterno di questo orizzonte separativo e disgiuntivo.
Il problema dellintegrazione pluriprofessionale potrebbe dunque essere paradossalmente ripensato come un falso problema, posto non tanto dai reali contenuti oggetto di osservazione, quanto dagli strumenti di conoscenza mediante i quali tali contenuti vengono osservati ed analizzati e per i quali tale problema non potrebbe non porsi: la non integrazione dei fenomeni osservati è già tutta inscritta nellordine degli strumenti di osservazione.
La non consapevolezza, nellambito dellequipe, di queste fondamentali implicazioni epistemologiche, può condurre a pericolose derive ideologiche e paralizzanti nella visualizzazione dei pazienti e nella lettura delle loro istanze, proiettando su di essi attributi che sono invece di pertinenza dei propri dispositivi interpretativi; si cade così in ciò che H. Von Foerster chiama "il vincolo del doppio cieco", tipico di chi, come gli schiavi nella caverna di Platone, non vede di non vedere.
Come sostiene Beneduce (2000), "il tipo di scienza della salute di cui si parla, non si preoccupa mai di far parlare di sé i sofferenti, ma ha già predisposto un intero dispositivo retorico nel quale catturare i soggetti della sofferenza. . . questo dispositivo onnivoro che è la retorica della scienza, la retorica aziendalistica che ha ricoperto i discorsi sulla salute di uno spesso strato di termini che dimenticano completamente i veri problemi"
Proclamare dunque la necessità di una integrazione "dopo" aver utilizzato statuti conoscitivi a cui è consustanziale una logica di disgiunzione e di separazione, comporta il rischio di velleitarismi che non conducono a sbocchi operativi reali, poiché tali logiche frammentate e frammentanti si sono da tempo incistate nello stile di pensiero degli operatori, sono diventate forma mentis interiorizzata e dunque anche consolidata e rassicurante; pur se in modo distorto, taluni automatismi teorici consentono infatti di padroneggiare, di afferrare, di con cepire ( nel senso etimologico di cum capere) ciò che ci sta di fronte, garantendo così un certo senso di sicurezza a chi li adotta.
Daltro canto, la conoscenza si dà solo come parziale, situata, prospettica; il nostro sguardo, proprio in quanto sguardo, coglie un versante a partire da una specifica prospettiva e la conoscenza della totalità ci è preclusa, se non come libero gioco immaginativo; questi tratti di relatività e di parzialità accompagnano ogni forma di conoscenza umana, pertanto si pone la questione dellunificazione del sapere dellequipe, del comporre, del raccogliere tenendo assieme (leghein) ciò che si offre come inevitabilmente separato e distinto.
Il luogo per tale composizione integrazione non può che essere individuato, in primis, nel nous, nel pensiero degli operatori e nella formazione di tale pensiero; formazione che dovrebbe condurre gli operatori (anche) ad una sorta di reciproco e solidale indebolimento delle rispettive identità professionali di appartenenza, sulla base del quale ciascuno con-cede ad ogni altra figura dellequipe credito e fiducia che, ancorchè condizionati, siano tali da consentire un mutuo e comune mettersi in gioco come persone e come professionisti; linvestimento simbolico ed il senso di appartenenza saranno ora giocati e messi in circolazione nel gruppo di lavoro come unità dei diversi, non più sulla categoria professionale di riferimento: ogni operatore dovrà essere in grado di pensarsi come parte (le proprie specifiche competenze, attitudini, abilità, conoscenze
), di un tutto ( lequipe, lorganizzazione ) dotato di un senso e di unidentità sovraordinate e sovraordinanti rispetto alla somma delle singole parti, ovvero queste esistono ed assumono senso solo in quanto in relazione a quello.
Come possiamo constatare, il tema della scissione (spaltung) compenetra e triangola la dimensione individuale e soggettiva del paziente, la dimensione conoscitiva ed epistemologica dei saperi (che guardano al paziente), la dimensione organizzativa ed istituzionale dei gruppi di lavoro, in una sorta di gioco di specchi ove risulta difficile dipanare il reticolo dei reciproci rimandi: chi genera cosa, chi collude con cosa; ladozione di un diverso stile formativo e di rinnovate prospettive epistemologiche, potrà contribuire al guadagno di uno sguardo unificante e compositivo, in grado di integrare le diversità, sia nel contesto organizzativo e del gruppo di lavoro, sia nei riguardi dei molteplici contenuti portati dai pazienti: solo attraverso la ricomposizione nella mente vicariante dellequipe di ciò che è scisso e separato nella mente del paziente, si potrà garantire a questi ascolto e contenimento ma anche progettualità e futuro.
Il lavoro istituzionale non può quindi vedere disgiunti due piani strutturali: lorganizzazione, da un lato; una rigorosa applicazione epistemologica sulle forme e sui contenuti della conoscenza, dallaltro: lazione su di una sola di queste variabili, a discapito dellaltra, difficilmente potrà condurre a reali cambiamenti istituzionali e a duraturi miglioramenti in termini di risultati di salute.
Il lavoro in psichiatria dovrebbe contraddistinguersi non solo e non tanto quale terreno di applicazione di teorie, quanto piuttosto come pratica di strategie (plurali) , certo mai neutrali, ingenue o acefale, ma costantemente animate da una sorta di motore interno di ricerca critica la cui funzione dovrebbe essere prerogativa dellepistemologia; tale disciplina si farebbe garante di una inclinazione interrogativa rivolta ai presupposti, ai contenuti, agli esiti delloperare psichiatrico: non è dunque la ricerca di vie applicative a teorie precodificate che si intende promuovere, quanto uno stile di lavoro che sappia porre dialogicamente e dinamicamente in contatto lempirico ed il teorico, limmanente ed il trascendente, i fatti ed i saperi, interrogandone le rispettive e reciproche congruità, coerenze e risultati, alla luce, in prima ed ultima istanza, del vissuto (erlebnis) dei pazienti e delle loro materiali e concrete condizioni di esistenza.
"Che la misurabilità possieda dei limiti, è stata la fisica del nostro secolo ad insegnarcelo."
H. G. Gadamer, "Dove si nasconde la salute"
"Spensi alluomo la vista della morte. [
] Poi lo feci partecipe del fuoco."
Eschilo, "Prometeo incatenato"
LA SCIENZA DELLASCOLTO: LA PSICHIATRIA BIOLOGICA
"Eventi biologici ed eventi psicologici sono collegati tra di loro in un rapporto di causalità circolare dove solo in condizioni estreme è possibile identificare un determinante "primitivo"."
Con questa inequivoca affermazione, il "Trattato italiano di Psichiatria" sembra voler chiudere una volta per tutte lannosa quaestio tra la psichiatria organicistico-descrittiva (modello biologico) e la psichiatria psicogenetica (modello psicologico), disputa che come abbiamo visto ha da sempre contrassegnato la storia della psichiatria, per approdare ad un approccio con-causalistico circolare.
Può apparire a prima vista paradossale che lenorme sviluppo delle tecniche di visualizzazione cerebrale e di indagine biochimica e neurormonale, anziché condurre ad un consolidamento dei modelli biologici di interpretazione della psicopatologia, apra invece ulteriori e più complesse problematiche: ancorché gli studi a livello macromolecolare sui recettori cerebrali, sui neurotrasmettitori e sui modulatori, abbiano permesso di giungere ad individuare alterazioni strutturali laddove il disturbo psichico si esprimeva funzionalmente, va evidenziato che la complessità della struttura del cervello umano è tale che allo stato attuale delle conoscenze è impensabile una esauriente descrizione del funzionamento cerebrale in termini di normalità e di patologia; se sono plausibili modelli descrittivi del funzionamento globale del cervello, non sono invece sostenibili eventuali correlazioni tra fenomeniche psicopatologiche specifiche e questultimo.
Preme sottolineare il fatto, non marginale a nostro avviso, che nei testi che stanno a fondamento della formazione medico specialistica in psichiatria, e a maggior ragione in quelli di psicofarmacologia, non abbiamo riscontrato argomenti tendenti a forme di riduzionismo organicistico-farmacologico né tentazioni in tal senso; ritorneremo su questo aspetto, ma vorremmo dargli fin da subito la giusta evidenza: nessuno psichiatra minimamente avveduto, si azzarderebbe oggi in Italia, a sottoscrivere la celebre affermazione di Griesinger (sulle malattie mentali come malattie cerebrali), quanto meno sul piano teorico e dei riferimenti disciplinari e comunque non in senso grossolano e unilaterale.
La nascita della psicofaramacologia come disciplina in parte autonoma, da applicare in clinica per il controllo e la cura dei disturbi mentali, risale agli inizi degli anni 50 e coincide con lintroduzione nella pratica psichiatrica della reserpina e soprattutto della clorpromazina, il primo neurolettico o antipsicoptico, un sedativo inizialmente in uso per pazienti da sottoporre ad interventi chirurgici in sala operatoria e che si rivelò di particolare efficacia anestetizzante; successivamente testato su pazienti affetti da disturbi psichici, si riscontrarono effetti quali diminuzione dellagitazione, delleccitamento psicomotorio, dellaggressività, senza però un corrispondente aumento della sedazione o della perdita di coscienza; parimenti, negli stessi anni (1951) vennero sintetizzati altri due composti, liproniazide e limipramina, che si rivelarono utili nel trattamento dei disturbi depressivi.
E interessante osservare come queste prime scoperte farmacologiche abbiano origine fortuita, nascono sulla base di eventi casuali o di felici intuizioni e comunque ciò che più conta è che, a distanza di tanti anni, rimane ancora oggi aperta in psicofarmacologia la questione del nesso tra struttura chimica ed effetti sulluomo, nonostante gli enormi progressi registrati nelle scienze di base (chimica, biochimica, farmacologia) e nella valutazione degli effetti dei farmaci utilizzabili in psichiatria clinica.
Le scoperte menzionate ebbero una portata rivoluzionaria e furono seguite da un periodo di ottimismo misto a trionfalismo terapeutico: per la prima volta alcuni farmaci si dimostravano realmente incisivi sul comportamento dei pazienti ed in grado di controllarne i sintomi; era finalmente possibile immaginare, disponendo di questi nuovi strumenti di cura, un radicale cambiamento delle istituzioni psichiatriche esistenti ed un superamento dei loro metodi "terapeutici", forse addirittura la loro scomparsa; si inaugurava così il periodo cosiddetto della "grande illusione": uno degli "effetti collaterali" dellevoluzione della moderna psicofarmacologia è stato probabilmente lavere alimentato aspettative idealistiche ed irrealistiche intorno alla possibilità di soluzioni "tecniche" semplici per problemi umani complessi. Non tardarono infatti ad arrivare i primi insuccessi terapeutici connessi alle scarse conoscenze circa i meccanismi dazione degli psicofarmaci (e ai talvolta devastanti effetti collaterali quali la discinesia tardiva), alla mancata adozione di standars obiettivi nel loro utilizzo e dunque alla effettiva capacità di calibrare i trattamenti farmacologici al singolo paziente; il manicomio incombeva immobile, a dispetto di ogni reale o presunto potenziamento delle misure faramacoterapiche e se da un lato la durata media delle degenze diminuiva, dallaltro si iniziava ad assistere al fenomeno della revolvig door (porta girevole), per cui alla pur forte spinta verso la dimissione, corrispondeva un rapido incremento dei re-ingressi. Due successive ricerche (Shepherd, 1957 e 1961), dimostrarono come talune modificazioni nei pazienti attribuite allintroduzione dei farmaci negli ospedali psichiatrici, avevano in realtà già iniziato a manifestarsi prima di tale introduzione; parimenti, laddove erano state avviate pratiche di riabilitazione e di apertura dei reparti prima dellavvento degli psicofarmaci, meno evidenti risultavano gli effetti di questi ultimi rispetto agli effetti prodotti nei reparti tradizionalmente chiusi.
Particolare significato riveste lepisodio che vide protagonista Sir Aubrey Lewis il quale, concludendo a Roma il I° Congresso Internazionale di Neurofarmacologia, affermò la necessità che per pianificare correttamente lorganizzazione degli ospedali psichiatrici, occorreva dare grande importanza alle strategie terapeutiche di riabilitazione più che agli psicofarmaci che "allo stato attuale hanno solo un ruolo accessorio". Non a caso, i derivati dellimipramina e dellisozianide sono stati gli unici farmaci utilizzati nel trattamento della depressione fino alla metà degli anni 80, allorché è stato introdotto nelluso clinico un nuovo gruppo di farmaci, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), denominati antidepressivi di seconda generazione.
Agli anni cinquanta risalgono anche le prime sperimentazioni dei sali di litio per il trattamento di pazienti affetti da disturbi dellumore di tipo bipolare, composto che viene tuttora utilizzato, nonché della mefenesina con cui venivano trattati i disturbi dansia.
Uno dei principali effetti dellintroduzione dei farmaci è legato al loro ruolo euristico, alla loro funzione di strumenti di ricerca che hanno consentito di chiarire importantissimi aspetti neurochimici o della trasmissione dellimpulso nervoso, della funzione di specifiche aree cerebrali, o ancora di comprendere le dinamiche dei recettori e dei meccanismi di trasmissione neuronali, consentendo così di costruire ipotesi che riguardano la patogenesi dei disturbi mentali. Ciononostante "tali studi non hanno fornito prove convincenti dellimportanza causale dei fattori biologici nella depressione e nella schizofrenia. La psicofarmacologia quindi non è stata in grado finora di fornire elementi decisivi per provare le ipotesi che rappresentano il fulcro dottrinale della cosiddetta psichiatria biologica." In realtà il miglioramento del sintomo non deriva in linea causale dal fatto che il farmaco agisce sui meccanismi biologici eziopatogenetici alla base della condizione morbosa; si assiste certo ad un miglioramento sintomatico, ma ancora poco si conosce intorno al complesso dei percorsi attraverso i quali i farmaci agiscono e dunque sui fondamentali processi patologici che danno origine ai sintomi: ciò che oggi il limite delle conoscenze definisce come causa, sarà a sua volta riconosciuto in futuro come effetto in ragione dellavanzamento delle ricerche neuroscientifiche. Non va sottovalutata la circostanza per cui quasi tutte le scoperte farmacologiche che hanno trovato applicazione in psichiatria, siano avvenute per serendipity e che determinati nessi tra il sintomo e la corrispettiva dinamica neurotrasmettitoriale e recettoriale, siano stati dedotti ex- adiuvantibus; in altri termini, il principio di causalità che viene applicato si può riassumere come segue: riscontrato di fatto (e per lo più, come detto, casualmente) lo spegnersi di determinati sintomi psicotici, per la maggior parte positivi, in conseguenza della somministrazione di determinate sostanze, si è inferito che i comprovati meccanismi biochimici sui quali il farmaco ha agito rappresentino la presunta causa dei sintomi medesimi; ora, ciò che è esatto o non ancora confutabile, non è necessariamente esaustivo di una verosimilmente complessa articolazione eziopatogenetica.
Come ci ricorda Aristotele nella Metafisica, il mondo del divenire contempla quattro diversi ordini di cause: "E ovviamente indispensabile lacquisizione scientifica delle cause originarie (giacchè noi affermiamo di conoscere un oggetto particolare solo quando reputiamo di conoscerne la causa prima ); e si parla di cause in quattro sensi, giacchè una di esse affermiamo che è la sostanza o essenza (difatti la ragion dessere di un oggetto si riconduce, in ultima istanza, alla definizione, e la prima ragion dessere è causa e principio), unaltra causa è la materia, ossia il sostrato, una terza causa è ciò che dà inizio al movimento, e una quarta causa è quella che è opposta ad essa, ossia il fine ed il bene (infatti è questo il termine di ogni generazione e di ogni movimento)."
Ora, della malattia mentale ci è nota, con Aristotele, la sola causa materiale, non il suo logos o principio o fondamento, non la dinamica della sua generazione, non il suo senso ultimo; risposte queste, che ricercherà ostinatamente e con i limiti che vedremo, il pensiero fenomenologico-antropoanalitico. Il principio di causalità che caratterizza la psichiatria biologica, ancorché esatto in termini di conferme sperimentali, dovrebbe tuttavia atteggiare i suoi assunti ad una costante messa tra parentesi, nella consapevolezza della provvisorietà e delle ricorrente controvertibilità degli stessi, talvolta addirittura della reciproca contraddittorietà dei suoi micro-paradigmi. Questo tipo di posizione è peraltro condivisa in ampia parte della psichiatria continentale; ma seguiamo ancora Aristotele: "Sapienza è la scienza dei principi e delle cause[
]Infatti mediante essi e non muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. [
] E allora evidente che occorre acquistare la scienza della cause prime: infatti diciamo di conoscere una cosa, quando riteniamo di conoscerne la causa prima."
Siamo in verità lontani dalla conoscenza di queste cause prime, anche se dobbiamo registrare a questo proposito significative differenze di sensibilità epistemologica tra gli approcci continentali e talune inclinazioni verso un estremismo riduzionistico e semplificatorio tipiche doltreoceano, propense ad appiattire tout court la schizofrenia allorgano: "A metà degli anni 90 studi neuropatologici hanno dimostrato chiaramente come la schizofrenia sia una malattia organica
le numerose dimostrazioni che attestano la presenza di gravi alterazioni neuropatologiche nei casi di schizofrenia lasciano adito a pochi dubbi." Ora, la presenza di obiettivi riscontri, corrispondenze e correlazioni tra sintomi e modalità del funzionamento neuronale, non può essere tradotta meccanicisticamente in una sequenza lineare e unidirezionale di causa effetto: anche ogni nostra emozione, come risposta a determinate stimolazioni ambientali, trova riscontro nellattività elettroencefalica e neurotrasmettittoriale. Sorge quindi il dubbio che agli interessi scientifici e terapeutici, si antepongano quelli dellindustria farmaceutica.
Al di là di prese di posizione aprioristiche e interessate, si può riscontrare in larghe componenti della comunità scientifica il riconoscimento degli attuali, considerevoli limiti degli interventi farmacologici: "Nonostante gli antipsicotici siano stati usati nella pratica clinica da più di quarantanni, molti aspetti importanti della loro farmacologia clinica e distribuzione metabolica restano ancora poco chiariti dalla ricerca
Un limite importante della terapia antipsicotica è rappresentato dalla risposta parziale di molti pazienti psicotici e dal fatto che alcuni non rispondono affatto o addirittura sembrano peggiorare con il trattamento neurolettico
Il riscontro di una limitata efficacia anche dei migliori farmaci antipsicotici, prescritti ed assunti regolarmente, ha riacceso linteresse sulla necessità di programmi di assistenza articolati e ben bilanciati per i pazienti psichiatrici cronici."
Tali considerazioni depongono ulteriormente per lassunto secondo cui nessuna strategia terapeutica può essere concepita o utilizzata separatamente, isolata da interventi di supporto globali che coinvolgono anche il contesto relazionale del paziente, ovvero nessuna strategia terapeutica può essere proposta come di per sé risolutiva; leffetto stesso dei farmaci non è disgiunto dal contesto entro il quale essi vengono somministrati, anzi questo va attentamente valutato sia relativamente alla loro prescrizione che ai loro effetti. Parimenti, non sarà esclusivamente la presenza di sintomi sensibili allazione dei farmaci ad indurre necessariamente la scelta di iniziare una farmacoterapia: questa sarà infatti frutto di una decisione che contempla anche altre variabili: la cultura complessiva del servizio, lo stile di lavoro dellequipe e del medico psichiatra, il contesto territoriale e famigliare
etc.; inoltre il trattamento psicofarmacologico non potrà essere prospettato sine die, ma sarà a termine e con periodici momenti di rivalutazione del rapporto costi benefici.
"Il trattamento farmacologico antipsicotico è un componente cruciale, ma incompleto e ampiamente palliativo, dellassistenza clinica globale di soggetti con diversi tipi di disturbi psicotici
Questi disturbi richiedono una farmacoterapia mirata combinata ad interventi psicosociali e riabilitativi che sono sostenuti dalla ricerca e dallevidenza clinica sullefficacia e sulla convenienza in applicazioni prolungate."
La risposta al trattamento psicofarmacologico non è mai neutra e standardizzata, dipende anzi da più variabili legate sia al meccanismo biochimico del farmaco, sia ai cosiddetti fattori aspecifici a cui abbiamo accennato e che possiedono in realtà una grande forza di influenzamento sugli esiti del trattamento; un paziente che nutre aspettative di miglioramento, ad esempio, ha certamente maggiori possibilità che queste si realizzino effettivamente rispetto ad un altro paziente "scettico" nei confronti dellintervento farmacologico; unaltra variabile aspecifica può essere individuata nel contesto del trattamento (Servizio psichiatrico, medicina di base
), oppure nei modelli teorico culturali degli operatori che somministrano i farmaci o ancora nel livello di adeguatezza che il paziente e i suoi famigliari hanno raggiunto nellutilizzo degli stessi. Il risultato dellazione farmacologica è dunque variabile dipendente di una molteplicità di fattori e non solo della specifica azione chimica esercitata dal composto, anzi, talora è addirittura indipendente da questultima: "La storia della medicina insegna come la prescrizione non consapevole di un placebo, nonostante essa dipenda dallignoranza del medico o dallarretratezza della ricerca medica, ha sempre avuto e continua ad avere un potere terapeutico notevole proprio grazie al fatto di essere una pratica non intenzionale. Si potrebbe pensare che luso consapevole del placebo da parte del medico non sia in grado di produrre effetti altrettanto marcati." E difficilmente immaginabile un medico che prescrive intenzionalmente un placebo e che al tempo stesso "creda" alla terapia, trasmettendo al paziente tale convinzione; la credibilità del medico e la fiducia nel trattamento, come abbiamo detto, sono condizioni essenziali per lottenimento di effetti terapeutici.
A nostro avviso, luso del farmaco non può essere disgiunto dal suo significato relazionale: il farmaco catalizza su di sé unazione chimica e simbolica insieme, che si esplica nello spazio della relazione terapeutica; il farmaco è un veicolo della relazione interumana, una sua ulteriore possibilità, allinterno della quale il primato deve restare al contatto, allascolto, al vissuto, ed è allinterno di una relazione interumana che il farmaco può assumere significato, specifico valore e probabilmente anche maggiore efficacia. "Riconosciuti come fattori essenziali per lesito dei trattamenti, i fattori aspecifici sono diventati elementi intenzionali del trattamento e, come tali, sono diventati oggetto di insegnamento."
E proprio a partire dalla qualità della relazione terapeutica e allinterno dell orizzonte di una Wirheit non ristretta solo alla diade medico paziente ma allargata allintero gruppo di lavoro istituzionale, che la compliance al trattamento può essere pensata; ancora una volta, non può essere sottaciuta limportanza dellascolto empatico: se è legittima laffermazione che lempatia (da sola) non cura, è altrettanto legittima la speculare affermazione secondo cui senza empatia e senza ascolto non si dà reale prendersi cura; lascolto empatico e lautentico interesse umano verso il paziente costituiscono il prerequisito per una solida alleanza terapeutica, per una compliance attiva e consapevole e non per un passivo adeguamento del paziente nel contesto di un asimmetrico rapporto di potere tra chi conosce ed il destinatario della conoscenza.
