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Arnaldo Ballerini, Caduto da una stella. Figure dell’identità nella psicosi, Giovanni Fioriti, Roma 2005, p. 164, Euro 15

[dopo aver pubblicato la prefazione di Eugenio Borgna al libro di Ballerini - pubblichiamo ora la recensione dello stesso libro scritta da Francesco Ragazzi]

Caduto da una stella di Arnaldo Ballerini ha il merito di essere un libro che cerca la sintesi. Si badi bene: sintetico è il libro non solo per la brevità (le pagine sono solo 111), ma, in senso più radicale, perché è animato da un costante esercizio dialettico che mette in relazione metodi e temi tradizionalmente contrapposti, con lo scopo di farne convergere gli orizzonti, superandone i limiti. Il proposito è enunciato chiaramente già dall’introduzione. "Qualcuno potrebbe essere tentato di asserire che fra ricerca fenomenologico-eidetica, che tenta di raggiungere l’essenza costitutiva dei fenomeni, e ricerca empirica che confronta dati oggettivabili, non vi è alcun rapporto se non il fatto che lo psichiatra spesso usa entrambi i metodi, consapevolmente rassegnandosi ad una sorta di salto mortale epistemico. Io invece sono tra coloro che sostengono che una tale dicotomia non è oggi più tenibile, né sul piano della prassi, né sul piano dei presupposti teorici".

E per lo più il salto mortale non è stato nemmeno tentato: si è preferita la cieca fiducia in riduzionismi ideologici, tanto che Borgna ha parlato della paura di un naufragio della psichiatria nella neurologia, mentre lo studio fenomenologico raramente si è confrontato con i dati della ricerca scientifica. D’altro canto sarebbe impensabile una psichiatria consegnata alla pura intuizione poiché l’intuizione stessa non potrebbe darsi senza essere illuminata da uno sfondo teorico anche implicito. Nessuna filosofia è priva di postulati, eppure si presta scarsa attenzione ai presupposti su cui le teorie sono fondate. Anche per il prevalere di un atteggiamento che si può definire pragmatico.

Di esempio è la grande diffusione degli psicofarmaci registrata in questi anni: è innegabile che l’intervento a livello neurobiologico appaia funzionale — accorcia i tempi di remissione dei sintomi e riduce le riacutizzazioni — ma non mancano effetti collaterali risaputi come lo sviluppo di dipendenze. Evidentemente una scelta terapeutica è sempre condotta sulla base di parametri, non ultimi quelli sociali e antropologici, su cui generalmente non si riflette abbastanza. Quando si dice che una cosa è utile, lo si fa tenendo sempre presente uno scopo limitato, che esclude altre possibilità di intervento: il concetto di utilità non è mai universale, ma si accompagna sempre ai criteri che lo determinano. Illuminante a questo proposito è la lettura di autori come Vandana Shiva (Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, 1995) e Amartia Sen, sebbene non si occupino specificamente di psicopatologia.

Come risolvere la questione evitando di compiere salti teorici, senza però cadere nel monopolio di un unico sistema? La proposta è di legare a più livelli i diversi approcci in un "circolo ermeneutico". Codificata da Gadamer e molto vicina alla Gestalt, questa teoria dell’interpretazione sostiene che la conoscenza analitica delle parti di un oggetto sia diretta da una precomprensione intuitiva di uno sfondo globale, ma questo sfondo può essere modificato a sua volta dai dati parziali dell’analisi. Così, ad esempio, per interpretare un testo, devo presupporre che la totalità delle sue parti riveli un senso unitario, tuttavia perché questo senso si riveli, devo comprendere ogni singola parte. Per il suo grande valore euristico questo circolo diventa virtuoso e non vizioso. Trasferito il metodo in psichiatria, la fenomenologia ha il compito di scardinare le categorie nosografiche troppo rigide, vagliandone i modelli entro cui sono state costruite; al contempo ha il dovere di verificare se le proprie intuizioni coincidono con i dati empirici.