In una branca specialistica della medicina quale la psichiatria, dove il sapere medico è relativamente meno complesso e sofisticato rispetto alla medicina interna (si pensi ad esempio alla cardiologia o alloncologia) e dove la relazione col paziente non solo è parte integrante ma coincide con la cura, il concetto di compliance potrebbe suonare quasi pleonastico: ladesione al trattamento farmacologico non può che scaturire come spontanea emanazione della cifra relazionale tra medico e paziente, trovando in questa stessa relazione il suo senso ed il suo valore in una cornice in cui il controllo specialistico degli eventi patologici (entro i limiti che gli sono propri) si fonde con lincontro e linterazione umana. La compliance al trattamento, ladesione condivisa e partecipe alle proposte terapeutiche, non rappresentano un punto di partenza, bensì una mèta da raggiungere insieme al paziente, frutto di un lungo e faticoso percorso, di un vero e proprio lavoro; ladesione alle proposte di cura presuppone infatti un elemento decisivo ai fini del processo terapeutico, ossia ciò che comunemente viene definita coscienza di malattia: il vissuto profondo, consapevole, acutamente percepito di intensa sofferenza soggettiva che spinge alla richiesta di aiuto; tale stato danimo è difficilmente riscontrabile agli esordi della psicosi, anzi, uno dei significati dei sintomi deliranti ed allucinatori consiste proprio nel "difendere" lio da quella condizione di deflagrazione interiore caratteristica del vissuto psicotico. La malattia mentale, compromette così proprio i processi che portano il paziente a riconoscerla come tale; questa compromissione conferma e rinforza quella tonalità persecutoria ed invasiva (magari già massicciamente presente nella struttura psicopatologica di pensiero del paziente e che si manifesta nelle forme del delirio persecutorio), sotto la quale il paziente percepisce il medico, in quanto questi è agente di una azione di cura non desiderata, non richiesta, non percepita come necessaria o addirittura vissuta come rovinosa e catastrofica.
Molto probabilmente, la seduzione o la ripugnanza che suscita alternativamente la psichiatria, trova ragione nel suo essere, nonostante tutto e come già intuì Husserl, un sapere di confine, propaggine estrema di una scienza, la medicina, ancora satura di incertezze, di dubbi, di interrogativi, e dove, in ultima analisi, si incontrano un essere umano con un altro essere umano: è questa la dimensione ultima e irriducibile di fronte alla quale dovrà astenersi e sospendersi ogni ulteriore avanzamento della ricerca neuroscientifica. Posto davanti ad un proprio simile, sarà la persona del medico a scegliere, a decidere, a prendere posizione, come si usa dire, "in scienza e coscienza": dove il secondo termine sta ad indicarci, oltre ed aldilà delle tecniche e delle competenze specifiche, lindicibile ed inoggettivabile componente soggettiva e personale implicata nellatto medico e nelle parole dello psichiatra; ed è qui che lesercizio della medicina, come vuole Gadamer, si approssima allarte.
Atti e parole tuttavia a rischio, perché potrebbe essere forte la tentazione dell "etichettamento di un sempre più ampio numero di problemi umani e personali come problemi medici" , ossia rischio di patologizzazione, di psichiatrizzazione, di sanitarizzazione di condizioni di sofferenza invece propriamente umane; tale distorsione epistemologica e cognitiva, porterebbe inevitabilmente a separare gli aspetti chimico farmacologici dalla dimensione degli autentici bisogni alla base della richiesta di aiuto, dalla sofferenza individuale, dalla sua storicizzazione e contestualizzazione economico sociale. Ed è in questarea, segnata nel medesimo tempo dal rischio epistemologico ed ermeneutico, ma anche da una radicale esposizione umana, che si situa lascolto del delirio quale imprescindibile momento di comprensione e conoscenza della complessità psicopatologica, delle sue intime articolazioni, del suo radicamento nella vita e nella storia del paziente: ancorché fonte di inquietudine e di dolorosa com-passione questo atto di ascolto non può essere coattivamente eluso attraverso una forma di acting farmacologico, attraverso automatici annichilimenti chimici che, se per un verso possono consentire un più celere miglioramento delle condizioni cliniche (ma non comunque e sempre, come ampiamente dimostrato dalla pratica clinica), per un altro verso rischiano di occultare intere dimensioni della personalità del paziente e con esse le potenzialità di comprensione e di avvicinamento al suo mondo, rendendo in tal modo più remota la possibilità di risposte terapeutiche, soprattutto successive alla fase acuta, maggiormente mirate e personali. Se il delirio, come vuole E. Borgna, pone una domanda di senso o di controsenso dentro la vita del paziente e contiene in sé una funzione a suo modo ristrutturante, che tenta di riempire il vuoto aperto dalla lacerazione psicotica, può anche accadere che la nientificazione aproblematica del delirio tramite i farmaci porti via, assieme ai sintomi deliranti, lultimo esile filo che unisce il paziente alla vita.
Daltro canto, lo statuto "debolista" della psichiatria nel novero del complesso delle scienze mediche, confligge contraddittoriamente con limperante, pervasiva, prometeica mitologia della scienza e della cura, largamente invalsa nel senso comune e sostenuta da poderosi apparati economico industriali che su questa mitologia prosperano lucrosamente; "Gli straordinari mezzi tecnologici della medicina moderna inducono costantemente il paziente a vedere nel medico a cui chiede aiuto soltanto il lato tecnico della sua attività e ad ammirarlo in virtù della sua competenza scientifica. Lo stato di necessità spinge il paziente a sovrastimare le magiche capacità dellodierna tecnologia medica e a dimenticare che la loro applicazione richiede unattività assai esigente e responsabile, la quale si estende alla più ampia dimensione umana e sociale."
La scienza e le tecniche mediche, occultando lora della morte e tentando di forzarne il limite e il confine, insieme al limite ed al confine del tempo (ad es. con la chirurgia estetica), come nuovi Prometeo, sembrano sottrarre alluomo il pensiero della fine, la consapevolezza della propria finitezza e dunque lintimo legame tra la vita e la morte; e in questo senso si affiancano alla religione, con la quale condividono, come ebbe a considerare Freud, la vocazione consolatoria di dire agli esseri umani esattamente ciò che essi vogliono sentirsi dire: che saranno eternamente giovani, eternamente belli, eternamente in salute. Vocazione consolatoria che è insieme vocazione di inganno, induzione di cieche aspettative e di vane speranze; linganno appare però molto più accettabile, seducente e rassicurante della stessa verità.
Ora, a nostro avviso, questa mitologia è ancora ben lontana dalla reale possibilità di estendersi allarea delle discipline psichiche, di allargare la sua forza dattrazione alla cura del disagio mentale, non fosse altro che per la quotidiana, dolorosa evidenza delle materiali condizioni di esistenza dei soggetti malati; le aree di rischio sono altre, ne abbiamo fatto cenno e si riscontrano, ancora una volta ed in prima istanza, nelle pratiche più che negli sfondi teorici e formativi. Vorremmo tentare di sintetizzarle come segue: alla mitologia neo-prometeica propria della medicina interna contemporanea, si sostituisce tacitamente, sottotraccia, in forme inespresse, inter-dette e non consapevoli, una sorta di pseudo mitologia dellorganico che riemerge ogniqualvolta, di fronte allo scacco terapeutico, di fronte alle costanti difficoltà operative, di fronte a momenti di crisi ed empasse nella relazione terapeutica, si rende "necessaria" la scorciatoia assolutoria dellorganico, la semplificatoria via di fuga dal complesso verso forme di verbalismo organicistico e patologizzante (e talvolta anche vuoto), sul quale però il terapeuta ritiene di poter fondare la propria autoassoluzione, la sua legittimità a proporsi al paziente in chiave puramente tecnico sanitaria. La dimensione organica della psicopatologia viene così assunta, allinterno di questo processo di distorsione insieme epistemologica ed emozionale operata dal medico, quale pre-testo per abdicare la dimensione dellincontro interumano ed assegnare alla sola funzionalità chimica il destino della cura: il farmaco diviene così lassolutore simbolico. La circolarità simbolica ed ermeneutica tra il piano storico-esistenziale e psico-sociale, da un lato, ed il piano biologico-organico dallaltro, viene dunque spezzata.
Troviamo qui rappresentata una problematica che si incontra di frequente nel lavoro nei servizi psichiatrici e che non vorremmo omettere di segnalare: a fronte di corpus teorici e formativi comuni e condivisi, a fronte di paradigmi di riferimento ampiamente accettati e riconosciuti teoricamente validi e nei quali larga parte della psichiatria si identifica, assistiamo nelle pratiche operative a processi di approssimazione, di scadimento, quando non di autentica degenerazione; è soprattutto nella traduzione in atto di ciò che il retroterra teorico indica in potenza che incontriamo elementi di critica. Le ragioni di questo scarto sono molteplici e complesse ed in parte le abbiamo analizzate nel precedente capitolo riguardante gli aspetti istituzionali; occorre però interrogarsi ulteriormente sulla dinamica che conduce a questo vero e proprio cedimento epistemologico, a questa resa nei confronti della ipostatizzazione della psicopatologia; a nostro avviso una delle chiavi di volta di questo processo è da rinvenire nella rottura di un equilibrio tutto interno al terapeuta e al suo sguardo, al venir meno della sua capacità di auto-osservazione, di autocomprensione metacognitiva, di staccarsi da sé stesso, di lavorare su di sé; venendo meno questo tipo di attitudine, assolutamente indispensabile e conditio sine qua non del lavoro terapeutico, è fatale questa ricerca di un assolutore esterno: allora il farmaco viene prescritto meccanicamente, le visite vengono svolte frettolosamente e in modo routinario, lascolto dei pazienti diventa superficiale perché di scarso significato.
Tale attitudine autoosservativa ed autocomprensiva, oltre che essere curata e coltivata, dovrebbe parimenti essere condivisa al gruppo curante allargato, come abbiamo visto nella parte del presente lavoro relativa agli aspetti istituzionali.
La circolarità simbolico ermeneutica spezzata ad opera della deformante interpretazione della relazione terapeutica che abbiamo descritto, è quella stessa circolarità richiamata allinizio di questo capitolo e che ora vorremmo recuperare: "Modelli biologici e modelli psicologici si situano così a due diversi livelli ma necessariamente connessi tra di loro da un rapporto a doppio legame. Essi sono modalità diverse di descrizione dei medesimi fenomeni, ma le due modalità di interpretazione appaiono strettamente collegate." Lannosa questione riguardante la priorità eziopatogenetica in psicopatologia, ossia se lorigine dei disturbi mentali debba essere attribuita alle alterazioni del substrato oppure alle dinamiche della vita psichica, viene definita "un falso problema" poiché qualunque fenomeno psichico (avvenimenti, emozioni, interazioni, elaborazioni dellesperienza etc.), produce modificazioni biologiche obiettivabili a livello encefalico arrivando anche in alcuni casi a modificare la struttura stessa del cervello; laltissima plasticità della struttura sinaptica e recettoriale può essere infatti influenzata da svariati eventi ambientali e di matrice non biologica, soprattutto se tali eventi perdurano nel tempo. Gli stimoli derivati dalle interazioni psicosociali e dalle elaborazioni intrapsichiche, se si trasformano in condizioni persistenti di stress emozionale, possono indurre alterazioni strutturali più o meno reversibili, soprattutto se si verificano durante le fasi critiche dello sviluppo emozionale e cognitivo; a sua volta "ogni modificazione strutturale o funzionale del substrato encefalico comunque indotta, genera modificazioni nel comportamento, nei vissuti emozionali e nelle modalità di elaborazione intrapsichica dellesperienza."
Si può dunque assumere che nella gran parte delle situazioni cliniche lo scompenso psicopatologico, che si esprime in alterazioni emozionali e comportamentali, sia sostenuto da una modificazione strutturale che a sua volta segue ad una fase protratta di modificazioni biologiche funzionali prodotte dal persistere di stimolazioni di tipo psicologico, in un andamento dunque di reciproca causalità circolare allinterno del quale ciascun fattore di condizionamento influenza il successivo ed il cui momento di origine è alla nascita.
Alla luce dello stato attuale delle conoscenze, a fronte della complessa ed articolata eziopatogenesi dei disturbi mentali, dovrà corrispondere una complessa e articolata rete integrata di strumenti terapeutici di natura insieme farmacologica, psicologica e sociale, attraverso la quale essi interverranno ed incideranno congiuntamente ai diversi livelli di strutturazione della patologia; la plasticità della struttura encefalica si presta ad essere positivamente influenzata dal concorso dei diversi fattori terapeutici, soprattutto nelle fasi iniziali o comunque non stabilizzate della malattia.
Va da sé che se tale paradigma esplicativo di impianto psicobiologico e storico-sociale, rende ragione in modo relativamente esaustivo - e necessariamente commisurato allo stato attuale delle conoscenze - delle manifestazioni psicopatologiche; lanamnesi psichiatrica, intesa quale tentativo di ricostruzione delle sequenze generative-genealogiche della patologia, delle dinamiche della vita psichica del paziente in una dimensione storica ed insieme biologica, diventa, nel contesto teorico che abbiamo descritto, uno strumento di estrema importanza quale supporto e premessa insostituibile al processo diagnostico e alle correlate attribuzioni di senso.
"Lanamnesi, in questa prospettiva, non sarà una semplice cronistoria dei sintomi e delle crisi. Sarà, molto più profondamente, un luogo di giunzione tra storia di vita e storia clinica." La lettura dei sintomi non potrà non inserirsi allinterno della complessiva struttura intrapsichica e socio culturale di ciascun paziente, come prassi dinamica e complessa: questa capacità di connettere i sintomi alla storia di vita del paziente, alla sua cultura di appartenenza, alle sue relazioni famigliari e sociali, consentirà di spostare il focus dellascolto e dellattenzione diagnostica, dal principio della categoria al principio della dimensionalità, ossia di passare da una diagnosi categoriale basata esclusivamente sullapplicazione di categorie nosografiche, ad una diagnosi dimensionale, che oltrepassa i limiti della precedente e che offre superiori e più raffinati strumenti di lettura e comprensione dei casi più complessi ed è inoltre " più adeguata a [
] distribuire le malattie secondo variazioni quantitative allinterno di un continuum [
]di gradazioni che va dalla salute alla malattia."
Su un analogo piano di ricerca applicata al momento diagnostico in psichiatria, si collocano le analisi di Barron che vedono nella diagnosi un processo strutturato, "ma sempre poco prevedibile, che dà senso alla relazione clinica e prepara la vicenda terapeutica", uno spazio concettuale e operazionale allinterno del quale il paziente possa riconoscersi; Barron sottolinea come il processo diagnostico sia attraversato da un paradosso che ripropone uno dei motivi dominanti del capitolo precedente: "E sia nomotetico (cioè guidato da costrutti teorici generalizzabili che possono essere applicati a gruppi di individui che condividono caratteristiche comuni invariati), sia ideografico (cioè guidato dallattenzione ai particolari delle singole vite)." Il momento nomotetico ed il momento ideografico non possono procedere disgiunti: in quanto unica ed irripetibile, la personalità di un individuo non potrà essere compresa né attraverso la sola applicazione di leggi universali né attraverso i soli tratti individuali separati da costrutti descrittivi; si rende pertanto necessario il passaggio da un concetto riduttivo di diagnosi ad un concetto multidimensionale di assessment maggiormente legato alla dimensione temporale ed evolutiva, alla processualità ed al trattamento, e che designa liter che il paziente percorre assieme al terapeuta, "allo scopo di rilevare e circoscrivere lampiezza e lentità dei disturbi, attribuire loro un significato e individuare le possibili strategie di cui avvalersi per ridurre, modificare o eliminare, laddove possibile, la causa che provoca la sofferenza che il paziente stesso e/o i suoi famigliari lamentano."
"Dato che mi abbandono io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci
"
S. Freud, "Nuovi consigli sulla tecnica"
"I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio; diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia."
E. Facchinelli, "La mente estatica"
"
e il naufragar mè dolce in questo mare"
G. Leopardi, "Linfinito"
IL PROFONDO E LASCOLTO: LA PSICOANALISI
Il teatro psicoanalitico dischiude uno spazio in cui lascolto si muove sotto le sembianze di una fluttuante danza che ha per interpreti il paziente e l'analista: cambi di passo, di tonalità, di ritmo e di figure; un giostrare che, negli intendimenti di chi ne è protagonista, dovrebbe sfociare in un affrancamento, giammai definitivamente compiuto, dai fantasmi della nevrosi. Un mutuo ascolto che, nel medesimo tempo, è anche ascolto di sé da parte di ciascuno di essi.
Se lascolto in ambito istituzionale e lascolto clinico in senso stretto hanno polarizzato sulla figura del terapeuta la titolarità pressochè esclusiva dellascolto, con lavvento della pratica psicoanalitica non solo lascolto diventa prerogativa anche del paziente, soggetto e attore di ascolto delle parole - ma non solo di parole - dellanalista, ma la dimensione dellascolto sembra saturare la relazione danalisi sino a totalizzarla, sino a identificarsi senza residui in essa; anche la visione e la visionarietà, pur essendo potentemente presenti sulla scena analitica, vengono e-vocate, richiamate dal potere della parola. Linconscio si dà infatti come affare di parola e dunque come ascolto di questa sua parola; e tuttavia non si identifica mai con essa ma anzi, disloca di continuo il suo asse, è già da sempre eccentrico rispetto alla centralità del discorso della ragione e si manifesta sempre, come ebbe a dire Lacan, "come ciò che vacilla in un taglio del soggetto.": in una parola, linconscio si dà come laltro.
Il presente capitolo prende in esame gli scritti che Freud dedica in particolare alla tecnica e al metodo di indagine psicoanalitici; tali scritti si dipanano senza soluzione di continuità e senza un immediato intento sistematico, dal 1911 ("Tecnica della psicoanalisi") fino al 1937 ("Costruzioni nellanalisi"e "Analisi terminabile e interminabile"); larco temporale è lungo e soprattutto denso di eventi significativi per la storia della psicoanalisi e per la storia della scienza più in generale: basti pensare alla nascita, nei primi anni 30, della fenomenologia, al neopositivismo del Circolo di Vienna, al neokantismo, e sebbene Freud non disconfermi alcuna delle sue iniziali elaborazioni, queste tuttavia sono sottoposte ai forti influssi dello spirito del tempo. Lattraversamento di questi scritti ci offre una netta fisionomia dellascolto psicoanalitico e dellimpianto teorico che lo sottende.
In "Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico" (1912), Freud affronta il tema della tecnica mnemonica attraverso la quale lanalista dovrebbe essere in grado di ricordare le innumerevoli informazioni che emergono nel corso del trattamento; si rivolge quindi agli aspiranti psicoanalisti con le seguenti parole: "Questa tecnica è invece molto semplice. Essa respinge, come vedremo, tutti gli espedienti, persino quello di redigere appunti, e consiste semplicemente nel non voler prendere nota di nulla in particolare e nel porgere a tutto ciò che ci capita di ascoltare la medesima "attenzione fluttuante"[
] in questo modo [
] si evita un pericolo che è inscindibile dallapplicazione dellattenzione deliberata. Infatti, non appena ci si propone di mantener desta la propria attenzione a un determinato livello, si comincia anche ad operare una selezione del materiale offerto; se ci si concentra con particolare intensità su un brano, se ne trascura in compenso un altro, e si seguono nella scelta le proprie aspettative o le proprie inclinazioni. Ma appunto questo non si deve fare; seguendo nella scelta le proprie aspettative, si corre il rischio di non trovare mai niente che non si sappia già; seguendo le proprie inclinazioni, si falserà certamente, ciò che potrebbe essere oggetto di percezione. Non bisogna dimenticare che accade perlopiù di ascoltare cose il cui significato viene riconosciuto soltanto in seguito." Freud fonda questa posizione su una semplice considerazione: se al paziente si richiede di raccontare senza censure e senza critiche quanto gli passa per la mente, parimenti lanalista dovrà assumere una analogo atteggiamento nellascolto del paziente, facendo sì che la propria attenzione non sia vincolata dagli influssi della coscienza ma si abbandoni invece alla propria "memoria inconscia": "Si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché."
Secodo Freud, lascolto dei pazienti non deve venire condizionato da alcun principio di selezione e non deve subire interferenze "esterne" fintantoché il percorso di cura non sia concluso; lattività mentale dellanalista dovrebbe bensì concentrarsi sullinterpretazione di ciò che viene ascoltato, procedendo "senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti [
]egli deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso linconscio del malato che trasmette; deve disporsi rispetto allanalizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente.[
] Il medico deve essere opaco per lanalizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato."
Possiamo cogliere già da questi primi accostamenti testuali, uno dei grandi temi che non hanno cessato di attraversare lintera avventura psicoanalitica: quella sorta di sua tensione interna tra i linguaggi oggettivi, biologico-scientifici e matematizzabili propri delle scienze naturali, e quei tratti che appaiono invece prossimi alla sapienzialità e alloracolarità, al misteriosofico, al divinatorio; il tentativo di Freud di condurre questi ultimi entro i codici oggettivanti dei primi, di coniugare inferenze logiche con descrizioni di respiro mitologico, può essere compreso dalla necessità, per lui prioritaria, di assegnare statuto scientifico alla sua disciplina e di vederla riconosciuta nel suo impianto fondazionale secondo i canoni del suo tempo; non possiamo infatti dimenticare che Freud rimane pur sempre figlio della sua epoca, della Vienna dei primi del 900 e di una rigorosa e positivistica formazione medico neurologica.
Già Ricoeur indicò la natura bifronte del pensiero freudiano, energetico ed insieme ermeneutico, intento ad inserirsi nel corpo del sapere scientifico del suo tempo ma anche rivolto ad una sapienza mitico-poetica che ne contrasta lenergetica. "Più di ogni altra, la cosa difficile da pensare è lidea di una "energia che si trasforma in significazione". In questo ambito niente, di conseguenza, è acquisito e tutto, forse, è da rifare, con leventuale soccorso di schemi energetici molto diversi da quelli di Freud [
] il coordinamento del linguaggio economico e del linguaggio intenzionale è il grande interrogativo di questa epistemologia e se si ricorre alluno o allaltro lo si elude." Nella lettura di Ricoeur, il discorso freudiano esprime non tanto un dualismo, ma piuttosto una tensione, una relazione polare tra le primordiali energie psichiche ed il loro essere originariamente votate ad una ricerca di senso; un legame, quello tra lenergetica e lermeneutica, che richiede di essere ripensato nelle sue linee di continuità e nelle sue modalità di strutturazione, ma che non può essere misconosciuto. Attraverso la psicoanalisi, Ricoeur vede destituito il paradigma intellettualistico husserliano, centrato sulla percezione e sulla coscienza, rispetto al quale si assume ora il primato del sentire e del volere, del desiderio, che imprime allagire, volontario così come involontario, le sue nuove tonalità.
In questo doppio registro espressivo, in questa anima duale, segnalate da Ricoeur, riconosciamo una delle chiavi di volta dellintera vicenda psicoanalitica, ben sintetizzata nella morale del "Wo es war, soll ich werden" ("Laddove vi era les, deve subentrare lio") che esprime efficacemente la malintesa coscienza di sé e del proprio destino che ha accompagnato la psicoanalisi nella sua ricerca di "legittimazione scientifica", nel novero delle scienze umane contemporanee; ma su questo torneremo più avanti.
Concentriamoci ora sul doppio registro di ascolto che Freud ci propone, da un lato attraverso fredde ed asettiche metafore di neutralità: lo specchio, il ricevitore, il chirurgo "il quale mette da parte tutti i suoi affetti e persino la sua umana pietà nellimporre alle proprie forze intellettuali ununica mèta: eseguire loperazione nel modo più corretto possibile."; dallaltro proponendo delle immagini che sembrano addirittura radicalizzare lepochè fenomenologia e che si rifanno alla assenza di pregiudizi e di aspettative, alla capacità di lasciarsi sorprendere e di lasciarsi andare ad una attenzione fluttuante. Freud sembra promuovere una dinamica di ascolto modulata lungo un continuum in cui la freddezza si fa razionalità, la razionalità sospensione, la sospensione distacco, il distacco, infine, abbandono: un abbandono in cui, nellanalista, lascolto del paziente si allinea allascolto di sé, delle risposte del proprio inconscio alle sollecitazioni transferali (di traslazione) del paziente una volta che questi si sia legato alla persona del medico. Si tratta dunque di un abbandono intenzionato, finalistico e necessariamente ridondante, alla ricerca dellinterpretazione, strumento di elezione dellanalista, il cui oculato uso consente la riemersione e lelaborazione nel paziente dei contenuti psichici alla radice della propria sofferenza; dietro lo stimolo dell interpretazione, il paziente potrà riconoscere le proprie resistenze e renderle accessibili alla propria coscienza, mettendo in opera un lavoro in cui gli verrà lasciato"il tempo di immergersi nella resistenza a lui ignota, di rielaborarla, di superarla persistendo, a dispetto di essa, nel suo lavoro che si attiene alla regola psicoanalitica fondamentale."
Linterpretazione scaturisce da questo momentaneo abbandono, da questo ascolto di sé e delle proprie risposte emozionali operato dallanalista sulla sollecitazione degli stimoli transferali; linterpretazione tenta dunque di cogliere il significato latente delle produzioni psichiche del paziente e, nel venirgli comunicata da parte dellanalista, si apre allinconscio del paziente laccesso verso la coscienza; linterpretazione comunica uninformazione per far si che il contenuto inconscio si riveli e si realizzi, in tal modo, una trasformazione nellequilibrio interno delle forze psichiche tale da riavviare processi psico-evolutivi bloccati. Linterpretazione psicoanalitica sembra così rispecchiare paradigmaticamente la duplicità dellintero impianto freudiano: linterpretazione infatti prende forma allinterno di una logica causalistico lineare secondo la quale, aristotelicamente, date certe premesse -temporalmente remote ma "universalmente" valide (traumi infantili, pulsioni, rimozione, complesso edipico etc)- si realizzano determinati risultati (la nevrosi): "Tutte le rimozioni si producono nella piccola infanzia; sono misure difensive di un io debole ed immaturo. Negli anni successivi non si effettuano nuove rimozioni ma le vecchie si conservano e lio continua ad avvalersi dei loro servigi per padroneggiare le pulsioni [
] le rimozioni dipendono in tutto e per tutto dal rapporto esistente tra le varie forze in gioco e (che) tali rimozioni non possono far fronte ad un incremento della forza pulsionale."
Daltro canto, la nevrosi si presentifica e si vive nelle forme della traslazione sulla stessa scena analitica, ossia nello spazio intersoggettivo paziente analista, non suscettibile di misurazioni e di verifiche sperimentali, ed è dunque allinterno di tale dimensione intersoggettiva che ogni interpretazione può assumere senso e , in ultima analisi, impone i suoi effetti nella pratica clinica: costruzione di un senso che prende corpo nel qui ed ora della relazione, in uno spazio di esperienza che sembra sottrarsi ad ogni possibile presa e ad ogni possibile concettualizzazione. "Sì, egli ripete anche durante il trattamento tutti i suoi sintomi.. e la sua malattia non va trattata come una faccenda del passato, ma come una forza che agisce nel presente. Gli elementi della malattia vengono ad uno ad uno condotti entro lorizzonte e il campo dazione della cura e, mentre lammalato li vive come qualcosa di reale e di attuale, noi dobbiamo effettuare il nostro lavoro terapeutico che consiste in gran parte nel ricondurre questi elementi al passato."
Nondimeno, Freud adotta a fondamento del suo impianto una logica inferenziale in base alla quale, posti determinati esiti, si tenta di risalire alle relative cause e alla loro ricostruzione e rappresentazione per via indiziaria e logico induttiva; ecco dunque affacciarsi le metafore archeologiche e chimiche: "Lanalista deve scoprire o, per essere più esatti, costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste." Parimenti, se "analisi" significa, in analogia al lavoro del chimico, dissezione e scomposizione in ambiente di laboratorio delle sostanze reperite in natura, "I sintomi e le manifestazioni patologiche del paziente come tutte le sue attività psichiche hanno un carattere altamente composito; gli elementi di questa composizione sono in definitiva motivazioni, moti pulsionali."
Il distacco freudiano sembra così costituire la condizione di possibilità per innescare un effettivo processo di cura, per poter utilizzare al meglio e a vantaggio del paziente la dinamica della traslazione da questi attivata; solo attraverso il distacco, lastinenza, il non farsi coinvolgere nella emozionalità del paziente e dalle sue richieste di natura affettiva, lanalista potrà riconsegnargli, come appunto uno specchio neutrale, i contenuti psichici che prendono corpo nella traslazione: "Ci si guardi bene dal respingere la traslazione amorosa, dallo scacciarla, dal dissuadere la paziente; e ci si astenga altrettanto fermamente dal ricambiarla in qualunque modo. Si tenga in pugno la traslazione amorosa, ma la si tratti come qualcosa di irreale, come una situazione che deve verificarsi durante la cura e va fatta risalire alle sue cause inconsce, aiutando in tal modo a ricondurre alla coscienza e quindi al controllo della paziente gli elementi latenti della vita amorosa."
Ciò nonostante, come ogni disciplina indiziaria, anche la psicoanalisi, e con essa linterpretazione, si baserà sulla decifrazione dei segni, sullesaminare casi, situazioni, circostanze individuali e specifiche, su un metodo di conoscenza congetturale, aleatorio, intuitivo: di qui limpossibilità per Freud di ricondurre questi elementi ad un sicuro, organico e rigoroso apparato scientifico, con i suoi tratti di calcolabilità e misurabilità; linoggettivabile, il qualitativo, il casuale, il soggettivo, sfuggono da ogni parte a questo tentativo di cattura e depongono per un indebolimento dellapparato teorico freudiano.
Anche in analisi, si darà dunque conoscenza del paziente a partire dallesperienza che ne fa lanalista; questo aspetto esperienziale, di vissuto intersoggettivo, accomuna e avvicina fortemente, come avremo modo di vedere nel capitolo successivo, la pratica analitica a quella fenomenologico esistenziale; ma ciò significa anche che tale esperienza non è mai un incondizionato, un presupposto neutrale e aprioristicamente innocente, ma è già da sempre pregiudicato da ciò che la persona dellanalista è, dai suoi conflitti, dai suoi processi inconsci, dalle sue resistenze. Va da sé che, per neutralizzare lo psichismo inconscio del terapeuta affinché non interferisca negativamente sui processi transferali attivati dal paziente, Freud imponesse come regola ad ogni aspirante psicoanalista, il sottoporsi a sua volta ad analisi personale.
Ma ancora: esaudito lantico adempimento delfico del conosci te stesso, comunque questa esperienza nel qui ed ora che vivo con il paziente, rimane irriducibilmente la mia esperienza: è dunque un inesausto lavoro che procede per continue sottrazioni quello che tocca in sorte allanalista con sé stesso e che va intrecciandosi al lavoro che svolge con il paziente; in che misura la neutralità freudiana potrà farsi infine vuoto interiore che consente di rendere atopico lascolto, (temporaneamente) senza luogo e senza punti di appoggio? E dunque, capace di collocarsi nellinteriorità del paziente affinchè questi possa sentirsi veramente compreso nella sua profondità? Capace di donare al paziente quel sentimento di riconoscimento affettivo, di coglimento del suo mondo interno e della sua interiore esperienza che regala ad entrambi, paziente ed analista, momenti di intensa vicinanza?
Tale guadagno necessita labbattimento delle distinzioni tra manifestazioni esterne e lesperienza interiore, tra il comportamento che ci è dato di osservare e quale è invece sentito dal paziente, oltrepassando la logica del punto di vista che rimane sempre e soltanto nostro: "Quando possiamo ascoltare in un modo che ci permette finalmente di sentire le emozioni dei nostri pazienti, e di vedere le forze che ci hanno condotti a trascurarle, [
] si verifica un cambiamento dentro di noi. Nè noi né i nostri pazienti siamo più gli stessi."
Unite nellassegnare primato e centralità al paziente, ai suoi vissuti e al suo mondo interno, psicoanalisi e fenomenologia saranno accomunate anche dallancoraggio concettuale, da ascolti e sguardi comunque ben posizionati con cui entrambe, pur se in forme diverse (anche se meno diverse di quanto possa sembrare ad uno sguardo superficiale), tenteranno di rapire questi mondi, sancendo in tal modo linsufficienza e la parzialità del loro progetto; ma di questo, tratteremo in conclusione al presente lavoro.
Merita una particolare menzione a margine, loriginale e riuscita simbiosi tra psicoanalisi e neuroscienze realizzata, oltre mezzo secolo dopo Freud e con esiti ben diversi da quelli ottenuti dallillustre Viennese, da E. Kandel, premio nobel per la medicina nel 2000; la ricerca di Kandel, come Freud psicoanalista e neurologo, conferma il dato (cfr. capitolo precedente) secondo cui la psicoterapia produce effetti riscontrabili anche a livello dei circuiti neuronali mentre la mente viene a configurarsi come unespressione delle funzioni cerebrali. Muovendo da assunti di ordine generale secondo cui: "1- Tutti i processi mentali sono neurali; 2- Geni e proteine da essi prodotte determinano le connessioni neurali; 3- Lesperienza modifica lespressione genica; 4- Lapprendimento modifica le connessioni neurali; 5- La psicoterapia modifica lespressione genica", Kandel perora la causa di un intensificato interscambio tra psicoanalisi e neuroscienze, discipline che si sono fino ad oggi sviluppate in reciproca autonomia. Le conoscenze odierne consentono invece di considerare il sistema mente/cervello come entità singola indivisibile, "che può essere studiato da prospettive differenti. Per tale sistema, in cui si ha una complessità non lineare, non è più possibile usare un modello computazionale. Alterazioni molecolari e ambientali possono entrambe condurre a comportamenti sociali complessi se si consideri il sistema più completo formato da mente/cervello/corpo e ambiente circostante."
Analoghe considerazioni vengono argomentate nel bel libro del neuroscienziato indiano Ramachandran e, su un versante più squisitamente epistemologico - come vedremo nellepilogo del presente lavoro - da Varela/Thompson/Rosch : ci troviamo qui in una geografia conoscitiva che disegna una nuova scienza della mente che unifica biologia, neuroscienze, psicologia cognitiva, genetica.
Tornando al centro della scena analitica, vorremmo soffermarci sulle motivazioni addotte da Freud circa lutilizzo del lettino e della posizione seduta alle spalle del paziente; motivazioni invero curiose che sembrano voler spiazzare il lettore e indurre a pensare che a Freud stesso sfuggisse quanto risulti essenziale tale modo di posizionarsi che, a nostro avviso, qualifica lascolto analitico come nessun altro elemento del setting. Freud afferma che questa disposizione ha un significato storico che le deriva dalluso invalso nella pratica ipnotica da cui la psicoanalisi è derivata, ma la motivazione principale per cui tale consuetudine viene mantenuta è personale: "Non sopporto di essere di essere fissato ogni giorno per otto o più ore da altre persone." A questa sconcertante dichiarazione fa seguire scarne considerazioni che suonano però come tendenti a giustificare e a dare legittimazione con argomenti metodologici ad una scelta che, in realtà, consciamente e in origine nasce come del tutto personale (come Freud stesso riconosce) ed arbitraria; ma se volessimo seguire Freud nel solco da lui stesso tracciato, questo scarto di arbitrarietà, questa capricciosa crepa nel suo testo solitamente così fluido, rigoroso e lineare, non desta forse qualche sospetto? A nostro avviso questo momento decisivo del setting analitico costituito dal posizionarsi nel modo descritto da Freud, è frutto di una sua fondamentale quanto inconscia intuizione che solo apparentemente si impone per le motivazioni che egli adduce ma che forse il padre della psicoanalisi presagiva oscuramente, "come divinando da un fondo enigmatico e buio", rivelarsi gravida di significati per la pratica e per lascolto analitici.
Alla affermazione citata, il medico viennese ne fa seguire immediatamente unaltra che sembra confermare, anche alla luce della successione logica e grammaticale delle due proposizioni riportate, che non è la consapevole e deliberata opzione di metodo ad imporre le regole del setting, ma altro, una ancora lontana ed opaca percezione che fa sentire importante questo specifico modo di operare, ma della quale non si sa rendere pienamente ragione : "Dato che mi abbandono io stesso, mentre ascolto, al flusso dei miei pensieri inconsci, non desidero che lespressione del mio volto offra al paziente materiale per interpretazioni o lo influenzi nelle sue comunicazioni." . Allo stato regressivo facilitato dal lettino, è connesso lincremento della sensazione di atemporalità associata allinconscio e la maggiore naturalezza nellassociare liberamente da parte del paziente, mentre lanalista, dal canto suo, è liberato dalla tendenza a controllare il suo comportamento esterno sotto la pressione della continua osservazione; non essendo scrutato, egli potrà serenamente guardare dentro di sé ed acquistare più profondi livelli di introspezione e di comprensione dei contenuti psichici dellanalizzando.
La posizione "fuori della vista" dellanalista, assicura una sorta di privatezza che potenzia lascolto, lattenzione fluttuante, la ricettività, la reverie. Il particolare timbro di ascolto derivante dal setting psicoanalitico, ripropone ancora una volta tutta la problematicità della presa e della confisca del qualitativo nel quantitativo, dellirregolare nel regolare, del trasgressivo nel canone, dellirripetibile e personale nel normativo; in ultima istanza, il grande problema freudiano dellanomalo statuto di scientificità della psicoanalisi, problema che nella splendida e sfuggente figura dellabbandono sembra trovare una emblematica rappresentazione.
Come vuole Freud, nellascolto lanalista si abbandona al flusso dei suoi pensieri inconsci; nondimeno, il paziente potrà abbandonarsi al suono della voce dellanalista, offrendosi la scena analitica come possibilità di esperire l intimo nesso, irripetibile in altri contesti terapeutici, tra ascolto ed abbandono: le voci sembrano infatti depositarsi dentro i protagonisti dellanalisi e rimanervi con feconda intensità, intrecciandosi a ricordi, fantasie, immagini, sogni ad occhi aperti. Lanalista accorto, da parte sua, attraverso la voce del paziente, nelle inflessioni e nelle sonorità che questi esprime, sarà in grado di riconoscervi armonie, sfumature o disaccordi emozionali, sapendo inoltre utilizzare in modo mirato e consapevole la parte sonora della propria parola quando si rivolge al paziente. La voce si fa così strumento per lempatizzazione e per la conoscenza, tanto che la forma, il tono, larmonia delle sonorità, hanno spesso più importanza del loro contenuto semantico e lintreccio delle voci tra il paziente e lanalista contiene echi manifesti e latenti, tutti da ascoltare e interpretare. La sonorità verbale del parlato infatti, aderisce alle stesse leggi strutturali della musica e dispone di un enorme potenziale evocativo (basti pensare alluso che ne viene fatto nel trattamento dei bambini affetti da autismo).
I differenti significati che suoni e silenzi possono assumere nellora analitica, si offrono alla comprensione dellanalista: il silenzio può tradursi come resistenza, come opposizione al procedimento analitico, o come comunicazione, come ricomparsa nellora analitica di vissuti antichi non ancora esprimibili in parole; attraverso i suoni è resa invece più esprimibile una moltitudine di stati emotivi difficilmente comunicabili altrimenti, come rabbia, panico, estasi, dolore: in condizioni emotive di grande intensità, la complessa funzione dellio che è la verbalizzazione viene meno e si conserva solo la funzione più primitiva della produzione di suoni (ad es. il suono "mmm
", suscettibile anchesso di differenti letture). Il silenzio segue solitamente ad uninterpretazione e ne può indicare sia la correttezza che lerroneità: può essere un silenzio di ripensamento e di riflessione, di muta comunicazione con lanalista, o di chiusura e rifiuto, di risentimento per il non sentirsi compreso del paziente da parte dellanalista, per il vissuto di invasività e violazione patito dal paziente attraverso uninterpretazione magari fin troppo azzeccata, ma proposta in una fase in cui il paziente ancora non è in grado di tollerarla.
Nella prima parte del presente lavoro abbiamo analizzato la profonda connessione e affinità tra la dimensione vocale e lalterità: questa contaminazione la vediamo riproporsi nellesercizio psicoanalitico laddove questo, anche in virtù della postura sdraiata assunta dal paziente, postura che lo disloca dalle abituali forme della comunicazione facilitandogli il contatto col mondo del ricordo, del sogno, dellimmaginario, si avvicina agli stadi dellabbandono, dellestasi e attraverso questi, dellalterità. In questi luoghi, il potere simbolico e operativo delle immagini mitico-poetiche sarebbe tradito e snaturato nella sua originaria vocazione se si pretendesse di tradurlo in una decifrazione concettuale; il loro "pensiero" ne verrebbe fatalmente immiserito. Freud si imbatte in questo scacco della intraducibilità, ogniqualvolta pone la ragione discorsiva come orizzonte e riferimento ultimo del pensiero.
Ci troviamo qui in un esperienza di pensiero che è un rivolgimento della soggettività, uno spostamento dai territori della coscienza verso un indeterminato orizzonte di esperienza pre-conoscitiva in cui "pensiero, esperienza e sospensione formano un nodo irrisolto di cui continuamente ripetiamo limprescindibilità." E un tempo sospeso, uninterruzione, una distanza, che, lungi dallintrodurre storture nel normale fluire del tempo, ne ristabilisce bensì il fisiologico ed armonico ritmo: ristabilisce il tempo negato o perduto delle pause ad opera del tempo soggettivo, è la rimessa in moto del rapporto essenziale tra tempo e senso: "Lelemento curioso e paradossale è che questa uscita dallinerzia si dia nella figura dellintervallo: che per dare movimento allesperienza dobbiamo introdurre delle fermate. Ovvero una spaziatura. Mi sembra che qui emerga il legame tra distanza e ascolto nel senso che lo spazio vuoto che si ha bisogno di produrre è il modo con cui si cerca un avvicinamento, unintensificazione dellascolto." Ecco dunque limportanza, per lascolto, del silenzio. Ma questo tempo nullo del silenzio, questo tempo della sospensione, coincide con una perdita della coscienza, con unaltra grammatica del tempo e della identità, con una sporgenza del soggetto oltre sé stesso in una regione spaesante ed inesplicata ma forse suscettibile di aprire, oltre la coscienza, altri livelli di soggettività.
Di questa liminare esperienza ci viene offerta una magistrale descrizione ed analisi da Elvio Facchinelli, psicoanalista eterodosso e di lancinante profondità, nel suo libro su "La mente estatica"; lo psicoanalista milanese compie un lavoro di logoramento nei confronti delle illuministiche "difese" freudiane, proprio laddove Freud liquida come misticismo, inglobandolo in una visione patologica, ciò "che invece può essere considerato come momento di speciale densità e importanza, decisivo per la produzione del pensiero e insieme straordinariamente complesso e legato a motivazioni profonde." Il tempo dellestasi è il tempo della sospensione, il tempo "espanso
fluttuante in immobilità" che è preparato, atteso forse, ma non voluto; è un tempo che si contrappone al tempo della coscienza vigile, difensiva, che impone anzi uno scarto da questa sino allaccoglimento dell "ospite interno". Dopo "non cè bisogno di vigilanza. I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio, diventano voci singole con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, né attesa né timore. Soltanto meraviglia."
Analizzando numerose ricerche ed osservazioni in campo neurofisiologico e psicologico, Facchinelli rintraccia nellarea perinatale le radici ontogenetiche e filogenetiche dei fenomeni estatici in uno spazio cronologico cha va dagli ultimi mesi di vita del feto sino ai primi mesi di vita del neonato, periodo nel quale si viene costruendo il sistema emotivo- affettivo del bambino: "In questarea o campo perinatale [
] la " prospettiva soggettiva organizzante", il "Sé emergente", [
] è in costruzione. [
] Il distinto sorge dallindistinto e poiché questo passaggio non è istantaneo né totale, si avrà in ogni momento coesistenza delluno e dellaltro."
Parallelamente alle acquisizioni di un sé emergente, rimane presente ed attivo il versante dellindistinzione, versante che può tornare ad essere esperito nella vita adulta, a condizione che nel corso degli stadi infantili si sia realizzato compiutamente quel compito di contenimento, di "holding", di grembo post-natale come fase intermedia di protezione tra lo stare dentro al grembo e lo starne fuori. Al contrario, una delle cause di caduta nella patologia è da rintracciare nella carenza, labilità, non gradualità, inadeguatezza di tali funzioni.
Le esperienze estatiche hanno dunque un loro nucleo genetico nel periodo precoce caratterizzato da uno sviluppo infantile "sufficientemente sano" (per dirla con Winnicott); su questa base, possono essere esperite nelle successive fasi dellesistenza: "Non si tratta dunque di esperienze esclusive o estreme rispetto a quelle comuni. Lestremo, leccessivo, è disponibile in ciascuno di noi. Superando barriere interne ed esterne, può essere recuperato ed arricchito ecco il significato della ripresa in avanti."
In tal modo questa parziale perdita di sé, questo sentimento di spaesamento e de-realizzazione, questa oscillazione della coscienza vigile, si trasforma, attraverso lo scavalcamento delle difese dellio, in un guadagno: accolto lospite interno, il silenzio diviene percepibile, "ascolto dei rumori dal punto di vista del silenzio".