E’ pregio del libro non rimanere semplicemente una dichiarazione d’intenti: le possibilità di applicazione del circolo ermeneutico sono testate perfino sulla dicotomia più ostica, tra neuroscienze e fenomenologia. Lo studio dei neuroni mirror apre a interpretazioni molto vicine al tema husserliano della paarung. In Husserl si legge: "il Leib estraneo non può essere colto come Leib senza che io lo comprenda come Leib che è proprio là e che, ˜visto dall’interno›, appare come internamente apparirebbe là il mio Leib". Il filosofo vuole dire che perché si formi nella mia coscienza l’idea di un altro soggetto distinto da me, devo presupporre che il suo non sia un mero organismo fisico (Körper), ma sia corpo vissuto (Leib) così come io "dall’interno" percepisco vivente il mio. Come se ci specchiassimo nella persona a noi di fronte, in una dimensione intersoggettiva contemporaneamente costruiamo l’idea dell’Altro e la nostra identità sociale. La specularità con cui tratto la mia soggettività e quella degli altri è chiamata appaiamento o abbinamento, in tedesco paarung. Con sorprendente concordanza, esistono nei primati e nell’essere umano gruppi neuronali (mirror neurons) che si attivano in corrispondenza di gesti finalizzati ed espressivi di un interlocutore, mimandone in qualche modo internamente l’attività. In altre parole il circuito risponde come se riconoscesse sua l’azione che osserva. Lo specchio descritto a livello fenomenologico intuisce ciò che i dati empirici rilevano, ovviamente se si è disposti a credere che fisico e psichico abbiano tra loro natura omogenea. Ecco messo in moto il circolo ermeneutico.

La psicopatologia fenomenologica deve fare anche i conti con una dialettica interna. Due autorità hanno fatto sentire su tutte la loro influenza. Differente tra loro è il modo di considerare nell’individuo il rapporto tra personalità pre-psicotica e insorgenza della malattia mentale. La tassonomia di Jaspers, almeno nella Allgemeine Psichopathologie, è modellata sulla coppia comprensibile/incomprensibile: compito della fenomenologia soggettiva è accostarsi all’alienato attraverso l’istituzione di una relazione che faccia leva sugli aspetti intuitivamente ancora comprensibili della sua personalità; dove la comprensibilità finisce, la fenomenologia si ferma per lasciare il posto alla tradizionale psicopatologia esplicativa, in cui le relazioni psichiche non sono più vissute, ma ricondotte a cause. Binswanger non accetta il limite imposto alla fenomenologia: attraverso un’analisi strutturale, coglie oggettivamente nel malato una sostanziale unità tra carattere pre-psicotico e io collassato nel disturbo mentale. Ballerini, ancora una volta, cerca la mediazione e lo fa dimostrando quanto, prima di tutto, sia la lunga esperienza sul campo a dare autorità alle sue parole: "l’esercizio della psichiatria si fonda su una continua, innaturale, modulazione della distanza intersoggettiva tra psichiatra e paziente.

Soltanto posizioni di un estremismo radicale — o costante immedesimazione o costante oggettivazione — conducono a psichiatrie opposte e impossibili". Avvicinandosi nettamente alla fenomenologia oggettiva, lo psichiatra esorta a considerare la patologia in termini di prevalenza-sproporzione di aspetti costituenti l’identità di ciascuno. E’ altrettanto vero che egli riconosce all’approccio soggettivo l’utilità di evidenziare il fatto che l’insorgenza della psicosi corrisponde alla percezione di un quid novum: una frattura irreversibile rispetto al flusso di esperienze precedenti, segnata dalla certezza angosciante che qualcosa nella propria vita è cambiato. Il quid novum, tuttavia, non deve essere relegato nella categoria dell’incomprensibile: non è detto che elementi di un delirio, inizialmente inaccessibili allo psichiatra, non siano fondamentali per successive intuizioni che approfondiscano la relazione terapeutica. Le categorie di comprensibile e incomprensibile vengono rese fluide dalla mediazione di una comprensione genetica del percorso individuale, possibile solo dopo una lunga e attenta frequentazione dello psichiatra con il mondo dello psicotico.

Paradigma dell’intero saggio, il delirio di filiazione — in cui ad esempio il paziente misconosce i genitori naturali e afferma di essere "caduto da una stella" — può essere interpretato come lo sviluppo di una fantasia infantile. Ma c’è una seconda possibilità di esaminare il tema delirante. Il delirio sulle origini dice qualcosa sulle origini del delirio. La filosofa spagnola Maria Zambrano descrive il venire al mondo come il trovarsi di fronte alla domanda "chi sono?". Il tema della nascita è strettamente legato a quello dell’identità.