Lascolto psicoanalitico e lenigma dellepochè fenomenologica potrebbero, in prospettiva, trovare un punto di unione nellaporia del volere, nello "svuotamento o [
] liberazione dallintoppo coscienziale che abitualmente ostruisce e limita la nostra percezione." Lospite interno di Facchinelli si presenterebbe così come la parte di estraneità che è in noi, come luogo non assogettabile al rigore di matrice sia freudiana che husserliana, luogo di allentamento, sospensione e indebolimento; origine di un nuovo pensiero che proviene da fuori e che dilata ed espande le possibilità del pensiero soggettivo, revocando "
i codici che, invariabilmente, da sempre rifiutano o sequestrano questi tipi di esperienze." Tempo del silenzio che è tempo di ascolto, tempo che rompe lequivalenza metafisica tra il pensare ed il vedere, tempo di uscita dalla metafisica della rappresentazione: paradossalità dello sguardo mare che, guardando, sospende e disancora la vista, sguardo del ritiro e dellascolto, del silenzio e del nulla. "Se riuscissimo ad ascoltare dal punto di vista del silenzio, potremmo vedere altrimenti. Se riuscissimo ad introdurre un silenzio (un intervallo) nel linguaggio, potremmo avvicinarci ad una descrizione del pensiero."
Come ogni altro incontro interumano, anche lincontro psicoanalitico non potrà non rinviare al proprio sdoppiamento, proprio perché laltro, nella sua distanza, dice la mia distanza da me stesso, incrina le pretese egoiche, il mio usuale modo di vedere e di pensare, mi invita al silenzio, ad assumere unesperienza di me stesso muovendo dallombra che sono piuttosto che dalla luce che pretendo di essere. "Ora [
] nella pratica analitica la situazione estatica si delinea a volte in modo piuttosto netto e può essere riferita, nella ricostruzione contestuale, al periodo perinatale della vita, vale a dire a quella fase di parziale e relativa indifferenziazione o co-identità del bambino con la madre
"
Lirruzione del doppio è del resto testimoniata dalla stessa biografia di Freud, segnatamente nel controverso rapporto da lui intrattenuto con Fliess su cui Facchinelli si sofferma diffusamente: Fliess è lautentico daimon di Freud, il suo grande altro, colui che gli dà "il permesso di delirare [
] e fonte principale del nuovo sapere" , ispiratore e maieuta delle più originali e anticonvenzionali scoperte freudiane; colpisce come, nella minuziosa ricostruzione di Facchinelli, il rapporto tra Fliess ed il padre della psicoanalisi si configurasse a tutti gli effetti come un relazione amorosa nella quale, come nel mito platonico, ciascuno ricercava la parte mancante di sé: "Siamo quindi nellambito di un rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna e in esso affiora, come segno di compromesso tra tendenze allunità e tendenze allindividuazione, la figura del doppio, del gemello, dellalter." Lintera scienza moderna, non solo la psicoanalisi, può essere letta come derivazione dellinterpretazione filosofica e platonica dellamore: Penia e Poros, brama di conoscenza e via di ricerca volta a far uscire dalla-poria; ma leggere Freud a partire dallo sguardo di Platone significa riconoscere in Freud il compimento, il destino ed anche un primo tentativo di radicale oltrepassamento di Platone, iniziatore della strategia dellanima, padre di quel processo di psicologizzazione dellanima e della sua metafisicizzazione che, consolidatasi nel corso della storia del pensiero occidentale, ha fatto sì che oggi ci si avvalga spesso in modo ingenuo ed acritico di saperi psicologici e psicoanalitici dando per scontato che queste nostre "scienze umane" forniscano "un "obiettivo" resoconto della realtà e della verità in sé delluomo, e non (siano piuttosto) il prodotto, eminentemente filosofico, di un evento interpretativo archetipico della nostra cultura."
Questo prodotto, questi saperi della psiche hanno assunto su di sé, come aveva compreso Husserl, il peso del complesso dei nostri saperi scientificamente atteggiati, scontandone infine il costitutivo paradosso secondo cui occorre rendere oggetto di conoscenza quel medesimo principio che presiede ai processi di oggettivazione dellesperienza, rendendoli scientificamente indagabili.
Del resto, lo abbiamo visto nel prologo al presente lavoro, è ancora vivissimo in Platone come già lo era nella grecità arcaica, lantico legame tra delirio e conoscenza: delirare non è certo conoscere ma è senza dubbio fare esperienza di qualcosa; tantè che nel mondo greco due distinte figure erano deputate alle funzioni misteriche: loracolo preda della manìa, il sacerdote, lofficiante del dio, che sono posseduti dalla fonte divinatoria; e lesegeta, colui che arrischia linterpretazione, che trasferisce la parola del dio sul piano della conoscenza, che la conduce dal suo andar vano (vaneggiare) verso significati conoscibili. Il delirio è lintimo motivo della conoscenza: ma la condizione affinché questultima possa esprimersi è che venga ascoltata, che si presti attenzione al suo dire, meglio ancora, che venga ri-conosciuta. Freud e Fliess, delirio amoroso e delirio di conoscenza, "metamorfosi dei sensi, non loro abolizione, [
] sorta di doppio, insieme concreto e allucinato
". Accompagnandoci nellesperienza della creazione artistica e scientifica compiuta da Proust, Dante, Poincarè, Bataille, Facchinelli ne indica la fonte di ispirazione in un creatore "che non è più evidentemente un Dio esterno, ma una potenza interna, situata al di là dellio di facciata, di rappresentanza.", un creatore interno per il quale loggetto finale, il frutto dellatto artistico o scientifico che viene alla luce, non è esito di un lavoro o di una volontà intenzionale, bensì di un dono che sembra quasi imporsi alla coscienza soggettiva, avere carattere obbligato, cogente, che, paradossalmente, priva lartista (o lo scienziato) di libertà di fronte alla sua opera o scoperta.
Questi elementi di estraneità si presentificano con frequenza nella relazione di analisi e non possono e non debbono essere sommariamente liquidati nellambito del patologico; costituiscono invece motivo ricorrente in diversi momenti del percorso psicoanalitico e vanno quindi utilizzati in prospettiva terapeutica: così come gli incontri tra Freud e Fliess erano generativi di una straordinaria creatività intellettuale, parimenti la relazione analitica può, attraverso questi momenti, aprirsi a nuove possibilità di sviluppo e di pensiero.
Orbene: se linconscio apre la via verso quella dimensione di alterità dalla quale egli stesso è originato, come lo si potrà interpretare in termini non psicologistici, non naturalistici, non metafisici? Se, come crediamo, la psicoanalisi -e con lei, come vedremo, la fenomenologia- è coinvolta nel destino generale della ratio, ossia della metafisica, ne deriva che è ineludibile la fondamentale problematica del superamento, in chiave post-metafisica, di un pensiero che non potrà più basarsi sulla rappresentazione.
"Sino a quando la psicoanalisi avanzerà la tormentosa pretesa di legittimarsi "scientificamente", essa fallirà il suo compito storico, ovvero il suo destino di scienza di confine, nata nelletà del crepuscolo della metafisica, annunciato da Nietzsche, e volta allaurora di una nuova esperienza di pensiero [
] entro la quale luomo, il mondo e la parola vengono spinti a ridefinire la loro fisionomia e le loro relazioni." Possiamo tratteggiare un pista di ricerca, delle possibili tracce di percorso, ritornando al pensiero delle origini per recuperare uno sguardo sulluomo che è sguardo del mondo e dal mondo, sguardo che ci costituisce come esseri guardati allinterno di una esperienza cosmologica originaria mai completamente cancellata. In virtù della coscienza e del suo carattere "rappresentativo", luomo sè sempre posto di contro al mondo nellinesausto tentativo di oggettivare linoggettivabile, nella inconsapevolezza che "oggetto e soggetto sono poli di riferimento inesistenti, immaginari, che si costituiscono entro e per loperazione conoscitiva; non sono "cose" di per sé sussistenti che loperazione conoscitiva misteriosamente (cioè chissà "come", nessuno infatti sa dirlo) porrebbe in relazione."
Mentre nel pensiero delle origini "il cosmo non è ciò che poi dovrà divenire per la ratio calcolante, conoscitivamente atteggiata, non è linsieme "oggettivo" dei "corpi celesti", enti tra gli enti. Per il sapere delle origini il cosmo è il Mondiale che invisibilmente ci attrae nel rischio e ci circonda. Esso che da sempre silenziosamente ci sorregge diviene comprensibile solo se ci rivoltiamo nellAperto [
] se ci immergiamo nella nostra più interiore estraneità, o nella nostra più intima alterità." Nella visione del pensiero delle origini, linteriorità più profonda e lillimitato orizzonte del mondo sembrano voler coincidere ed aprire al pensiero vie impercorribili al cogito calcolante: lapertura è data nellinteriorità, il profondo nellestensione, lalterità nellipseità; i tradizionali riferimenti del cogito vengono disarticolati, le barriere poste dalle categorie della ragione sono abbattute. Il linguaggio stesso, infine, dovrà dimettere le sue stratificazioni antropologiche per arrischiare nuove vie: un linguaggio non convenzionale, non strumentale, non funzionale alla "comunicazione umana", ma che simbolicamente aduna e richiama il visibile e linvisibile, lapparenza e la sostanza, la morte e la vita. E a partire da qui che Lacan potrà tradurre il celebre motto freudiano ("Wo es war, soll Ich werden") con "Qui, nel campo del sogno, tu sei a casa tua", riconsegnando con questa interpretazione lIo (ma non dovremmo forse a questo punto, più propriamente, chiamarlo Sé?) al suo antico respiro cosmico, ad un pensiero dove ancora risuona leco della voce degli dei, al luogo originario e totale della rete dei significanti in cui luomo già da sempre dimora; ne esce così trasformata la tradizionale e consolidata interpretazione del motto, accreditata da Freud stesso, che vuole il territorio dell Es conquistato dallIo; non di conquista o di impossessamento si tratta, quanto piuttosto di ritorno alla fonte originaria dei significanti, di un ritrovarsi nella propria dimora presso la quale fin da principio si era.
Ancora sulle tracce di Lacan, Sini indica nella antica e paradigmatica figura della maschera, una delle archetipiche esperienze di trasformazione unificatrice: lalterità emerge come momento essenziale della connessione tra maschera, natura e uomo; la maschera compare nelle figure del nascondere e dello spaventare, ma è questultima funzione quella originaria mentre la prima è secondaria e derivata. La rigidità della maschera, la vuota fissità del suo sguardo, evocano il regno dei morti creando in tal modo un legame col mondo dei vivi: "Gli uni si trasformano negli altri, o più esattamente: la maschera determina una loro unione che si compie nellanima del portatore della maschera
" La trasformazione unificatrice della maschera incarna il fenomeno primordiale della dualità, richiamando il lontano alla presenza e spostando il presente nascosto in un altrove; gli dei stessi possono tornare a dimorare tra i mortali, rimanendo al tempo stesso lontani, distanti, mentre la maschera sarà sempre presente nelle decorazioni funerarie per sancire la connessione tra il mondo dei viventi e quello dei morti.
Le stesse due relazioni che la maschera intrattiene, lo spaventare ed il nascondere, trovano motivi di collegamento tra loro allorché evocano i regni dellamore (nascondimento) e della morte (spavento): "La notte della procreazione e la notte della morte forse non le portiamo in noi entrambe?" chiede Kerényi. Il gioco delle maschere è gioco di mimesi, di velamento, di avvicinamento e distanziazione, in cui lAltro è la Physis, è essa a venire evocata perché, dietro la maschera, si cela il suo sguardo: come ammoniva Eraclito, "La natura ama nascondersi" (fr. 123) ed il suo sguardo è solare e lunare, sguardo di ombra e di luce. Nella figura della maschera sembra potersi rappresentare il nesso e la trasformazione unificatrice tra la profondità dellinconscio e lapertura cosmica; è lintero senso cosmico dellesistenza che si manifesta attraverso lo schermo della maschera, invisibile gioco di forze che accade alle spalle della coscienza (guarda caso, nello stesso luogo dove è seduto lanalista
). Non possiamo non richiamare qui le riflessioni di Facchinelli intorno alla funzione di grembo svolta (solitamente) dalla madre nel periodo perinatale: esisto in quanto guardato ed in quanto custodito e contenuto da questo stesso sguardo; si incontrano forse qui macrocosmo e microcosmo, il tutto e la parte? Qui, dove luomo è guardato e custodito dal mondo, linfante è accolto dal calore materno, il paziente è ascoltato dallanalista.
"Dammi, ti prego
una maschera ancora! Una seconda maschera."
"
lantinomia sano/malato, centralmente necessaria nel campo clinico, resta del tutto estranea allinteresse dellantropoanalista, che si interessa dellumano indipendentemente dal giudizio di "sanità" o di "morbosità" e che ritiene pertanto i "mondi" del malato di mente, al pari di quelli del "sano", delle rivelazioni (
) del possibile delluomo."
D. Cargnello, "Alterità e Alienità"
LASCOLTO DEL MONDO : LA FENOMENOLOGIA
"Lesclusione della filosofia è funesta per la psichiatria perché per colui che non è chiaramente consapevole di una filosofia, questa si introduce senza che egli se ne accorga nel suo pensiero e nel suo linguaggio scientifico, e lo rende poco chiaro sia scientificamente che filosoficamente."
Alla citazione di Jaspers fa eco una recente affermazione dello stesso tenore, ad opera di Wallace, Radden e Sadler, riportata da Ballerini: "La scelta non è tra avere o no una filosofia della psichiatria, ma tra averla con consapevolezza critica o no: fra gestirla o esserne gestiti."
Alle spalle di ogni psichiatria lavorano una filosofia ed una antropologia, lavorano dei presupposti filosofici ed una idea di uomo: la psichiatria fenomenologica segna uno dei punti di più alta consapevolezza epistemologica e di nitore teoretico raggiunto dalle scienze psichiche del XX° secolo, segnalandosi al tempo stesso per il suo radicale autonomizzarsi dallimperante psichiatria di impianto naturalista.
Prima ancora di essere sguardo orientato allo psicopatologico e alla condizione di malattia, lo sguardo fenomenologico si rivolge alla condizione umana tout court, interrogandola nella sua essenza, nella sua intima natura, nelle sue condizioni di possibilità; con la fenomenologia, quei costrutti teorici fortemente impregnati di positivismo, di causalismo, di biologicismo, ancora tanto presenti nella psicoanalisi freudiana, vengono oltrepassati, per aprire uno spazio antropologico che più di ogni altro tenterà un avvicinamento a quel lontano modello di ascolto inaugurato nellantichità premoderna e che in questa sede abbiamo denominato lascolto delle origini: indicando lessenza delluomo nel suo essere costitutivamente ed originariamente aperto al mondo in una relazione di intenzionalità e di reciproca coappartenenza, si scorge infatti il legame unificante con quellantica visione ed il tentativo di ricomporre quel primigenio nesso tra uomo e mondo spezzato dalla modernità cartesiana.
La psichiatria fenomenologia muove i primi passi in una fase storica (il ventennio tra le due guerre), in cui la psichiatria tradizionale si è andata via via costituendo attraverso la disumanizzazione del malato di mente e attraverso la negazione dei contenuti umani che i pazienti, per quanto disturbati, non cessavano di esprimere. Prendendo le mosse dalle ricerche diltheiane e husserliane, Jaspers inaugura nel secondo decennio del XX° secolo quella che convenzionalmente viene denominata fenomenologia soggettiva, opponendo alle tesi di Griesinger ( secondo cui "le malattie mentali sono malattie del cervello"), laffermazione che "lo psichico non può comprendersi che attraverso lo psichico"; se già Hegel nella "Fenomenologia dello Spirito" indica la fenomenologia quale "scienza dellesperienza della coscienza", da parte sua Jaspers la intende come dottrina dei fenomeni soggettivi della vita psichica e nella sua "Psicopatologia Generale" del 1913 ne precisa laccezione, in base alla quale ad essa spetta " il compito di presentificarci chiaramente gli stati psichici come sono provati dai pazienti, di considerarli nelle loro relazioni di affinità, di delimitarli nel modo più rigoroso possibile, di distinguerli e di enunciarli in termini precisi."
Fondamentali per lavvio delle ricerche fenomenologiche, risultarono le straordinarie intuizioni di Dilthey: egli, in un articolo comparso nel 1894 dal titolo "Ideen uber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie", smentì lassunto secondo cui le discipline psicologiche possono trovare fondazione in principi metafisici, in quanto la vita psichica non è assimilabile o riconducibile, nella sua costituzione, alla ragione tout court e non è nemmeno "osservabile" a partire dai modelli mutuati dalle scienze naturali, come vorrebbe la psicofisiologia allorché si pone lintento di " spiegare i fenomeni subordinandoli a un sistema causale attraverso un numero di elementi univocamente determinati"; alla vita psichica non sono applicabili i metodi propri delle scienze naturali, perché il flusso della coscienza e lo scorrere della vita psichica articolano un continuum non afferrabile con ipotesi anticipatorie "esterne" a questi stessi eventi: tali eventi possono essere colti solo in quanto vissuti (erlebt) dallinterno.
A partire dalla specifica natura dei fenomeni, la coscienza li esperirà con modalità significativamente differenti: di qui la nota distinzione tra lerklaren proprio delle scienze della natura, ed il verstehen che pertiene alle scienze dello spirito; differente sarà dunque il rapporto che si viene ad intrattenere con il fenomeno studiato, differenti saranno gli statuti conoscitivi, differenti saranno i dispositivi logico razionali ed operativi che ne derivano.
Propriamente umano sarà ciò che viene interiormente esperito, ossia compreso dallinterno (erlebt), avvicinando la vita con la vita; il rigore fenomenologico è tale proprio in quanto ha ben chiara linsostenibilità della riduzione della psiche a oggetto: rigore è anzitutto riconoscere che il soggetto non è un oggetto, una cosa tra le cose, una parte di natura; il rigore si darà proprio nella fedeltà a questa differenza, nel saper cogliere lessenzialità di tale distinzione rispetto allesattezza nel senso della fisica.
Nella gnoseologia fenomenologica diltheiana non si potrà più parlare di un soggetto conoscente che è posto di fronte ad un (altro soggetto come) oggetto di conoscenza, in quanto ciascun soggetto entrerà a far parte, nellincontro con laltro, dellaltrui vita come accadimento che la segna e che trova, in questo esser segnata, la sua fonte conoscitiva; per Dilthey, è nella relazione di circolare reciprocità con il mondo ambiente e con i propri simili che lessere umano si costituisce nella sua personalità: in altri termini, il mondo diviene lelemento costitutivo e strutturante in relazione al quale è pensabile linsorgere della singolarità soggettiva.
In questo processo di ricorsiva co-generazione tra uomo e mondo, vengono superate le tradizionali categorie kantiane, analitiche e logico razionali, da cui pure Dilthey aveva preso le mosse, e la vita psichica viene espressa come un intero, una totalità, un insieme omogeneo di connessioni (Erlebnisse) dotate di senso ed espressivo di quei significati in cui si manifesta la vita umana.
Jaspers farà dunque tesoro del lascito filosofico di Dilthey e trarrà esplicita ispirazione da Husserl, arrivando a sovvertire le coordinate epistemologiche sino ad allora adottate dalle scienze psichiche di impianto anatomico fisiologico; se la spiegazione scientifica risolve il suo compito isolando e descrivendo sindromi, quadri e malattie ed ancora frazionando, sezionando ed assimilando i fenomeni analizzati alle proprie leggi e facendo dire alle cose ciò che essa intende che queste dicano, per contro lindagine fenomenologia è orientata a comprendere loggetto avvicinandolo in modo tale da poter cogliere le strutture che esso esprime, le figure di relazione che lascia scorgere, le trame di comunicazione che cede: solo attraverso il superamento della scissione tra soggetto ed oggetto, è praticabile unautentica comprensione delluomo nellambito delle discipline della psiche (psicologia comprensiva), nelle quali viene a realizzarsi "un insieme di relazioni, perché loggetto si risolve nel significato che esso assume per lio e lio nelloggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia."
Nella pratica fenomenologica jaspersiana, lesperire comprensivo dellaltrui vissuto è seguito da una fase nella quale il complesso della vita psichica individuale viene fatto risalire ad elementi causali, ma ciò avviene sempre allinterno di una prospettiva di superamento del dualismo cartesiano tra psiche e soma, tra rex cogitans e rex extensa, senza mai smarrire lessenziale assunto secondo cui lessere umano è pensabile solo come interezza e totalità; Jaspers ritiene che la psichiatria debba dunque definitivamente emanciparsi dai metodi conoscitivi delle scienze ad impronta naturalistica e dalle relative logiche oggettivanti: queste infatti, prigioniere dei loro stessi metodi, non possono che attenersi alle loro anticipate ipotesi senza porsi la questione della reale natura di quanto scoperto, se esso risponde effettivamente alle proprietà intrinseche delloggetto ovvero alle costruzioni ipotetiche anticipate (conoscenza als ob). Jaspers manterrà una posizione di costante diffidenza rispetto ad ogni forma di sistematica teorizzazione ed insisterà nel definire il suo indirizzo metodo e soltanto metodo.
Questa fase dellevoluzione del pensiero di Jaspers è altresì caratterizzata dalla consapevolezza e dalla presa datto dei limiti posti alla comprensibilità: si dà infatti un confine non oltrepassabile dal comprendere jaspersiano al di là del quale esso diviene ineffabile; come nota E. Borgna "il metodo fenomenologico jaspersiano (nella misura in cui richiede di immedesimarci nei vissuti dei pazienti interpretandoli in analogia ai nostri orizzonti di significato) fa considerare come "normale" ciò che ci appare comprensibile ed evidente, e come "patologico" (come psicotico) ciò che non ci è possibile rivivere e che ci appare incomprensibile."
Larga parte degli psicopatologi di ispirazione fenomenologica hanno sottoscritto, con Borgna, questa interpretazione del pensiero jaspersiano collocandola nella prospettiva del limite, dellaporia; a nostro avviso invece, questa apparente empasse nella riflessione del grande psichiatra e filosofo di Heidelberg, rappresenta uno dei fondamentali punti di forza del suo pensiero: il limite, infatti, non è tanto del metodo o nel metodo fenomenologico comprensivo; si tratta bensì di un limite ontologico, ovvero inscritto nellessenza stessa dellumano e che si concreta nella impossibilità di esperire lapprensione della totalità dellaltro; prima ancora di essere "il limite invalicabile del conoscere psicopatologico", esso è il limite di ogni esperienza interumana tout court. Ma, ancora una volta, perché limite? I successivi lavori filosofici di Jaspers stanno invece ad indicarci come, proprio in virtù di tale presunto limite, venga costituendosi il rimando ad una ulteriorità di senso e come ogni incompiutezza di senso nellapparire mondano si offra come "cifra" da trans-figurare; in questo limite è custodita la nostra possibilità di trascendenza che, come tale, ci viene consegnata.
La tanto invisa filosofia, bandita dalla psichiatria naturalistica griesingeriana, si ripresenta alla ribalta della psichiatria e con essa il rischio, per la psichiatria, di venire nuovamente dis-locata al di fuori del naturalismo in cui aspirano a situarsi tutte le discipline mediche: pur assegnando valore alla conoscenza del cervello, lo Jaspers psichiatra sosteneva lessenzialità della comprensione degli aspetti soggettivi nelle manifestazioni psicopatologiche; per tale comprensione gli strumenti della psichiatria biologica, eminentemente descrittiva dei comportamenti, si dimostravano del tutto inadeguati. Alla distinzione tra spiegazione e comprensione, potrà corrispondere lopposizione tra cause (di ordine biologico) e motivi ( propriamente psichici).
Nella ricerca di una autonoma fondazione delle scienze psichiche a partire dalla specificità della natura umana, sarà dunque necessario cogliere che "luomo, nella sua totalità, sta oltre ogni possibile e afferrabile oggettivazione. In quanto aperto alla comprensione delle cose, luomo non può essere ridotto a oggetto di studio, perché così si distrugge quella totalità comprensiva che noi siamo per fare emergere solo qualche suo aspetto oggettivo."
Se la cifra costitutiva dellumano consiste in questo essere totalità comprensiva, prima ancora della distinzione tra salute e malattia diventa centrale la relazione tra luomo ed il suo mondo, ovvero le modalità attraverso cui unesistenza si declina e si progetta nel mondo, la "struttura trascendentale, presente sia nel sano sia nellalienato, che condiziona il modo sano o alienato di rapportarsi al mondo. Lalienazione, quindi, non dipende da un contenuto psicotico, perché la struttura trascendentale è un vuoto e nudo reticolato da cui però dipende il significato che il mondo assume per ciascuna esistenza."
Jaspers ha così raggiunto la priori esistenziale, la visione del mondo a partire dalla quale è possibile cogliere la condizione di ciascuna esistenza umana, sana e malata, nelle sue molteplici possibilità di manifestazione; sono, queste visioni del mondo, questi a priori, categorie trascendentali che presiedono la formazione dei contenuti esistenziali e mondani, strutture costitutive delle intenzionalità, configurazioni normative ordinatrici di senso, che si incontrano e si riconoscono nella husserliana visione dellessenza (Wesensschau); il pensiero jaspersiano, attraversate le fasi della psicologia descrittiva (con Dilthey) e della psicologia comprensiva, ha dunque compiuto la sua parabola: parabola che vede al suo punto di inizio e al suo punto darrivo lattenzione allascolto del paziente, alla sua soggettività e alle sue esperienze interne.
Un ulteriore e decisivo passo nella direzione di una fenomenologia pura e trascendentale di matrice husserliana, viene compiuto da Ludwig Binswanger: egli tenterà di fondere in un inedito corpus teorico e metodologico, la fenomenologia trascendentale di Husserl e lanalitica esistenziale di Heidegger, aprendo la strada a quella che viene comunemente definita fenomenologia oggettiva; attraverso di essa, Binswanger intende accedere direttamente ai fenomeni psicopatologici considerandoli nella loro immediatezza semantica e nella loro originaria donazione e articolazione di senso, indipendentemente dal fatto che i fenomeni siano soggettivamente incomprensibili e dunque, differenziandosi dal precedente metodo jaspersiano. Prima di seguire questo ulteriore sviluppo binswangeriano, dobbiamo però intrattenerci brevemente su uno dei concetti fondanti dellintero impianto fenomenologico che figurava già, nuclearmente ed implicitamente, nel lavoro di Jaspers e che verrà posto compiutamente a tema con Binswanger: ci stiamo riferendo al concetto di intenzionalità, centrale nel pensiero di Husserl e coniato dal logico e psicologo Brentano.
Brentano indica nellintenzionalità la principale caratteristica dei fenomeni psichici; con intenzionalità si deve intendere il loro necessario riferirsi ad un oggetto immanente: non cè udire senza qualcosa di udito, temere senza qualcosa di temuto etc., ossia un contenuto a cui latto coscienziale si riferisce e che fa della coscienza non un oggetto, ma un in-tendere, un tendere verso qualcosa in cui la soggettività del soggetto possa esprimersi; esattamente in tale attitudine intenzionale consiste la peculiarità dello psichico, la sua vocazione alla trascendenza e al tempo stesso limpossibilità di una sua riduzione al fisiologico, alloggettività naturalisticamente intesa.
"La caratteristica delle esperienze vissute (Erlebnisse), che può essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia orientata oggettivamente, è lintenzionalità. Essa rappresenta una caratteristica essenziale della sfera delle esperienze vissute, in quanto tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità
(Essa) è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di indicare la corrente dellesperienza vissuta come corrente di coscienza e come unità di coscienza." Husserl riconoscerà così nell atto del "rapportarsi a" o "tendere verso", in una parola, nell atto del trascendere, lessenza della soggettività; tale atto, in quanto allorigine di ogni oggettivazione, non potrà essere oggettivato ma solo esperito (erlebt): ne uscirà una psicologia attenta a questo esperire, che descriverà (léghei) "ciò che appare (phainòmena) della soggettività, ossia gli atti del suo trascendere, le sue esperienze vissute (Erlebnisse) quali la percezione, il ricordo, lemozione, la volontà, ma non sul versante del contenuto percepito, ricordato, sentito, voluto, ma sul versante dellessenza (eidos) del come (Weise) si struttura lesperienza (Erlebnis) del percepire, del ricordare, del sentire e del volere."
In queste "strutture immediatamente evidenti" possiamo riconoscere il nucleo costante che presiede ogni possibile variazione fenomenica; "E unidea che si intuisce (intuizione eidetica), ma che, a differenza delle intuizioni della psicologia empirica, non è ineffabile, ma si può descrivere nei suoi termini costitutivi."
Nelloffrirsi allintenzionalità umana, il mondo incontra il corpo vivente(Leib), ovvero lintenzionalità si fa corpo come soggetto di vita (di contro al corpo anatomo patologico (Korper) oggettivato dalla fisiologia); attraverso il corpo vivente, potrò vivere lestraneità dellaltro nella co-presenza (Mit-da), potrò esperire laltrui presenza allinterno del mio campo percettivo per lanalogia tra le nostre rispettive egoità che rimandano all "unità della molteplicità aperta e infinita delle mutevoli esperienze proprie ed altrui" : lalter-ego comparirà nellorizzonte della presenza originaria dischiusa dal mio ego - dacchè mi è preclusa la facoltà di poter vivere io loriginaria presenza a sè stesso dellaltro - nella modalità dellappresentazione: nella appresentazione, ego abita lassenza di alter, ovvero, "nella misura in cui una presenza rinvia ad ulteriori unità di senso, la presenza appresenta."
La appresentazione è una figura di trascendenza ove lassenza (dellaltrui soggettività o di un contenuto conoscitivo) viene trasfigurata simbolicamente dalla potenza immaginativa per rispondere al bisogno della coscienza di giungere a compiute unità di senso; con la facoltà appresentativa, "il mio ego costituisce in sé lego che è per lui laltro." La comprensione dellaltrui soggettività dovrà dunque necessariamente passare attraverso il coglimento (lintuizione) della sua struttura di trascendimento, delle sue modalità di appresentazione, delle sue categorie di formazione di senso.
Se la cifra essenziale dellumano è rinvenibile nellintenzionalità, nella spinta a trascendersi in un progetto di mondo ed in questo realizzare il proprio e-sistere, la tradizionale divisione tra salute e malattia derivata dalla psichiatria classica viene a cadere, per dare luogo ad una diversa modalità attraverso cui la struttura ontologica a priori esprime il suo progetto esistenziale: venendo meno la norma in grado di discriminare la salute dalla malattia, in quanto sia il sano sia lalienato appartengono allo stesso mondo, sebbene con differenti strutture di modelli percettivi e comportamentali, lindividuale e peculiare articolazione della presenza si distinguerà in quanto funzione di un determinato progetto di mondo, ossia, di un certo modo di essere al mondo sorretto da una sua intrinseca normatività ed in grado o meno di partecipare al mondo comune (Mit-welt). "In questo modo lalienato non è più colui che vive "fuori dal mondo", ma colui che nellalienazione ha trovato lunico modo per lui possibile di essere-nel- mondo, essendo lalienazione nullaltro che lestremo tentativo del suo esserci di diventare, nonostante tutto, sé stesso."
Abbandonato ogni principio normativo estrinseco e metaindividuale, cadute le barriere tra il mondo del "sano" ed il mondo del "malato", Binswnager ascolterà ed analizzerà il linguaggio dei pazienti lasciandolo essere per ciò che dice e cercando di comprendere, in esso, le specifiche modalità attraverso le quali la mondanità viene investita di significato, i processi trascendentali che portano alla costituzione dei "mondi" dellalienazione; ma tutto ciò potrà essere scorto solo ricercando "il criterio di comprensione dellesistente, nellesistente stesso che, nel suo modo di vedere e di indicare il significato delle cose, offre da sé la chiave interpretativa della propria esistenza."
Nel comprendere lindividuale a-priori esistenziale che informa dei suoi significati le cose del mondo, nellintuizione dellunità trascendentale che presiede le forme con cui ciascun essere umano struttura il suo proprio modo di essere nel mondo, lindagine fenomenologico daseinsanalitica punta alla comprensione dellessenzialità (eidòs) dei fenomeni psicopatologici attenendosi rigorosamente ai dati di esperienza, facendo sì che le connessioni di senso che articolano il discorso psicotico abbiano a evidenziarsi.
Leffettualità di questi processi sarà giocata sullimmediatezza della relazione interumana con il paziente; questa "tematizza la prima regione conoscitiva di ogni articolazione psicoterapeutica ed in essa si è chiamati su di un piano semplicemente, ma profondamente umano, dalla sofferenza e dalla richiesta di aiuto dellaltro. La estraneità della relazione interpersonale, che è quella propriamente "medica" della riflessione diagnostica e terapeutica, costituisce la seconda regione conoscitiva nella quale il paziente perde la sua dimensione personale e si fa "oggetto" di indagine."
Nellincontro medico paziente ispirato ai principi fenomenologico daseinsanalitici, viene a realizzarsi una comunione di destino, una comunità duale nella quale il paziente "sente di non essere trattato come un "problema" obiettivo ed astratto, ma di essere accettato e capito nella sua sofferenza e nella sua disperazione."
Binswnager ha sottolineato a più riprese la fondamentale funzione conoscitiva assunta nella pratica clinica dallintuizione, dai sentimenti, dalle emozioni, dallempatia, e di come a tali fattori vada assegnata piena dignità epistemologica: si tratta di forme di conoscenza ante-razionali e metarazionali, che hanno ha che fare con il sentire, con il percepire, con il cogliere per via intuitivo empatica un clima, una atmosfera, unineffabilità icastica, nellincontro con quella diversa forma di esistenza rappresentata dalla psicosi nelle sue molteplici articolazioni sintomatologiche; la relazione con il paziente diviene così uno strumento conoscitivo di primaria importanza ed i contenuti presenti in essa saranno parte integrante del processo diagnostico: un esempio in tal senso ci viene offerto dal Praecoxgefuhl (sentimento precoce), termine coniato da Rumke, con cui si indica una sorta di vissuto di schizofrenia, di sentimento precoce di schizofrenia vissuto nellincontro interpersonale e che "non corrisponde a qualcosa di constatabile obiettivamente ma a qualcosa che si può solo sentire totalitariamente e atmosfericamente: a qualcosa di in-obiettivabile che è sospeso fra il paziente ed il medico."
Si tratta di un senso di insicurezza e di vuoto legato al difetto di reciporocità nella relazione, al sentimento di estraneità, distanza e rarefazione di contatto spirituale che si prova nellavvicinare un paziente schizofrenico e che sconfina in una sorta di frustrante immobilità relazionale ed affettiva, in una stagnante glaciazione dei flussi emotivi interumani che sembra ipotecare ogni possibilità di avvicinamento e comprensione; non possiamo daltro canto escludere, movendo da un punto di vista psicanalitico, che questa condizione di scacco relazionale sia connessa anche ad un atteggiamento difensivo da parte del medico, di fronte allenigmaticità e allincomprensibilità dellesperienza psicotica e schizofrenica in particolare, poiché i fenomeni psicopatologici sono sostanzialmente e prima di tutto dei disturbi che concernono lintesa interumana.
Ogni psicoterapia potrà dunque operare come tale, solo in una condizione di radicale e profonda apertura interumana instaurasi tra medico e paziente; Heidegger stesso, nonostante le severe ed infondate critiche allindirizzo di Binswanger, avrà modo di affermare che da una psicoterapia meramente tecnica "non verrà mai fuori un uomo più sano. . . al massimo, potrebbe risultarne un oggetto levigato." Ed ancora, a proposito della relazione medico-paziente, "In qualità di medico, ci si deve, per così dire, ritirare e lasciar essere laltro uomo. Questi sono modi di comportamento del tutto diversi, che, dal di fuori, non sono affatto distinguibili. . . Invece di parlare sempre solo di un cosiddetto rapportarsi io-tu, si dovrebbe, piuttosto, parlare di una relazione tu-tu, in quanto lo io-tu è sempre solo detto a partire da me, mentre, invece, in realtà, vè una relazione reciproca."
Negli stati psicopatologici ciò che appare distorto è proprio il rapporto tra io e gli altri, una disturbata forma del noi (wirheit) a cui eminenti filosofi hanno tentato di dare corpo e forma; tra questi, Martin Buber, il quale sostiene che "il fatto fondamentale dellumana esistenza è luomo con un altro uomo" ed aggiunge che allorigine, allinizio, vi è la relazione, promuovendo una sorta di ontologia dello "zwischen" (del "tra", dell "inter", dell "intermedietà"), sfera intermedia ove si realizza lincontro interumano e luogo in grado di trascendere le dimensioni del soggettivo e delloggettivo, la dimensioni della mera singolarità e dellalterità; luomo espone la sua umanità nel collocarsi in questa dimensione che gli è propria, in quanto la sua parola base è la parola coppia Io-Tu.
Sulla stessa scia si colloca Max Scheler, che analizzando con estrema finezza, nellalveo della filosofia husserliana, il sentimento di simpatia e mettendo in particolare rilievo la funzione trascendentale della vita emotiva, indica come il noi, nella sua essenza, preceda la singolarità dellindividuo, postulando il primato del con-essere rispetto alla singolarità; e ancora Karl Lowith, opponendosi alla concezione cartesiana di mondo, afferma il Mitwelt come mondo a priori partecipato e comune a me e a te e afferma essere proprio dellumanità delluomo, del suo essere propriamente tale, lessere originariamente Mitmensch, cioè a priori uomo con un altro uomo.
Il tema Io e laltro ha profondamente e severamente impegnato la riflessione di Binswnager, che, nel corso della fase più matura della sua ricerca (dopo il 1950), recuperata la lezione dellultimo Husserl, giunge a precisare il suo metodo come fenomenologico-daseinsanalitico: lontologia fondamentale di Heidegger risulta ora integrata con la fenomenologia della costituzione trascendentale di Husserl; "Ora lanalista deve tener conto non solo della forma della presenza quale empiricamente si offre nella sua "fatticità" psicopatologica, ma muoversi trascendendo questo piano in due direzioni. E cioè: da un lato analizzandola nellorizzonte di comprensione offerto dallo svelamento dellEsserci, dalla messa in luce dellapriori essere-nel-mondo secondo Heidegger; dallaltro, indagandola nel suo costituirsi secondo la dottrina dellintenzionalità di Husserl Szilasi. Lanalisi rivolta ad un malato di mente (e in particolare ad uno psicotico) non deve mettere in evidenza soltanto la difettività delle strutture conformi allumana presenza quali risultano rilevabili dal dispiegarsi dellesistenza, ma anche i momenti che mettono in questione la conseguenzialità dellesperienza esistentiva."
Se la psicopatologia e la psichiatria clinica hanno il compito di stabilire chi sia sano e chi malato di mente, con Binswanger solo la fenomenologia daseinsanalitica potrà indicare e dire, "con un linguaggio aderente allumana esistenza, in cosa il malato di mente, in quanto uomo, compreso nella sua essenza di uomo o umana presenza, si differenzia dalluomo sano". La psichiatria fenomenologia e daseinsanalitica rimane rigorosamente aderente alla clinica ed ai processi diagnostici e prognostici, muove dai "sintomi", dalle "sindromi" con cui il malato si propone, dal "quadro" in cui risulta inscritto; si riferirà costantemente a procedure di osservazione e comparazione, di analisi e di sintesi; ma in tutto questo, non cesserà di mantenere intatta lumanità del paziente, il quale non sarà mai ridotto a caso clinico perché le fondamentali strutture conformi allumana presenza sono comuni sia ai sani sia ai malati di mente e vanno dunque indagate a prescindere da qualsiasi pregiudizio sullo stato di sanità o di malattia, perché anche delle più conclamate e conturbanti manifestazioni della follia, può essere colto il senso propriamente e profondamente umano.
Ciò significa accettare, da parte dello psichiatra, lurto con lincomprensibilità (in senso Jaspersiano) della psicosi senza appiattirla sui riduzionismi causalistici ed organicistici, mantenendo unapertura verso il mondo dellaltro, nella convinzione che anche in tale nucleo di incomprensibilità si celi lessenza dellessere alienato; ed è soprattutto nellapproccio col paziente delirante o allucinato, ed al rischio dello scacco che vi è implicato, che lambiguità connessa con il fare lo psichiatra o essere uno psichiatra si manifesta massicciamente e con essa la possibilità di condurre ad effetti più o meno reversibili di obiettivazione. Ambiguità che abbiamo visto attraversare tutta la storia della psichiatria nel suo altalenante proporsi come scienza e che si traduce, per coloro che la esercitano, in unoscillazione tra lessere-con-qualcuno e aver-qualcosa-di-fronte e nel dubbio che il disordine dei disturbi mentali porti dentro di sé un intimo ordine rispondente a bisogni profondamente umani.
E su questo piano che la psichiatria fenomenologia abbraccia la pratica ermeneutica: intesa certo come Gadameriano circolo ermeneutico che vede in continuo divenire linterazione del tutto ( psicopatologia e riferimenti teorici) sulle parti (il paziente singolare), in un percorso circolare di storicizzazione ove il medico sa cogliere sempre, in ogni malato, qualcosa di nuovo; ma intesa anche come dialogo ermeneutico che si traduce nellincontro di due orizzonti, destinati ad essere trascesi in un nuovo orizzonte nel momento dellinterpretazione che condurrà ad un cambiamento di entrambi, poiché, in essa, si verifica un "aumento di essere".
Ancora una volta, con Gadamer, lessenza dellesame clinico non può essere che lascolto, anche in silenzio e del silenzio, ma in un nuovo comune orizzonte; nella percezione ermeneutico fenomenologica della Lebenswelt psicotica, le concrete modalità di esercizio della psichiatria possono trovare una decisiva trasformazione e dar modo al paziente ed al medico di incontrarsi su di un piano di rinnovata dialettica;
se il silenzio e limmobilità del corpo si materializzano selettivamente nella catatonia e nellautismo schizofrenici (che debbono tuttavia essere mantenuti distinti sul piano clinico), unascolto ermeneutico fenomenologico oltrepasserà il murato silenzio della parola e del corpo, per cogliere, al di là di esso, nei pazienti, "lesigenza, inespressa e disperata, di non essere lasciati soli e di essere accompagnati dal gesto di una persona vicina che si apra a sondare lincomprensibile."
Al di là del silenzio della parola, al di là dellimmobilità del corpo, non può dunque non essere raccolta, interpretata e decifrata, con metodo fenomenologico-analitico-esistenziale e tramite un atteggiamento di ascolto e di avvicinamento competente, la muta ed assordante richiesta di aiuto del paziente, la sua taciuta invocazione; ogni silenzio, sia che pertenga allarea della depressione psicotica oppure a quella della psicosi schizofrenica, custodisce un suo significato: esso va certamente letto alla luce delle categorie cliniche e come fenomeno psicopatologico che si traduce nella caduta della comunicazione; nondimeno, rimane il richiamo "esile e disperato di chi viva una esperienza psicotica" in quanto, prima di tutto, realtà umana. Lapproccio interpersonale con il paziente mirerà dunque a comprendere come egli viva la sua condizione di sofferenza e quali contenuti soggettivi informino le manifestazioni sintomatologiche della malattia.
"Da una fase "psicologica" di stare insieme, nellatteggiamento di classica accettazione, di voluta attenzione a quanto appare di personale, di specifico nel modo di essere del paziente, al "salto" in una coesistenza molto simile al "modus amoris" di Binswanger: una modificazione delle esistenze unificate dallo stesso destino, nellavventura psicoterapeutica." Sono condensate in queste poche righe di Barison, le linee essenziali di ciò che è psicoterapia fenomenologica; il grande alienista padovano così prosegue: "Lesistere del paziente viene tratto fuori sia dal banale di tutti i giorni, sia dalle condizioni di scacco psicologico, che ne rappresentano in fondo una variante di decadimento: e diviene esistenza nella luce fondante del non nascondimento dellEssere. E un modo di essere al mondo nuovo, sia per il terapeuta che per il terapeutizzato. I significati che sensibilmente il terapeuta coglieva nei comportamenti e nelle espressioni del paziente, ora diventano transumanati, per così dire, dalla luce ineffabile dellEssere. E qualcosa che richiama la messa in opera della verità della concezione heideggeriana dellopera darte." Le parole di Barison testimoniano magistralmente la grande partecipazione interiore ed il senso radicale della propria presenza nellaltrui sfera esistenziale; la psicoterapia viene così a configurarsi non tanto come padronanza di tecniche, quanto come apertura esistenziale in grado di cogliere e con-vivere eventi in cui laltra esistenza è coinvolta, consentendole in tal modo di incrinare la crosta autistica della psicosi. Al contempo, anche la psicopatologia moderna nasce e si sviluppa quando la psichiatria non si limita ad osservare il paziente, ma comincia ad ascoltarlo; compito dello psichiatra non sarà più solo quello di osservare e descrivere, ma soprattutto di ascoltare e comprendere, poiché il paziente "non ha sintomi, ma vive delle esperienze." (Scharfetter)
La psicopatologia fenomenologica diviene un metodo di esplorazione dellincontro con il paziente e lascolto di quanto egli riesce a comunicare, allinterno di un rapporto basato costantemente su di un profondo rispetto per laltro e capace di sospendere, anche per lungo tempo, ogni pretesa esplicativa, risulterà discriminante per il processo di diagnosi e terapia. Il senso dellascolto fenomenologico è efficacemente espresso con queste parole di G. Gozzetti: "Ascoltare, sentire e descrivere in collaborazione con il malato, cercare di cogliere un senso seppur provvisorio da comportamenti che, a prima vista, possono sembrare assurdi, questo è lo scopo della psicopatologia o, se si vuole, dellermeneutica psicopatologica, col suo faticoso cammino della comprensione, tornando e ritornando come in un cerchio su di un tema, riprendendo ogni volta, con ulteriori possibilità di intravedere sempre di più(
)Si tratta di un esercizio faticoso: non bisogna credere che si possa ricorrere alla scorciatoia di un cogliere immediato(
)nellapproccio psicopatologico, che mira ad un continuo comprendere non esaustivo, va fatto uno sforzo metodologico per evitare ogni illusione di raggiungere una conoscenza completa(
)La psicopatologia gira attorno al suo oggetto cercando di coglierne il significato, e quindi più con lascolto che con lo sguardo, sapendo in anticipo che mai arriverà ad una conoscenza totale."