La narrazione delirante degli schizofrenici si svilupperebbe sulla figura del "trovatello"; l’evocazione di questo bambino senza genitori, che sembra essersi generato da se medesimo attraverso un’autocreazione, rinvia ad un’identità irrimediabilmente ferita: ad una costruzione mancata della distinzione tra Sé e Altro, ad una difficoltà, tipica dell’autistico, di vivere relazioni affettive. L’identità psicotica apre una necessaria riflessione su cosa si debba intendere per identità in sé. Il riferimento filosofico del saggio non poteva che essere Paul Ricoeur: un pensatore che ha tentato forse la più difficile sintesi della contemporaneità, facendo incontrare la fenomenologia e l’ermeneutica con il pensiero analitico angloamericano. In opere come Soi-mème comme un autre, l’identità viene dinamicizzata in una sorta di anima tripartita, le cui direttrici sono:

  • Idem (essere lo stesso): si realizza in un’organizzazione strutturale stabile che permane nel tempo. Il fattore di permanenza ha come condizione necessaria l’attribuzione di un ruolo sociale riconosciuto da parte della comunità. Potremmo dire che a questo livello l’essere umano è solo una persona, nel senso letterale di maschera, di carattere o di tipo.

  • Ipse (essere se stessi): è descritto come "mantenere la parola data nella variazione del tempo". Sta ad indicare che l’identità si conserva, pur nel succedersi di avvenimenti nuovi, anche nel caso in cui essi rivoluzionino l’intero assetto della persona. Se prima si è parlato della figura della maschera, ora l’essere umano viene illuminato sotto la luce della sua individualità specifica. Quasi un ideale regolativo, afferrabile solo al compimento della propria vita: in un bios teleios come direbbe Aristotele.

Manca ora la terza dimensione identitaria che armonizzi medesimezza e ipseità. Perché avvenimenti nuovi vengano integrati in una struttura, che a sua volta sia flessibile ai cambiamenti, il soggetto deve riconoscere come appartenenti a sé i propri vissuti psichici; deve poter dire: "questa sensazione, questa emozione, questo pensiero mi appartengono". Chiamata da Ricoeur meità, negli psicotici la competenza è danneggiata in vario grado. Ipse e idem sono scissi. Se vogliamo ragionare in termini dialettico-proporzionali, come si differenziano i temi del delirio di filiazione nel depresso e nello schizofrenico, così accade per la costruzione delle loro identità. La personalità depressa tende a privilegiare l’identità idem, entrando in crisi una volta che il suo ruolo sociale venga messo in discussione; al contrario è proprio l’assunzione di un ruolo sociale a generare spesso le prime pesanti fasi acute della schizofrenia, polarizzata sull’identità ipse.

Per capire in che senso lo schizofrenico sia fissato sull’ipseità, interessante è confrontarsi con la nozione che la Grecia arcaica dà di "evento". Tradotto nel latino eventum, il greco tuche è spesso accompagnato dal genitivo tseon. L’evento della sorte è sempre manifestazione del dio: precisamente del divino che Anassagora chiama apeiron periechon , il senza limite che tutto abbraccia. L’evento però è sempre relazione di due termini. Eventum est id quod quicumque èvenit, ciò che accade a qualcuno: perché un semplice accadimento diventi un evento, deve esserci qualcuno, un individuo, che lo senta come un accadere diretto proprio a lui dalla sorte. Senza dilungarmi a sottolineare quanto la prima filosofia greca sia vicina all’esistenzialismo di Heidegger, mi limito a far osservare che anche nella realtà dello schizofrenico non ci sono che due elementi: un Mondo che sembra presentarsi sempre tutto intero, che abbraccia, meglio, stringe tutto col suo alone di minaccia o di magnificenza, e un soggetto caratterizzato da una sproporzionata impressionabilità, il quale reagisce alla gran parte degli accadimenti come se lo riguardassero, come se fossero eventi. In questa realtà la relazione comunitaria è esclusa e, lasciata da parte la comunità, viene meno la dimensione umana essenziale dell’Essere-con (Mit-Sein).

Torniamo a Ricoeur. La dinamica istituita dalla meità permette di coordinare il flusso degli eventi all’interno di una concatenazione unitaria; permette che l’identità personale abbia la possibilità di narrarsi entro un tempo avvertito come proprio dall’Io e come accettabile dalla comunità. Che ne è delle narrazioni psicotiche? Riempimento di una lacuna nella comunicazione Sé-Altro, per Ballerini i deliri rappresentano l’unica possibilità di rifondare un’identità naufragata: la ricerca di una nuova narrazione, sebbene incoerente. In questo senso si potrebbe tentare un avvicinamento della fabula delirante con la metafora così come è intesa dal filosofo francese.