La psicopatologia fenomenologica interpreta i fenomeni che osserva e che lascia comparire nella relazione, in una dimensione di ascolto attenta allintimo esperire delle persone; prima ancora che sintomi diagnosticamene utili, tali fenomeni saranno bensì letti come "segnali" (Ballerini) che rinviano a particolari modi di essere della soggettività; lo spostamento terminologico denuncia e porta con sé una raggiunta consapevolezza che nelle categorie psicopatologiche non potrà mai risolversi il singolo individuo; ancora una volta, il medico si troverà esposto a quel gioco dialettico di rimandi tra figura e sfondo, dove laltrui singolarità è colta, capita ed intuita, ma, nel medesimo tempo, riconosciuta inafferrabile nella sua totalità.
Latteggiamento fenomenologico ci fa quindi innanzitutto conoscere una serie di frammenti della vita psichica realmente vissuta dal paziente; il lavoro dello psicopatologo inizierà da questi frammenti esperienziali, per tentare di comprenderli non solo in senso statico ma nella loro articolazione generativa, immergendosi negli stili di vita, nel mondo dei valori, nella sfera socio culturale della persona che ha di fronte, alla ricerca non solo di significati, quanto piuttosto di percorsi di senso. Nella concreta pratica clinica, le conoscenze psicopatologiche consentiranno al terapeuta di parlare al paziente in modo tale che questi senta che il medico tenta di prenderne il posto, di fungere per lui da io narrante ausiliario, di comunicare al paziente lo sforzo di percepire cosa prova lui: è solo dalla condivisione di questi pur esili fili di intersoggettività che può nascere unalleanza terapeutica.
Il metodo psicopatologico fenomenologico, non assolutizzando il sintomo, lo riconduce alla sua storicità, alla vicenda esistenziale del paziente, alla sua singolarità, in una comprensione non di superficie o esclusivamente focalizzata sulla raccolta dei sintomi e dei comportamenti anomali, ma che nasce da un ascolto attento e da uno sguardo non frettoloso; rifuggendo dalle certezze del categoriale, il terapeuta tenterà di rinvenire nei vissuti del singolo, operando empaticamente, tracce e fili di condivisione. Ma ciò richiede, da parte del clinico, una messa tra parentesi del furor sanandi, la neutralizzazione del proprio immediato impulso alla cura, per capire, prima, con-chi-si-è, sapendo attendere che si sviluppino nella propria interiorità quegli erlebnis, quelle sagome emozionali che lincontro col paziente ha suscitato.
"
ma se il fenomenologo è esercitato ad ascoltare il suo personale, anche se saltuario, disagio, alcuni elementi fisiognomici del malato possono stimolare la sua prassi mimetica a ripresentificare il malato stesso nella sua coscienza, "mettendolo in scena" e quindi offrendolo, sia pure indirettamente, alla sua visione eidetica. Tutto questo avviene, in una temperie di grande coinvolgimento affettivo
Abituato comè ad ascoltare il discorso delle cose, il fenomenologo si ritrova avvantaggiato nellinserirsi nel discorso che avvolge il malato. Egli pratica lascolto partecipante per dargli la sensazione della vicinanza emotiva e interviene con la parafrasi per dargli la sensazione della vicinanza ideativi. Così il malato finisce di sentirsi solo e sente il calore della comprensione."
Abbiamo sin qui tratteggiato solo alcuni tra gli elementi salienti dellindirizzo e del metodo antropo-fenomenologico, attraverso una esposizione necessariamente enunciativa più che argomentativa, cercando di esaltarne soprattutto le due topiche fondamentali: la relazione uomo-mondo e la priorità assegnata ai vissuti soggettivi, al mondo interno del paziente e lasciandoci guidare anche dalla voce di taluni dei suoi più accreditati esponenti; non vorremmo in questa sede insistere ancora una volta sugli indiscutibili meriti scientifici e storici, ma ancor prima, umani ed etici, da ascrivere al pensiero fenomenologico: si tratta di un patrimonio conoscitivo e pratico ormai consolidato e ampiamente riconosciuto.
Più interessante ci appare invece il tentativo, muovendo dalle posizioni più avanzate guadagnate dal pensiero fenomenologico contemporaneo di impianto daseinsanalitico, di cogliere in essa alcune linee di criticità (molte delle quali-peraltro- ad esso stesso ben presenti), di penetrarle, di abbozzare dei possibili percorsi di superamento; è a nostro avviso necessario, in altri termini, che il metodo fenomenologico-analitico-esistenziale si ripensi per oltrepassarsi. Tale esigenza è del resto fortemente sentita e testimoniata da D. Cargnello, nelle parole che seguono: " E per linsoddisfazione sempre più viva circa lincerta e comunque ambigua fondazione della loro disciplina che (
)sempre più numerosi sono stati gli psichiatri che hanno ritenuto utile di andare a cercare nelle lezioni dei filosofi ausili e suggerimenti. Gli alienisti vanno chiedendo ai filosofi di fornire loro delle enunciazioni che siano davvero adeguate alle manifestazioni con cui si esprimono i malati di mente, nella persuasione che il piano conoscitivo e il linguaggio della psichiatria clinica, (
) siano sostanzialmente non del tutto idonei a cogliere e ad enunciare lessenza propriamente umana delle manifestazioni psicopatologiche." Ed ancora, più avanti leggiamo: "Pare a chi scrive che solo attraverso un protratto colloquio tra filosofi, da un lato, ed alienisti, dallaltro, si potrà pervenire a quella trasparenza di enunciazioni di cui abbisogna urgentemente la psichiatria, una disciplina oggi forse come non mai disposta a ripensarsi ab imis."
Nel transitare alcuni dei luoghi che segnano il profilo del metodo fenomenologico, ci siamo imbattuti in alcune antinomie che vorremmo recuperare: spiegare versus comprendere, cause versus motivi, avere-di- fronte versus essere-con-qualcuno, fare (lo psichiatra) versus essere (uno psichiatra); a queste antinomie ne intendiamo aggiungere, sulla scorta di Cargnello, unultima: nella terminologia di tutte le branche mediche, viene di gran lunga usato lausiliare "avere" (ad es. Tizio ha una polmonite, ha una frattura, ha la febbre etc.); al contrario, in ambito psichiatrico, è pressoché esclusivo lutilizzo dellausiliare "essere": Tizio è schizofrenico (e non "ha" una schizofrenia), è depresso (e non "ha" una depressione, etc.). Il linguaggio si rivolge allessere di chi è malato, non già al suo avere; Dunque, avere una psicosi versus essere psicotici.
Lambigua natura della psichiatria che lamenta Cargnello, costituisce, come abbiamo già osservato, una delle sue cifre essenziali ed è già da sempre inscritta nel codice genetico della scienza contemporanea; le ambiguità e le ambivalenze che abbiamo ripetutamente evidenziato, affondano le loro radici nei dualismi che hanno accompagnato gli sviluppi del pensiero scientifico a partire da Cartesio (ma fondamentalmente, ancor prima, da Platone) e dalle metodiche che ne sono derivate, fondate su processi di secondaria modellizzazione e sulla separazione del reale in rex cogitans e rex extensa; i pendolari movimenti che scorgiamo nelle teorie, nei metodi e nelle prassi psichiatriche, sono inevitabilmente ispirati da questa logica binaria, disgiuntiva e soggettivistica che ha marchiato la modernità. In un certo qual modo, potremmo azzardare laffermazione secondo cui Dilthey e Jaspers, non potendo procedere che nel solco tracciato da Cartesio, ne hanno ulteriormente radicalizzato gli effetti disgiuntivi: tappa comunque fondamentale, la loro, e passaggio necessario per una ricomposizione delle forme del sapere ad uno stadio ulteriore, rispetto al quale lepistemologia contemporanea è in grado di indicarci spunti significativi.
Muovendoci allinterno della tradizione tecnico scientifica occidentale ora richiamata, le posizioni antinomiche che abbiamo segnalato possono essere abitate e appropriate fino in fondo, certo problematicamente, ma con piena consapevolezza critica e trasparenza epistemologica; potrebbero altresì, al di là delle letture diversamente "valutative" di cui sono oggetto (come da parte dello stesso Cargnello), rappresentare le polarità ciclicamente ricorsive allinterno delle quali, in un movimento ermeneutico di oscillazione, si posiziona dinamicamente il terapeuta; questultima posizione sembra essere quella privilegiata da Ballerini: "
lesercizio della psichiatria si fonda proprio su questo: su una continua, innaturale, modulazione della distanza intersoggettiva e che soltanto posizioni di un estremismo radicale ad esempio o costante immedesimazione o costante oggettivazione conducono a psichiatrie opposte ed impossibili."
Ballerini si sofferma ulteriormente sulla fenomenologia soggettiva jaspersiana, in quanto pre condizione della psicopatologia data la priorità che essa assegna alle esperienze interne, ai loro aspetti formali, tematici ed esistenziali, nonché "al movimento dellosservatore di comprenderle auto-comprendendosi: il limite del "comprensibile" divenendo non un limite della ricerca psicopatologica, ma un ordinatore di essa." Successivamente tuttavia, aggiunge che lopposizione e divaricazione diltheiana, e jaspersiana, tra spiegazione e comprensione, non è più sostenibile né dal punto di vista operativo né dal punto di vista della ricerca, poiché occorre tenere in considerazione che "una cosa è un utile riduzionismo "metodologico", altra cosa è un impossibile riduzionismo "ontologico", del resto ben lontano, mi sembra, dallorizzonte biologico di oggi
Lindispensabile pluralità dei metodi di ricerca in psichiatria ed il loro rinvio a saperi specialistici diversi, riguardi appunto delle tecniche, ma comporti tuttavia una unitaria cornice, comune del resto ad ogni conoscere, che proprio perché in comune ne permette e ne rende necessaria la loro integrazione, in una virtuosa complementarietà fra ricerca fenomenologia e ricerca empirica."
Il "salto mortale epistemico", il "naufragio" della psichiatria nella neurologia paventati da Borgna (e riportati nel medesimo scritto di Ballerini), non avrebbero dunque, ad avviso di Ballerini, alcuna ragione di sussistere, allinterno di un condiviso ed unificante, ancorché imprecisato, quadro di riferimento epistemologico interdisciplinare.
Appare significativo che le problematiche epistemologiche in questione si impongano ancora oggi, con ampio riscontro in letteratura, rimanendo non del tutto risolti ed in parte aporetici alcuni snodi teorici che fondano la costruzione antropo-fenomenologica; in realtà, ai suoi albori e già con Husserl medesimo, la fenomenologia nacque anche come tentativo di superamento degli approcci scientisti ed oggettivistici alle discipline psichiche. "Come aveva compreso Husserl, la psicologia ha così assunto su di sé lintero peso del significato dei nostri saperi, scientificamente atteggiati, e ne viene scontando il paradosso costitutivo, poiché essa pretende, coerentemente, di rendere oggetto quel principio medesimo (lanima, la psiche) in base al quale lesperienza è stata ridotta a oggetti scientificamente indagabili
ostinandosi a voler essere "scientifica" la psicologia non fa che esaltare ed acuire i suoi paradossi, originati anzitutto dallinesistenza assoluta del suo oggetto immaginario (letteralmente inventato e imposto dalla metafisica)
Per essere fedele al suo destino, la psicologia dovrebbe essere infedele al suo progetto scientifico-conoscitivo, cioè dovrebbe essere infedele a sé stessa."
Un filone di pensiero gravido di spunti suggestivi circa i temi posti in questa sede, in quanto orientato ad un radicale ripensamento dei fondamenti stessi della nostra tradizione filosofica in vista di un loro oltrepassamento, è quello percorso dalla riflessione teoretica di Carlo Sini; come ha intuito Foucault, ad avviso di Sini, "In particolare nella psicologia del profondo, tutta lunità ed il fondamento dei nostri saperi sono posti in questione, in modo inevitabilmente radicale: poiché non cè altro fondamento se non lanima (come la filosofia ha da sempre stabilito) ma il profondo dellanima è la smentita di quello stesso fondamento."
In margine ai temi della salute e della malattia, Sini ci rappresenta come la iatreusis aristotelica, ossia la tecnica medica, svolga la funzione, nella nostra civiltà, di elemento cardine della cura e ciò in virtù di quella visione moderno cartesiana, per la quale il mondo risulta ormai completamente desacralizzato e reso disponibile alla conoscenza umana, alla sua manipolazione, produzione, trasformazione finalistica. Nella cornice della modernità, la tecnica medica assurge al ruolo di funzionaria del ripristino di una efficacia efficienza meccanicistica, da parte dellorganismo macchina atteso dai suoi scopi funzionali; "salutare", sarà pertanto ciò che favorisce il funzionamento del corpo. Ciò, in opposizione alla ugiasis, il risanamento che produce la salute come dote naturale, come proprietà già appartenente ai corpi originati da Physis; Ugieia, la salute, non può essere un prodotto delle cure e tecniche mediche, bensì è una facoltà che luomo, in quanto ente naturale, ha in sé stesso come sua propria condizione; le tecniche possono solo stimolarla o favorirla.
Al fondo della modalità tecnologica di intendere la salute e la vita, secondo Sini, "sta anzitutto la rimozione dellevento del mondo nel soggetto, cioè la rimozione dellesperienza simbolica, o simbolico-segnica, di una unità originaria che fa del corpo un luogo di distanze e prossimità costitutive e cioè una unità dinamica di significati che hanno in sé il loro principio e il loro senso vitale. Il corpo perde la sua coappartenenza ai fiumi e alle montagne, al mare e alle stelle, agli alberi e alle sorgenti; e queste cose stesse perdono la loro coappartenenza originaria allesperienza del corpo."
Sono parole a nostro avviso significative per una profonda comprensione, da un lato della congruenza e dellintima coerenza dellorizzonte fenomenologico, dallaltro per un recupero non nostalgico di quellantica dimensione evocata in questa sede come "ascolto delle origini"; lesperienza simbolica (simbolico-segnica) di cui parla Sini, levento del mondo nel soggetto, si realizza nella dimensione della distanza: "Non cè esperienza senza distanza. Esperire la presenza di qualcosa implica il non essere la cosa che si esperisce." Esperienza della cosa è, insieme, esperienza della distanza che dalla cosa mi separa e "ciò che viene in presenza è un segno,
un rimando o un rinvio. La presenza va pertanto intesa come "emozione": esser mossi verso qualcosa cui la presenza allude o fa segno." LOggetto non può essere esperito che nella distanza che, "essendo costitutiva dellesperienza, garantisce la non assimilabilità dellOggetto medesimo. Esso non può non permanere nella distanza e in questo modo "far segno"." La distanza si fa così evento simbolico in senso proprio, ossia parte o frammento che rinvia ad una totalità assente: "Levento dellesperienza è appunto la provenienza di una prospettiva che ha il tutto come suo presupposto ma che non ha, né potrà mai avere questo tutto nellesperienza
", ovvero ce lha, "ma solo come immagine, cioè come segno." Ma questi segni, attraverso cui la nostra vita si scrive e si progetta, non sono suscettibili di letture governate dal sapere e dalla scienza, in quanto, dietro di essi, "si nasconde limmagine di una scrittura geroglifica alla quale siamo già da sempre assegnati. Questa scrittura è quellincanto che ci assegna originariamente al mondo
cioè alla differenza di un progetto che è in sé, o ha in sé, lindifferenza simbolica dellorigine
", ciò che apre sempre e di nuovo la vita al suo "da capo", "alla ripetizione dellincanto di vivere."
Gli interrogativi che vorremmo porre, mantenendo la riflessione su di un piano ancora squisitamente teorico, investono la coerenza interna dellimpianto teorico antropo-fenomenologico (Daseinsanalyse) nonché la sua equivoca inerenza al terreno coscienziale-soggettivistico in cui sembra ancora, contraddittoriamente, affondare le radici: in tale prospettiva, le riflessioni di Sini sembrano poterci offrire ulteriori spunti significativi.
Un decisivo snodo critico, viene indicato da Sini nel malinteso e non del tutto consapevole esercizio dellepochè; non accogliendo lovvietà che si offre nella forma del pregiudizio mondano, ossia sotto legida dellimpianto categoriale con cui solitamente interpretiamo quanto ci si presenta allevidenza, la fenomenologia opera preliminarmente attraverso il metodo dellepochè o messa tra parentesi, per accedere al fondamento trascendentale delle genuine evidenze, allesperienza originaria della presenza; lepochè non è astratto esercizio intellettuale ma una attiva modalità "di frequentare la "cosa" psichiatrica, di stare in essa
Ogni psichiatra fenomenologo dovrebbe sempre di nuovo chiedersi conto della effettività e concretezza del suo esercizio di sospensione allinterno della sua vivente pratica professionale."
Per mezzo dellepochè, lo psichiatra fenomenologo potrà essere condotto laddove i sintomi del disagio psichico rivelano la loro iscrizione trascendentale, la loro configurazione di senso che istruisce la soggettività ed il suo proprio modo di essere-nel-mondo: laccesso a tale sfera trascendentale consiste per Husserl in una Einfuhlung (immedesimazione, partecipazione affettiva, comprensione per immedesimazione), condizione per un avvicinamento appaiamento (Paarung) allaltro, il quale, raggiunto nel suo mondo e nel suo modo di abitarlo, potrà finalmente godere della possibilità del Mitsein, essere ricondotto nellalveo della comunità interumana. In virtù di ciò, Sini rivendica alla psichiatria fenomenologica "un primato in ordine al problema della comprensione dell "altro" e del suo disagio
ma ciò non è di per sé sufficiente ad aprire la via per una fattiva soluzione del problema
(dacchè) lintenzionalità descrittiva è assunta ed agita in termini essenzialmente conoscitivo-contemplativi
", termini che lasciano indecise le concrete modalità in cui viene declinandosi lintersoggettività paziente-psichiatra.
La questione di fondo rimane lepochè: essa non rappresenta il toglimento di un velo al di là del quale si rendono accessibili nella loro evidenza veritativa, genuina, impregiudicata, dei contenuti originari: "Ciò che compare tramite lepochè è a sua volta funzione dellepochè, risultato della sua operatività, niente affatto neutrale e innocente
prodotto dello sguardo e della voce fenomenologicamente atteggiati, i quali sono a loro volta un prodotto delloperazione di sospensione
Il fenomenologo mette tutto tra parentesi, meno questo mettere tra parentesi stesso, meno il suo sguardo e la sua voce descrittiva, che usa come ovvietà inconsapevoli."
Il rischio che si presenta allo psichiatra fenomenologo, consiste dunque nello scambiare ciò che viene prodotto dallepochè per un presupposto mitico, in sé fungente, che, per il solo fatto di essere attinto, sarebbe già concretamente in opera; mentre invece, in realtà, il con-sentire proviene da un effettivo con-agire, da una Paarung fondata sulle pratiche entro le quali i soggetti si mettono parimenti in gioco.
Ma cè di più: in tanto si può dare una sospensione delle categorie di giudizio e di esperienza, in quanto si dà una coscienza soggettiva istituente le medesime; orbene, lepochè potrebbe essere interpretato come un tentativo non di "scomposizione", come sarebbe auspicabile, ma appunto, semplicemente, di sospensione di quelle secondarie modellizzazioni che, in special modo dalla nascita della scrittura in poi, hanno continuato a tracciare il percorso del pensiero occidentale, quei costrutti metafisici che, a partire da Platone, hanno posto in essere ciò che Sini nomina la "strategia dellanima" e che hanno dato luogo ad uniperrealtà più "reale" della realtà medesima. Come abbiamo tentato di mettere in luce, nelle culture arcaiche e orali (bicamerali), lesercizio dellepochè non avrebbe mai potuto essere concepito, poiché ciò che per noi oggi sono leidos, i costrutti "trascendentali", il "progetto-di-mondo-dellaltro", si offrivano allora già come presenti e vissuti comunitariamente nellimmanenza di un noi terrigeno e materico, in una sorta di Wirheit collettiva (non duale) ed immemorabile.
Il percorso ontogenetico e filogenetico che ha condotto alla nascita della coscienza, ha corrisposto al progressivo depauperamento della bicameralità, allinesorabile affievolimento della voce degli dei: dovremmo forse interrogarci sulla congruenza di un percorso di recupero (attraverso lepochè) di una dimensione altra e trascendente (o meglio, di ciò che nella processualità storico-cognitiva è divenuto altro e trascendente), condotto dal motivo stesso di questo divenire, ossia la soggettività coscienziale; in altre parole: è pensabile un riattingimento a quella entità di alterità e trascendenza, a partire da quello stesso principio (la coscienza) che ha prodotto come altri e trascendenti, caratteri propriamente umani, esperienziali ed immanenti? Possiamo recuperare qualcosa attraverso il principio che fonda la stessa esclusione della cosa?
Condividiamo dunque la sollecitazione di Sini nel considerare la storicità dellepochè medesima e nel leggere latto sospensivo come a sua volta "epocale", non innocente, ma anzi, ancora trattenuto nellultimo respiro di un soggettivismo morente.
Un ulteriore topos degno di attenzione critica, ci sembra di poterlo riscontrare nellintenzionalità: lintenzionalità husserliana è sempre intenzionalità della coscienza, sua costituente cifra di unitarietà; ma il punto è: la coscienza si struttura intorno alla intenzionalità, in quanto questa la precede e ne costituisce la condizione di possibilità (del suo strutturarsi), ovvero coscienza e intenzionalità si danno come già da sempre co-appartenenti? La polemica antihusserliana di Heidegger, potrebbe essere, a tale proposito, raccolta in questa sede: come noto, Heidegger muove al maestro alcune fondamentali critiche:
- la "soggettività trascendentale" non può essere addotta quale argomento critico e oppositivo verso lobiettivismo naturalistico ed il "cartesianesimo";
- "Il soggetto non va inteso come campo dell "interiorità"contrapposto al corpo ed al mondo intesi come campo dell "esteriorità"; il mondo non va pensato come una proiezione intenzionale, come una " mondanizzazione" che muove dallinterno del soggetto trascendentale verso lesterno; corpo e mondo sono co-originari rispetto al cogito."
- Qualsivoglia progetto conoscitivo, dunque anche la fenomenologia "come scienza rigorosa", è destinata a rimanere allinterno di un orizzonte "obiettivistico".
La questione che qui poniamo potrebbe essere sintetizzata come segue: è il mondo che si definisce a partire dalluomo, o è luomo che si definisce a partire dal mondo?
Ancor più radicale e radente rispetto alle questioni qui sollevate, si fa la critica di Sini allorché entra nel dispositivo filosofico ed epistemico della fenomenologia esistenziale, con esplicito riferimento alla posizione di Binswnager: "Abbiamo qui un esempio di "contaminazione" tra Husserl ed Heidegger non poco caratteristico. Lidentificazione dellesserci come trascendenza con la soggettività trascendentale kantiano husserliana è quanto di più incompatibile si possa immaginare con la prospettiva di pensiero heideggeriana. Tale contaminazione esibisce appunto la "doppia anima" della psichiatria fenomenologico esistenziale. Il problema di tale doppia anima non soltanto non è in alcun modo risolto da Binswanger, ma neppure è avvistato come problema."
Ad avviso di Sini, la trasposizione della filosofia heideggeriana operata da Binswanger sul terreno metodologico ed applicativo delle discipline psichiche, a dispetto delle dichiarazioni di principio e di intenti, rimane unoperazione controversa e teoricamente disarticolata: "Binswanger definisce sempre il mondo a partire dalluomo
il mondo è pensato husserlianamente, come " mondanizzazione" (Mundanisierung). E il filo conduttore metodologico dellantropoanalisi segue il percorso, esso pure husserliano, dagli atti noetico trascendentali della coscienza ai contenuti noematici che costituiscono il mondo "intenzionato" dai primi."
Sini, dunque, rinviene un conflitto tra le due anime dellantropoanalisi, lhusserliana e lheideggeriana, che non sarebbe perciò, a dispetto degli intendimenti dei suo fautori, libera dalla tradizione metafisica, inscrivendosi anzi in essa a pieno titolo ed aderendo a quella "strategia dellanima", cartesiana ed obiettivistica, che le pertiene; mentre invece, "lintera questione delluomo e del suo essere-nel-mondo esige di venire reimpostata a partire dalla crisi degli orizzonti della ratio occidentale." La posizione di Sini sembra risuonare nelle parole di F. Barison, laddove lalienista, con riferimento soprattutto alla psichiatria "classica" dichiara come "anche la psichiatria, questa psichiatria ("la vera psichiatria"), non può che essere coinvolta nel disastro del post moderno e le sue sorti non possono sperare di sottrarsi al caos se non partecipando alle speranze e ai tentativi che animano certo pensiero filosofico attuale
(la psichiatria) non può che rientrare nel grande travolgimento tecnico-scientifico post moderno, assumendone tutti gli effetti in definitiva nichilistici e mortali per il genere umano: mortali anche se non con la catastrofe nucleare, sulla "essenza autentica" delluomo."
Più propensa invece a riconoscere la sostenibilità epistemologica del connubio tra il contributo fenomenologico husserliano e quello antropologico esistenziale di matrice heideggeriana, è la posizione di Galzigna, attenta sia allanalisi dei fondamenti teorici dellopera binswangeriana, sia ai suoi aspetti storici e metodologico - applicativi.
Muovendosi nel solco tracciato da Foucault, Galzigna evidenzia il tentativo del filosofo francese di affrancare la "Daseinsanalyse dallipoteca filosofica heideggeriana", al fine di arrivare ad un autonomo progetto teorico e metodologico che assegna centralità allincontro con lesistenza concreta e dove "la peculiarità delle strutture a priori dellesserci rimanda alla peculiarità dei fenomeni, cioè ai fenomeni "peculiari", direttamente accessibili allo sguardo partecipe dellanalista." E attraverso il quotidiano rapporto terapeutico tra paziente ed analista che sarà possibile, per questultimo, cogliere le intime connessioni tra categoria ed esperienza, il progetto-di-mondo che il paziente incarna, individuando i sintomi del disagio "da un approccio diretto e globale alla storia interiore ed esteriore del paziente, al suo temperamento, alla sua costituzione, al suo ambiente
(inserendo tutto questo) allinterno di una trama ricostruita di contenuti esistenziali, oltre che allinterno di una successione ricostruita degli Erlebnisse. Questo sistematico lavorio di iscrizione dei sintomi nella persona (luogo dorigine e centro di ogni Erlebnis), e nella sua innere Lebengesichte (cioè nella peculiare successione storica dei contenuti dei suoi Erlebnisse), rende possibile sia lindividuazione del modello desperienza che vincola la libertà del soggetto, sia la scoperta della corrispondenza di tale modello con la-priori esistenziale che lo condiziona e lo determina."
Nel collegamento tra la visione eidetica, la "conoscenza delle essenze", losservazione categoriale, da un lato, e la conoscenza dei fatti, dei vissuti, dei sintomi, dallaltro, le divergenze di interpretazione intorno al pensiero di Binswanger, nelle differenti letture di Sini e Galzigna, si fanno evidenti: laddove Sini, in ultima analisi, denunciava la derivazione "mondanizzante" dei contenuti noematici, dagli atti noetico-trascendentali della coscienza, Galzigna, dal canto suo, articola diversamente lintreccio tra questi due piani; in Binswanger, a suo avviso, troviamo una relazione di distinzione e al tempo stesso di collegamento tra queste due sfere, un nesso di "distinzione/continuità tra osservazione sensoriale e osservazione categoriale", in cui è però la prima a "fondare" la seconda.
Il senso di questo capovolgimento è però tutto interno alla specifica prospettiva binswangeriana, che vede lo psichiatra non tanto come fine esegeta e custode severo della "corretta interpretazione" filosofica (nel nostro caso del pensiero di Husserl): Binswanger, semplicemente, si serve della filosofia, ritenendola adatta "a fondare una fenomenologia psicopatologica, capace di procedere "passo passo, dai singoli fatti sino alla visione delle essenze". Lo psichiatra dunque, per conoscere profondamente gli apriori esistenziali, cioè le strutture portanti della vita psichica dei suo pazienti quelle che danno ordine e significato al singolo evento mentale, al singolo vissuto deve introdursi gradualmente, passo passo, dentro il loro mondo."
Nella lettura di Galzigna, troviamo la rivendicazione, avanzata da Binswanger, di uno statuto del tutto autonomo della fenomenologia psicopatologica, rispetto alla quale, anzi, la filosofia assume un ruolo funzionale: allo psichiatra non potrà essere rimproverata una "deviata" interpretazione ed adozione degli strumenti filosofici, in quanto egli li colloca su di un piano sensibilmente diverso, squisitamente ontico, al servizio del lavoro psicopatologico ed in vista di un ritorno del paziente alla pienezza del suo Mitsein ; lo psicopatologo potrà anzi, sulla scorta dellesperienza clinica, riadattare e ricalibrare il suo arsenale teorico, purchè si doti (ed ecco ritornare in gioco la filosofia) "di una critica epistemologica interna, mirata allindividuazione degli eventuali limiti e della reale portata euristica (dei suoi assunti)
e finalizzata, di conseguenza, alla valutazione dello spessore conoscitivo e dellefficacia terapeutica della scienza psichiatrica." Vengono dunque banditi da questa prospettiva, astorici ed eteronomi principi ordinatori ovvero astratti criteri normativi esterni, più o meno vagamente in odore di metafisica o di ontologia che dir si voglia.
A nostro avviso, le osservazioni avanzate da Sini, possono essere proficuamente recuperate proprio sul terreno epistemologico proposto da Galzigna: se, come vuole Binswanger stesso, "Per antropoanalisi noi intendiamo un tipo di indagine scientifica di carattere antropologico, avente cioè come oggetto l essenza dellessere delluomo
", allora le analisi di Sini non sono eludibili e le troviamo anzi suggestive di sviluppi di notevole interesse; il primo passo da compiere in questa direzione, deve necessariamente investire la fondamentale chiarificazione antropologica già posta da Binswanger.
Iniziamo dunque una rapida riflessione a partire dalla nozione di intenzionalità, già trattata più sopra: nozione che andrebbe liberata da ogni residuo coscienzialistico e consegnata al suo stato nascente; con intenzionalità dovremmo intendere non tanto una specifica proprietà della coscienza, ovvero ciò che connota la coscienza in modo precipuo, quanto piuttosto un sorta di primum movens, unemozione originaria verso il mondo (intendendo qui, evidentemente, il termine emozione in senso etimologico e pre-psicologico come ex-motus), un tendere-a e tendere-verso (il mondo), che viene prima della coscienza e di ogni psichismo, costituendo piuttosto, della coscienza e dello psichismo, la condizione di possibilità, la conditio sine qua non della loro genesi: la coscienza prende corpo attorno alla spinta originaria dellintenzionalità. Questa figura di intenzionalità è un originario aprirsi al mondo e del mondo di natura, insieme, bio- antropologica e storico-sociale.
Se lintenzionalità, pre-coscienziale, pre-psichica e pre-conoscitiva, è la prima modalità di essere-nel-mondo delluomo, aurorale farsi evento del mondo alluomo che fa sì che sia luomo a definirsi a partire dal mondo, nella loro reciproca e primordiale coappartenenza ed apertura, allora la fenomenologia potrebbe forse tentare un affrancamento dallorizzonte coscienziale, soggettivistico, rappresentativo, per integrarsi con una rinnovata modalità di incontro con laltro, di intersoggettività, di Mitsein: laltro che mi si presenta, che mi e-moziona, verso il quale sento la spinta della mia intenzionalità, non posso incontrarlo che nella modalità della distanza, garante della non assimilabilità dellaltro e dellapertura emozionale ed intenzionale che solo nella distanza può esser mantenuta. A mia volta, troverò nella distanza la mia dimensione di agio (ma, con Agamben, anche di disagio), poiché è venuta meno la centralità dellego coscienziale e metafisico che mi impone la de-finizione del mondo. Nella custodia della distanza, nel aver-cura di essa, il terapeuta si fa garante della reciproca, ancorché asimmetrica, apertura emozionale e intenzionale con il paziente che, non oggettivato in (assimilanti) rappresentazioni, diviene simbolo, parte o frammento di un tutto che non si offre alla presenza.
Se la verità non è qualcosa di statico, ma "è il movimento stesso delle cose, degli eventi, che accedono allinterpretazione,
(dove) sono i soggetti a stare nel pensiero, pertanto ogni progetto è già "gettato" in questo cammino. Esso è destinato a perdere il suo carattere soggettivo e a svolgere invece quella funzione intersoggettiva che gli è fatalmente destinata."
Se la verità ermeneutica è connessa allerrore, allerrare della verità attraverso il temporalizzarsi mondano dei progetti, lattività terapeutica verrebbe in tal modo dislocata dal registro conoscitivo in senso stretto, che purtuttavia non può e non deve essere abbandonato, per accedere ad un rinnovato piano coesistentivo, ad una rinnovata co-presenza, nella quale il modus amoris si dà in prospettiva ermeneutica, come magnificamente lo esprime G. Agamben, nel "Vivere nellintimità di un essere estraneo, e non per avvicinarlo, per renderlo noto, ma per mantenerlo estraneo, lontano, anzi: in apparente così in apparente che il suo nome lo contenga tutto. E, pur nel disagio, giorno dopo giorno non esser altro che il luogo sempre aperto, la luce intramontabile in cui quelluno, quella cosa resta per sempre esposta e murata."
Laltro può essere esperito solo nella distanza; con la rappresentazione, la distanza viene annullata venendo meno, in tal modo, lintenzionalità, lemozione, la continuità del flusso esperienziale e quella particolare modalità ermeneutica (errante) di abitare la distanza come verità in errore. Appartenendo la verità della fenomenologia al dominio delle pratiche, non "a una contemplazione conoscitiva della "cosa stessa" ma ad un prassi trasformativa in cui i soggetti sono allo stesso titolo in gioco", essa è in grado, secondo Sini, di riscrivere la sua stessa prassi al fine di abitarla consapevolmente e poter guardare alla "con-costituzione di una terza scrittura come reale Paarung attivamente promossa e trasformatrice di entrambi i poli di partenza."
"La mancanza del sé non è la non esistenza improvvisa di qualcosa che esisteva nel passato; piuttosto, questo tipo di "io" non è mai esistito. Bisogna identificare come non esistente, qualcosa che è sempre stato non esistente."
IL VUOTO E LASCOLTO: IL BUDDHISMO
Il tempo custodisce forse una sua segreta sapienza; cosaltro può aver fatto sì che, alle soglie del secondo millennio, lantica disciplina buddhista sorta nel V° sec. a. c. si incontri e si stringa in un fecondo abbraccio con le più avanzate e coraggiose ricerche nel campo delle scienze cognitive, giungendo infine, a partire da presupposti apparentemente lontanissimi, a conclusioni di stupefacente analogia? Quanto mai lontano da ogni forma di dogmatismo o di prescrittiva codificazione, il buddhismo è appunto, in prima istanza, disciplina, ammaestramento, impegnato e severo lavoro di osservanza di regole e loro applicazione, affinché ciascun uomo possa cedere a sé stesso i saperi che custodisce senza esserne ancora consapevole. In quanto lavoro di pratiche su sé stessi, ove soggetto e oggetto delle pratiche coincidono, la conoscenza si dà immediatamente come esperienza vissuta: ciò che viene vissuto nelle pratiche meditative può arrivare a modificare irreversibilmente anche i propri assetti cognitivi, consegnando il praticante ad un rinnovato, ancorché originario, senso di sé. Siamo qui di fronte ad una singolare e totale corrispondenza tra conoscenza, vissuto, pratiche; la dilatazione della consapevolezza che viene man mano guadagnata attraverso la meditazione non è dunque affare di teoria, ma sapere quanto mai incarnato: difficile dunque trattarne, dall "esterno", da una posizione che accusa tutta linsufficienza di una pur autentica e potente curiosità intellettuale, ma che al tempo stesso non è sorda allinvocazione di una diretta messa in gioco.
Non meno incarnati risultano i saperi che scaturiscono dagli sviluppi delle scienze cognitive descritti da Varela, Thompon e Rosch e tratti da diretti riscontri sperimentali nellambito della biologia, delle scienze sociali, delle neuroscienze: le capacità di auto-organizzazione rinvenibili fra gruppi di neuroni, le modalità di interconnessione tra le varie componenti del cervello, le complesse reti di cellule cerebrali che cooperano tra loro con modalità non uniformi e asistematiche, sono eventi che risultano del tutto compatibili con le osservazioni dirette ricavate dalla pratica meditativa; ciò concorre a confermare la considerazione secondo la quale ciascuno di noi sperimenta costantemente un senso di sé, a fronte di una obiettiva mancanza di questo stesso sé, riscontrata nei due ambiti ora richiamati. Promuovendo un rinnovato approccio alle scienze cognitive, intese ora come azione incarnata, si intende oltrepassare la tradizionale prospettiva rappresentazionista polarizzata tra il soggettivismo e loggettivismo, tra lidealismo e il realismo, tra proiezione e ricostruzione; lespressione azione incarnata vuole esprimere due idee: "In primo luogo il fatto che la cognizione dipende dal tipo di esperienza derivante dal possedere un corpo con diverse capacità sensomotorie e, in secondo luogo, il fatto che tali capacità sensomotorie individuali sono esse stesse incluse in un contesto biologico, psicologico e culturale più ampio [
]nella cognizione vissuta i processi sensori e motori, la percezione e lazione, sono fondamentalmente inscindibili."
Come è possibile che ci possa essere coerenza nelle nostre vite se non abbiamo un sé? Come possiamo continuare ad agire, a pensare, a sentire in assenza di un sé?
Appare evidente già da questi brevi accenni che non possiamo accostarci al pensiero orientale gravati di occidente e di cristianesimo, di aspirazioni edificanti, di pregiudizi metafisici, di aspettative magico salvifiche rivolte a quelluniverso che, in quanto altro da noi e ignoto, abbiamo già troppo spesso soverchiato delle nostre proiezioni e delle nostre categorie; dovremmo piuttosto radicalizzare la nostra epochè e, per quanto ci è possibile, penetrare quell antica sapienza con senso di incanto e sorpresa, anche con sgomento, ma sempre guidati, come insegna il buddhismo stesso, dalla nuda attenzione.
Il buddismo indica nella sofferenza la Prima Nobile Verità, la sofferenza è il sigillo davvio della condizione umana, mentre "Lamore comincia allorché la sofferenza finisce
Senonchè voi alla sofferenza non vi avvicinate neppure. E non vi avvicinate alla sofferenza perché siete sempre intenti a evitarla e a fuggirla. Ora, il modo in cui ci si rivolge alla sofferenza è cosa di grande importanza
non riuscirete mai ad accostarvi ad essa se in voi cè autocompatimento o se avete il desiderio di trovarne in qualche modo la causa, la spiegazione; questo è evitarla
Ma se invece, giunti vicini alla sofferenza, voi la tenete, la guardate, non fuggite via, vedete quello che sta cercando di dirvi, vedete la sua profondità, la sua bellezza, la sua immensità, se voi rimanete così con essa, completamente,
allora la sofferenza finisce" (Krishnamurti 1984, pp.40-41).
Le scienze psichiche e le discipline religiose sono accomunate dal riconoscere nel desiderio lorigine e la fonte della sofferenza psicologica ed esistenziale (o al contrario della serenità e della piena realizzazione); psicologia e religione si sono invece spesso scontrate per contendersi il primato e lultima parola sul desiderio, poiché le prime ritengono che la piena espressione della natura umana derivi dalla liberazione e dalla realizzazione del desiderio, mentre le seconde condannano questa stessa liberazione del desiderio, riconoscendovi lorigine dellinfelicità e della sofferenza umane. In realtà, in una simile schematica contrapposizione tra la posizione religiosa e quella delle scienze psichiche, non è tanto in gioco il desiderio in quanto tale, semmai una sua diversa collocazione, un suo diverso orientamento, perché in entrambe, come in tutte le imprese umane, il ruolo del desiderio è centrale; la differenza pertanto sembrerebbe porsi sul senso e sulla direzione del desiderio, riconoscibile nella psicologia come autorealizzazione, mentre nella religione si manifesta come autotrascendimento.
Queste due pratiche, come potremo vedere nellesperienza di M. Epstein, nella realtà e fuori da ogni dogmatismo e schematismo, sono suscettibili di vicendevole compenetrazione e integrazione, completando luna le istanze che laltra non è in grado di soddisfare; ferma restando laspirazione alla ricerca interiore, al sacro e alla spiritualità come non disgiunta da un radicale percorso anche psicologico e come potenzialità aperta a ciascun essere umano, psicologia e religione rinviano comunque entrambe al cuore della questione che qui interessa: chi desidera, chi soffre, chi è il soggetto di questi sentimenti? E su questo radicale fronte di interrogazione che il buddhismo può fornirci preziosi e ricchi indizi, i quali tuttavia nulla contengono di pacificante o di rassicurante, come vorrebbero talune grottesche e caricaturali interpretazioni delle culture orientali, ma anzi possono risultare quanto mai destabilizzanti per una coscienza, quale quella occidentale, avezza alla ricerca di certezze e solidità e che nel presente si deve accontentare dei loro simulacri.
Certezza e solidità dunque, o meglio, desiderio di certezze e solidità per contrastare il divenire, il molteplice e cangiante fluire delle cose e fondare lio ed il suo mondo: incontriamo qui quella che Varela, Thompson e Rosch definiscono lansia cartesiana, quella dilemmatica condizione per la quale o ci è dato di disporre di un fondamento fisso e stabile per la conoscenza, un punto di appoggio e di tenuta, una base fondativa, oppure è inevitabile cadere nelloscurità conoscitiva e nella confusione; le metafore privilegiate dal credo cartesiano saranno necessariamente quelle dello specchio e della rappresentazione che ne deriva. Lalternativa al fondamento platonico-cartesiano sembra essere esclusivamente, per il pensiero occidentale, il nichilismo e lanarchia.
Tali concezioni suonano quanto mai lontane dal pensiero buddista e dalla elaborazione che tale pensiero ha prodotto intorno allio-sé; in questa prospettiva infatti, questultimo viene costituendosi come epifenomeno di un complesso intreccio di variabili allinterno del quale non è localizzabile una sede o funzione dellio-sé; ciascuna di queste variabili, o aggregati, ingloba via via quelle che le precedono, in quella che in prima approssimazione potremmo definire una dinamica ed evolutiva fenomenologia processuale co-generativa: incontriamo così, nellordine, una matrice materiale, legata alla realtà ed ai suoi molteplici correlati; successivamente, quella che coinvolge lattività dei sensi e le funzioni recettive della mente; poi le percezioni, ossia i diversi tipi di consapevolezza legati ai diversi tipi di sensazione; e ancora, tutte le forme di volontà e di intenzionalità che condizionano lazione; lultima variabile infine, è funzione sintetica delle precedenti facoltà, ne rappresenta la correlativa espressione derivata e configura una consapevolezza che non può mai essere pura, autonoma, disarticolata da ciò di cui è consapevole. Tali aggregati danno luogo allinsorgenza del senso di sé, ma non sono da intendersi in senso ontologico, bensì semplicemente descrittivo ed euristico ; è piuttosto la dinamica del loro aggregarsi che contribuisce al complesso psicofisico che costituisce una persona e dà forma allesperienza. La dinamica attraverso cui questi diversi aggregati si mobilitano nella costituzione dellesperienza, viene analizzata dal Pratitya samutpada, che significa "produzione condizionata" o "nascita co-dipendente", che sta ad indicare come ogni fenomeno di qualsivoglia natura che investa lesistenza di un individuo, sia in relazione di mutuo condizionamento e di reciproca dipendenza con ogni altro fenomeno. Consideriamo più da presso ciascuno dei cinque aggregati.
La prima categoria si riferisce al corpo e allambiente fisico, ma in termini strettamente relativi ai sensi insieme ai loro corrispettivi oggettuali: "Gli organi di senso non si riferiscono allorgano esterno macroscopico, ma al vero e proprio meccanismo fisico della percezione
qui, come nella fenomenologia di Marleau-Ponty, il nostro incontro con il mondo fisico è già localizzato ed incarnato. La materia è descritta da un punto di vista esperienziale."; nonostante la prossimità tra la visione fenomenologica e questa prima matrice fisica che co-costitisce la visione buddista dellesperienza, non possiamo certo affermare di poter localizzare qui lio-sé. Anche la tonalità emotiva che permea le nostre esperienze, sia fisiche che mentali, può variare, ci può risultare gradevole, sgradevole, magari indifferente e comunque la nostra tendenza sarà sempre di cercare il piacere ed evitare il dolore, identificandoci nel contempo con queste nostre sensazioni, tanto più queste si faranno intense; tuttavia, non è ancora con esse che può identificarsi il sé, esse non sono il sé.
La pratica buddhista distingue poi tre pulsioni originarie: passione/desiderio (verso oggetti desiderabili), aggressività/ira (verso oggetti indesiderabili), illusione/indifferenza (verso oggetti neutri). "Queste tre pulsioni fondamentali sono anche chiamate i tre veleni, perché sono il principio di azioni che condurranno ad un ulteriore attaccamento dellio." Queste tre pulsioni insorgono associate al primo momento di individuazione, discernimento, potremmo dire di oggettivazione, che si lega ad un impulso allazione verso loggetto riconosciuto; emerge qui potentemente, secondo la prospettiva buddhista, la nostra attitudine ad attaccarci allio ed al riconoscere ciò che ci circonda in funzione della sua desiderabilità. Non è quindi nelle pulsioni fondamentali che possiamo riconoscere lio, come nemmeno in quelle formazioni disposizionali che solitamente contribuiscono a definire il carattere di un soggetto, i suoi tratti di personalità, le sue propensioni ed abitudini; pur potendo riconoscerci in tutto ciò, noi solitamente non possiamo arrivare ad identificarlo compiutamente col nostro io-sé perché avvertiamo come le nostre tendenze emotive, le nostre volizioni, le nostre preferenze, possano mutare col trascorrere del tempo e come il nostro senso di continuità ci sia dato da altro.