Ricoeur polemizza con le teorie retoriche che relegano la metafora ad artificio sostitutivo del nome usato come abbellimento: piuttosto che legato all’ordine dei nomi, esso è un fenomeno che riconduce gli enunciati entro un orizzonte di senso. La macchina metaforica ha una presa ambivalente sulla significazione. Considerata da un punto di vista logico, essa veicola un errore categoriale; non rispetta cioè le distinzioni codificate di specie e genere, compiendo attribuzioni impertinenti.

L’affermazione "Francesco sei una bestia" non fa altro che confondere campi semantici distinti, come animalità/umanità. La metafora, tuttavia, può anche svolgere una funzione positiva: può ad esempio ridistribuire le relazioni tra gli elementi del sistema linguistico, producendo incrementi di senso e nuove intuizioni sul mondo.

In parallelo, attraverso un’esperienza ben più tragica, il delirio psicotico è stato considerato, entro un’ottica razionalistica e intellettualistica, come un errore del pensiero, mentre si può pensare che esso rappresenti il disperato tentativo di ritessere le fila di un mondo di cui non si riescono più ad afferrare le categorie condivise: una nuova narrazione appunto.

Azzardiamo un’ipotesi: l’irruzione della novità dell’evento nella struttura identitaria potrebbe essere elaborata seguendo la strada della metafora anche in situazioni non psicotiche. Potrebbe essere un modello esplicativo universale. A mia disposizione ho solo un esempio. Prodotto e diretto da Jenny Livingstone, Paris is burning (1991) è un documentario sulle sale da ballo per travestiti di Harlem. L’articolazione delle relazioni tra le diverse sale è organizzata secondo un complesso sistema che mima quello parentale, sviluppandosi in case, i cui proprietari/ie sono chiamate/i madri, le quali a loro volta dirigono uno staff di figli. Il meccanismo metaforico è evidente: invadono la scena omosessuale termini propri della famiglia eterosessuale. Lo scopo di questa risignificazione delle parentele si trova considerando l’intreccio di razza, status economico e genere che individua socialmente i frequentatori delle sale. La totalità dei travestiti che animano le serate è portoricana e afro-americana; rischia perciò di subire discriminazione e violenza sia da parte della classe dominante, sia da parte della comunità d’origine. La metaforizzazione delle relazioni permette una difesa simbolica contro la moltitudine di pericoli accumulati da queste identità plurivulnerabili, ma anche la costruzione reale di una comunità alternativa e accogliente.

Continuando l’analogia: così come quella sorta di linguaggio privato istituito tra i transessuali ha avuto una funzione rassicurante, paradossalmente lo psicotico dimostra di essere meno angosciato dal momento in cui il delirio si sistematizza in fabula, piuttosto che nella fase precedente in cui il contatto con la realtà è parzialmente conservato. Ovviamente, il delirio visto come processo metaforico non è altro, ancora una volta, che una metafora. Per prima cosa lo psicotico non riconosce la propria "metaforicità": non ricostruisce un mondo, ma ne subisce una perpetua minaccia alla quale non si può sottrarre. Inoltre, il transessuale, pur riconoscendo come fasulla l’identità sessuale di cui si vuole sbarazzare, si confronta con la realtà e ne sfrutta i mezzi per raggiungere i suoi scopi. Un confronto, questo, che la psicosi non permette.

Tuttavia, usare il modello metaforico per parlare del delirio ci consente di evidenziare il rapporto che esso intrattiene con la verità. Lo schizofrenico, a differenza del paranoico, non usa particolari irrilevanti della realtà per confermare le sue convinzioni: la verità gli viene svelata di colpo. D’altro canto, lo si sa, la metafora — come ci ha insegnato Ricoeur — fa cogliere intuitivamente verità ontologiche.

E ancora. L’associazione di delirio e metafora permette di compiere quello che forse è lo spunto teorico più fertile del saggio di Ballerini: il tentativo di affiancare, allo studio fenomenologico della struttura, anche quello dei rapporti che si creano tra i temi del delirio e l’identità personale.

Francesco Ragazzi

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