La coscienza infine, è lultimo degli aggregati e, come vuole la dottrina buddista, include tutti gli altri: ognuno di essi infatti, contiene quelli che lo precedono; la coscienza qui intesa, raccoglie linsieme delle precedenti esperienze: in ogni momento di coscienza, la mente è legata al suo oggetto in forma di sinolo tra tutti e cinque questi fattori: "Cè il contatto fra la mente ed il suo oggetto; una coloritura emotiva specifica di piacevolezza, spiacevolezza o neutralità; un discernimento delloggetto; unintenzione verso loggetto; e lattenzione per loggetto [
] La combinazione dei fattori mentali presenti costituisce il carattere[
]di un particolare momento della coscienza."
Le affinità con la fenomenologia sono evidenti; non si dà coscienza separata dal suo oggetto e dalla relazione che intrattengono. Tuttavia, nella tradizione buddista, né gli oggetti della coscienza, né i fattori mentali sono rappresentazioni e la coscienza è solo una delle possibili modalità del conoscere ed è comunque e sempre correlativa rispetto alle facoltà che concorrono alla sua formazione: il rapporto temporale tra la coscienza ed il suo oggetto infatti, essendo la forma più diretta ed immediata di esperienza, testimonia di come ciascuno dei cinque sensi, in ciascuna delle fasi che abbiamo descritto, registri una coscienza diversa, ossia in "ciascun momento dellesperienza cè un diverso soggetto proprio come diverso è loggetto dellesperienza." Questo punto è dirimente e richiede una specificazione particolare: la scomposizione dellio in diversi aggregati non deve apparire come un semplice spostamento del problema, che vede la qualità autoconsistente dellindividualità ripresentarsi parcellizzata in ciascun aggregato; ogni realtà è invece priva di autocoscienza (è anatta) e quindi anche ciascun aggregato esiste e funziona solo in quanto è in rapporto di reciproca dipendenza e di mutuo condizionamento rispetto agli altri (e ciò vale anche per ogni elemento partecipe di ciascun aggregato): "Questa tesi è fondamentale anche per un altro motivo: perchè, negando la sostanzialità dellio, non nega la sua esistenza, ma nega le pretese di una sua esistenza assoluta, incondizionata; quindi, implicitamente, ne afferma lesistenza solo nella forma relativa, condizionata.[
] (ma ciò significa) non che lio entra in relazione con qualcosa di diverso da sé, ma si vuole dire che è costituito da relazioni."
Non esiste prima un io autonomo che poi si pone in relazione ad altro; si dovrebbe piuttosto affermare che esso "nasce e cresce solo in quanto formato, intessuto di rapporti[
] lio non ha relazioni, ma è relazioni." Sempre secondo questa tradizione, non si potrà dunque trovare nella coscienza alcun sé reale, come pure non lo si potrà trovare nel soggetto, nelloggetto o nelle relazioni che li collegano. La totalità, continuità e coerenza del flusso esperienziale allinterno della quale sembra collocarsi la nostra coscienza, è in realtà solo apparente e di superficie in quanto non è altro che una sua virtuale proiezione, o meglio, rappresentazione, atta a mascherare la discontinuità, la transitorietà, limpermenenza, di un ambiente i cui fenomeni sono svincolati da qualsiasi fondamento assoluto e, in quanto "infondati", si strutturano attraverso liberi e reciproci rapporti di causa-effetto e codipendenza. La mancanza di fondamento non è dunque frutto di complesse analisi teoretiche, ma si offre nellesperienza quotidiana.
Per lantropologia e la psicologia buddhiste, la stabilità che avvertiamo è in realtà la risposta abituale ed irriflessiva ad un nostro bisogno di fissare lesperienza, alla nostra tendenza ad aggrapparci a certezze e sicurezze per far fronte ad un incombente e permanente senso di vulnerabilità e precarietà, ad un senso di incompiutezza che ci pervade; questa corrente sotterranea di irrequietezza, questo annaspare per aggrapparsi a qualcosa, questa ansia e questa insoddisfazione che caratterizzano lesperienza, vengono definiti dukka, termine solitamente tradotto con "sofferenza": "Per i buddhisti, i dubbi sul sé sono inevitabili, e si presentano via via lungo il processo di maturazione. Essi sostengono che vi sia un modo di esplorarli, e persino di risolverli, entrando nel dubbio anziché fuggirlo; distruggendo di proposito le strutture esistenti anziché assecondarle. La Prima Nobile Verità del Buddha ci chiede sopra ogni altra cosa di accettare le incertezze che altrimenti cerchiamo di ignorare." La Prima Nobile Verità del Buddha è dunque la sofferenza umana, la cui origine viene rinvenuta proprio nel tentativo - il desiderio di cui parlavamo allinizio - di afferrare e costruirsi un senso di sé; tale tentativo, che rappresenta una risposta fallace alla sofferenza, è la Seconda Nobile Verità: fallace perchè è vano appoggiarsi a ciò che per sua natura è fuggevole e cangiante; una volta toccate queste due Nobili Verità, luomo potrà proseguire lungo un percorso di autopresenza e consapevolezza che gli consentirà di comprendere come il dolore possa avere un termine nel nirvana (Terza Nobile Verità) e che tale mèta è raggiungibile attraverso il cammino dellottuplice sentiero (Quarta Nobile Verità), che si articola in: retta comprensione (della dottrina), retto pensare (e decidere), retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retta meditazione; lottuplice sentiero traccia quella via di mezzo tra i due estremi della vita spesa ad inseguire i piaceri e la vita dedicata alleccessivo ascetismo.
Come abbiamo visto, è centrale nella tradizione buddista lintuizione secondo cui lattaccamento ad un fondamento, sia esso "interno" o "esterno", è allorigine di ansia e frustrazione: il progetto fondazionalista, ricercando appunto il fondamento ultimo nellio-sé, aspira a dettare le sue coordinate ad un mondo ritenuto calcolabile e manipolabile, pre-costituito; va da sé che tale progetto, sperimentando il suo fallimento e sperimentando il permanere della condizione umana nella precarietà e nellinquietudine, si volgerà nel suo rovescio nichilista mostrando così lintima affinità, nella visione buddista, tra assolutismo e nichilismo. Proprio qui, tra queste due dimensioni viste come due diverse figure dellidentico, si apre la via di mezzo buddhista che consiste appunto nellabbandonare ogni tentazione di attaccamento, per cominciare ad abitare i fenomeni nel loro essere liberi da qualsiasi fondamento assoluto. Il desiderio infatti non deve condurre necessariamente allattaccamento, poichè se si giunge alla consapevolezza delle Quattro Nobili Verità, è possibile non procedere nella catena del condizionamento automatico, è possibile spezzare il legame di continuità tra desiderio e attaccamento, arrivando così ad interrompere quella sorta di coazione a ripetere rappresentata dalla catena degli schemi abituali: secondo lanalisi del Pratitya samutpada ("produzione condizionata" o "nascita co-dipendente") infatti, se è il desiderio che produce attaccamento, il desiderio è a sua volta prodotto da una sequenza circolare di fattori che tendono ad autoperpetuarsi nel loro reciproco e incessante condizionamento. Al principio della concatenazione circolare del Pratitya samutpada si trova non a caso lignoranza, che è certamente ignoranza circa le Quattro Nobili Verità, ma più in generale "essa indica lignorare che ogni realtà - fisica, psichica e metafisica è "anatta", è "senza sé", priva di consistenza autonoma. Ebbene, questo ignorare, quando è relativo al soggetto, ossia al "dhamma" [realtà] della coscienza individuale, provoca lillusione che la soggettività sia centro autonomo di attività e dà quindi origine alle azioni intenzionali (2° anello)
"; si ignora o non si conosce la verità sulla natura della mente e della realtà, si ignora lassenza dellio-sé e si cade inevitabilmente in concezioni ed aspettative erronee. Questa ignoranza conduce però (secondo anello) ad agire fondandosi su di un sé, si tratta di un agire intenzionato, basato sulla volizione e che produce quella sorta di senso di sé chiamato coscienza (terzo anello) e coincidente col quinto aggregato descritto sopra, relativo alla facoltà di sentire in generale, di saperci cogliere come esseri senzienti; ma tale coscienza non è conoscenza o comunque non è il solo modo di conoscere: "a causa delle azioni della volizione basate sullignoranza, noi apriamo gli occhi su un momento o su una vita intera di coscienza, e non di sapienza." Ciascun particolare momento di coscienza, sarà informato e condizionato dalla azione svolta dalla volizione nellanello precedente. Si succedono via via il complesso psicofisico mente-corpo (quarto anello), i sei sensi (quinto anello), il contatto con il campo sensoriale, ovvero con loggetto appropriato, in quanto non ci può essere esperienza sensoriale senza contatto (sesto anello); la sensazione, piacevole, spiacevole o neutrale, che deriva dal contatto, ossia la sua coloritura emotiva (settimo anello); infine lanello decisivo, punto di congiunzione fondamentale in questa catena di causalità, rappresentato dal desiderio che sorge dalla sensazione; sin qui la successione della concatenazione è stata pressoché automatica in quanto basata sul progressivo condizionamento di ciascun anello su quello che lo segue. Perdurando landamento che andiamo descrivendo, al desiderio segue come noto lattaccamento (nono anello) e a questultimo il divenire (decimo anello) che darà inizio alla nascita di nuove situazioni (undicesimo anello) ed infine, inesorabilmente, al decadimento e alla morte (dodicesimo anello).
Se ne deduce che "ogni nostra azione e lintero ciclo dellesistenza sono condizionati dallignoranza e dalle conseguenze che essa comporta: ignorare la relatività del nostro io ci conduce a dar sfogo alle nostre intenzioni, al fine di raggiungere loggetto del nostro desiderio e del nostro attaccamento [
] eliminare lignoranza che ci fa ritenere costituiti da un io isolato e compatto significa togliere la causa prima della paura [
] che ci fa sempre stare in guardia nei confronti di altri io ritenuti altrettanto compatti ed isolati "
Attraverso le analisi "fenomenologiche" che abbiamo sommariamente delineato, il buddismo ha sempre ribadito limpossibilità di rinvenire lesistenza di un io a cui fare riferimento per ogni sensazione, idea, azione o desiderio: piuttosto, ha sempre cercato di portare allevidenza la presenza e lattività di un complesso variabile di funzioni che possiamo vedere allopera se solo concentriamo lattenzione sulla natura co-dipendente della catena che abbiamo pocanzi descritto: percorrendola sia in avanti che a ritroso, scopriremo infatti la qualità emergente di co-dipendenza di queste analisi causali. "
gli schemi ripetitivi di azioni abituali emergono dallazione congiunta dei dodici anelli [
] proprio come lesistenza dellazione di ciascun agente è definibile solo in relazione alle azioni di tutti gli altri, allo stesso modo il funzionamento di ciascun anello della catena dellorigine codipendente dipende da quello di tutti gli altri [
] (non cè) nulla di simile agli elementi, se non in rapporto al funzionamento dellintero sistema ciclico."Il Karma è il processo di accumulo dellesperienza umana condizionata, sulla spinta dellintenzione e della volontà. Quanto sopra può essere riprecisato e sintetizzato come segue: ogni elemento della realtà si costituisce in una forma; a sua volta, tale forma si costituisce solo in riferimento alle forme di tutti gli altri elementi. Ma tali elementi, pur ridotti alla loro realtà ultima e fondamentale, non vanno certo identificati con entità ontologiche, con entità sostanzialmente esistenti, essendo essi stessi, nel medesimo tempo, causa ed effetto; non a caso, il temine "vacuità" (Shunyata) non significa "assenza" o "nulla" ma "indica la qualità di ogni realtà in base alla quale questa dipende talmente da altri che non è nulla per sé o in sé."; il buddismo, coerentemente, non ha mai posto il suo interesse su argomenti riguardanti la ricerca della certezza assoluta, quali leternità o meno del mondo, il destino umano dopo la morte, il rapporto tra lanima ed il corpo, temi invece centrali nella nostra tradizione di pensiero. E attraverso la pratica meditativa della consapevolezza e della presenza che si apre la possibilità di un diverso modo di trattare il desiderio e di sradicare lignoranza; se il desiderio è una reazione automatica e fondamentale, un anelito verso ciò che è piacevole ed una ritrosia uguale e contraria verso ciò che è spiacevole, la persona consapevole può intervenire sul desiderio determinandone le ulteriori sorti e affrancandolo dal vincolo dellattaccamento; si ottiene in tal modo "quel chiarimento che consente di passare da una visione del mondo "meccanica", in cui si hanno solo rapporti estrinseci tra entità autonome, ad una organica in cui ogni entità risulta intrinsecamente costituita da relazioni
." Se conveniamo che ogni entità è intrinsecamente costitutita da relazioni e la realtà umana, come abbiamo visto, non sfugge a questa natura relazionale, dobbiamo allora giungere a riconoscere un dato paradossale: legoità, lattaccamento allio sostanzializzato e autosufficiente, coincide con il massimo di irrealtà: colui che si vuole erigere a legislatore e plasmatore del reale, viene smentito e cancellato dal reale medesimo; "Visto dalla prospettiva buddhista, il regno umano non riguarda soltanto il falso sé, ma anche la possibilità di un insight trascendente sulla vera natura del sé. E qui che si può apprezzare il concetto buddhista di "sunyata" (vacuità). I buddhisti affermano che più capiamo la vacuità, più ci sentiamo reali, che il nucleo, lelemento che non comunica, è in realtà una paura della nostra stessa insostanzialità." Non volendo riconoscere a noi stessi la nostra insostanzialità, ci adoperiamo per costruire unimmagine di completezza e di autosufficienza; cedendo a questo bisogno ci estraniamo da noi stessi e non siamo reali: ci mponiamo di occultare la verità su noi stessi.
Ma cè di più; se intendiamo bene, Epstein pone qui una questione di non poco conto: introducendo il pensiero e la "psicologia" buddhista nelle pratiche psicoterapiche occidentali, egli fa riferimento, peraltro con continuità nei suoi scritti, ad "un insight trascendente sulla vera natura del sé"; ciò significa che pratica psicoterapica e pratica buddhista non possono essere scindibili in quanto il processo di introspezione, per essere reale, deve essere radicale e dunque trascendente, coinvolgere dimensioni della persona sino ad allora non frequentate. "Ponendo il nostro bisogno di un sé solido direttamente al centro della sofferenza umana, il buddismo promette un tipo di liberazione che va oltre la portata del metodo psicoterapeutico, realizzata con tecniche di autosservazione e di esercizio mentale sconosciute in Occidente." E nella tradizione meditativa che si trova una lucida metodologia per "lavorare direttamente con la nostra confusione in merito a noi stessi."
Appare quindi del tutto evidente che concetti ormai invalsi nella nostra cultura e nelle nostre pratiche psicoterapiche, quali quello di identità, di esame di realtà, di falso sé, di narcisismo, per non parlare di quello di inconscio, oppure ancora di scissione, coesione psichica, integrità del sé, etc. (solo per citarne alcuni), verrebbero radicalmente riproblematizzati alla luce del pensiero e della "psicologia buddista".
In realtà Epstein, coerentemente con la sua ispirazione attinente alle pratiche, più che offrirci ponderosi corpus teorici, ci espone in parole i concreti percorsi da lui intrapresi con i pazienti, coniugando gli strumenti consolidati della psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico con la disciplina buddista e le pratiche meditative. "Nel tentativo di dare forma al sé (come credono di dover fare quasi tutte le persone influenzate dai metodi terapeutici occidentali), lopportunità di lavorare con la polarità del Buddha [indicate nel senso di grandiosità e nel senso di vuoto esperiti soggettivamente e corrispondenti alle polarità dellassolutismo e del nichilismo] rischia di andare perduta. Anziché cercare di promuovere la scoperta di un vero sé, la concezione buddista mette semplicemente a fuoco le due polarità estreme, allentando così la presa inconscia che esse esercitano
"; con questo tipo di approccio, il terapeuta punterà a mettere in evidenza i modi attraverso i quali il paziente si rifugia in sentimenti di autosufficienza narcisistica o di vuoto. Questi stati, come abbiamo visto, insorgono pressoché endemicamente alla condizione umana, sorta di fenomeni autoindotti dalla sete di certezze e di stabilità che ottunde la mente degli uomini, poiché "qualsiasi affermazione riguardo al sé è destinata a venire distorta [essendo] nella natura della coscienza concettuale dare sostanza a ciò che cerca di comprendere."; questo dispositivo mentale, questa vocazione oggettivante e reificante, li troviamo allopera sia nella psicoanalisi che nella fenomenologia, ma nemmeno il buddismo, nel corso della sua lunga storia, ne è rimasto immune.
In verità, realizzato sarà quellessere che ha compreso la propria mancanza di un vero sé, che ne ha riconosciuto la vacuità e che, proprio in virtù di tale consapevolezza, può operare nel mondo in maniera matura, spontanea e sviluppata, dunque tuttaltro che regressiva; non si tratta qui di accedere ad una sorta di iniziatica o misteriosofica visione di sé, quanto di estinguere, revocare, invalidare una falsa e irreale visione di sé, diradando la falsa visione per poter guardare le cose nella loro autenticità. Nel lavoro di Epstein, pratica psicoanalitica e pratica meditativa convergono per realizzare quel comune lavoro di scavo e sottrazione, di osservazione e toglimento di resistenze, di riconoscimento e contenimento delle proprie emozioni, di distanziamento e disidentificazione dalla propria esperienze e dai propri vissuti emozionali; qui, la nuda attenzione della meditazione si appaia alla neutralità analitica e lo spazio transizionale infantile area sospesa tra lio e il non io è assimilato allo stato meditativo. Il grande contributo intrinsecamente e necessariamente terapeutico della meditazione, consiste nello spezzare lidentificazione immediata della persona con le sue esperienze interne, per mezzo della forza della consapevolezza e della nuda attenzione a quanto accade dentro di sé.
"Come la nuda attenzione, la consapevolezza significa essere coscienti esattamente di quel che accade nella mente e nel corpo nel momento in cui accade, ed essa dimostra come noi viviamo ininterrottamente in un flusso." Anche questo imprescindibile luogo della pratica buddhista sembra richiamare da vicino lepochè fenomenologica, anche se in una particolare forma che prevede una rigorosa quanto esclusiva applicazione al proprio sé : tuttavia, allinizio e alla "conclusione" (che non ha) della pratica meditativa non troveremo mai un principio egoico che si autosospende, per ritrovarsi infine, pur trasfigurato, nuovamente con sé stesso; il salto fenomenologico non può che ritornare su di sé e sullio che lo sostiene. Le esperienze della vacuità e dellimpermanenza sono invece irreversibili e svuotate di io e la concezione del sé come entità viene sradicata; tale svuotamento si rende possibile non tanto dal rendere coscienti le emozioni, quanto piuttosto come accennavamo "dallesame attento del sottostante sentimento di identificazione che accompagna lesperienza emotiva[
] Spostando lattenzione dallemozione allidentificazione con essa, lemozione viene vissuta in maniera nuova."
Con ciò non si intende recidere il legame tra la persona ed il proprio mondo interno, significa invece riconoscere e relativizzare il proprio attaccamento a determinati stati emotivi, visualizzando il terreno precario (vacuità) su cui poggiano, per poterli integrare armoniosamente, accettarli, guardarli nella loro realtà: rielaborare qualcosa significa qui accettarne lineluttabilità, mettendo al contempo in dubbio lagente di questo qualcosa, la sua intrinseca sussistenza ; vogliamo ricordare inoltre che loriginario significato etimologico del termine sunyata (vacuità) è "vuoto fertile, cavità di utero gravido". Volendo estendere il nostro parallelismo dalla fenomenologia alla psicoanalisi, osserviamo che "per una liberazione reale, il Buddha riteneva necessario riappropriarsi dellesperienza. La sua visione corrisponde a quella di Freud, e tuttavia aggiunge unaltra dimensione. Occorre riappropriarsi dei pensieri e delle emozioni, riconosceva il Buddha, ma senza la concomitante comprensione che non cè nessun proprietario "intrinsecamente esistente", quella cui aspirava Freud sarebbe una vittoria di Pirro." Lascolto del terapeuta dovrà guidare il paziente allascolto dellassenza, del qualcosa che non è, del vuoto che lo costituisce; il termine originale che designa il monaco buddista è bhikkhu che, appropriatamente, significa "colui che vede la paura, colui che può tollerare il proprio terrore." Per attenuare questo terrore, per garantire quella che Winnicott chiamava "la continuità dellessere", ma al contempo non rinunciare ad accompagnare il paziente verso la consapevolezza, il terapeuta dovrà apprendere luso della presenza, dellascolto, del silenzio: "Specialmente quando le radici della difficoltà emotiva del paziente affondano [
] in esperienze preverbali o dimenticate di cui rimane traccia in una sensazione di assenza o di vuoto, la capacità del terapeuta di colmare il momento presente della sua attenzione rilassata, è essenziale [
] (i pazienti) hanno bisogno di questo genere di attenzione per sentire il vuoto dentro di sé. Altrimenti è troppo pericoloso." La presenza evocativa del terapeuta, il suo silenzio ed il suo ascolto, ora rassicurante e contenitivo, consente al paziente di riprendere il contatto con dimensioni della sua interiorità che aveva smarrito , di riappropriasi di paesaggi emozionali da cui era stato estraniato; la pratica della meditazione, in una felice espressione di Epstein, è "una miniera di silenzio" che si armonizza con la psicoterapia in un vicendevole completamento: "Facendo emergere il senso soggettivo dell "io" in un contesto sensibile e di sostegno, la psicoterapia può fare ciò che alla sola pratica della meditazione spesso non riesce: superare gli ostacoli di una mente occidentale per scoprire e contenere il senso di estraneamento e di alienazione[
] (il buddismo, dal canto suo) offrirà lanello di congiunzione fondamentale tra lelaborazione del vecchio - i sentimenti insanabili della ferita narcisistica - e la ricerca del nuovo, che per molto tempo è sfuggito agli psicoterapeuti." Una volta guadagnato il senso profondo dell impermanenza, la vita umana sarà consegnata ad un inedito respiro di liberazione: liberazione dallattaccamento e dalla necessità dellancoraggio sostanzialista; ciascuno avrà così modo di muoversi nella vita quotidiana non più appesantito dal bisogno di tutelare il proprio io e potrà potenziare al massimo lintensità con cui, attimo per attimo, vive il divenire e le cose che esso racchiude.