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Psichiatria, fascismo e nazismo, numero monografico della "Rivista Sperimentale di Freniatria", vol. CXXXIII, n. 1, 2009 di Elisabetta Basso (elisabetta.basso@free.fr)

 

Che la storiografia della psichiatria sollevi problematiche che vanno ben oltre la semplice definizione di date e periodizzazioni, è ormai assodato fra gli storici più avveduti di questo ambito di studi, indipendentemente dalle diverse scuole di pensiero che ne guidano attualmente le rispettive indagini. Già all’inizio degli anni novanta, Andrew Scull metteva in luce come gli storici della psichiatria andassero via via abbandonando l’intento — ma anche la "moda", invalsa a partire dalla Storia della follia foucaultiana — di tracciare delle reinterpretazioni macroscopiche e radicali, apologetiche o meno, della "psichiatria" nel mondo occidentale, per concentrarsi invece sul ruolo e sulle competenze da essa assunti nel contesto di realtà e periodi più circoscritti, documentati a partire da una ricerca d’"archivio" ad un tempo più modesta e più puntuale di quella fondata sull’"archivio" teorizzato dall’archeologia del sapere (cfr. A. Scull, Psychiatry and its Historians, "History of Psychiatry", 2, 1991, pp. 239-250). Non si tratterebbe più, allora, né di tracciare le linee di un’evoluzione "presentista" del sapere e delle pratiche psichiatriche, né di opporre alla storia della psichiatria un’antistoria polemica che ne demistifichi il carattere ideologico, ma piuttosto di indagare le molteplici e peculiari dimensioni assunte da tale disciplina lungo le diverse fasi o momenti che ne hanno caratterizzato il percorso fino ai giorni nostri. E tuttavia, non per questo lo storico si troverà costretto a rinunciare al carattere critico delle sue analisi per limitarsi a registrare "nude coordinate cronologiche" o "pure scansioni legislative o giurisprudenziali". Come sottolinea Ferruccio Giacanelli nell’intervista rilasciata in questo numero monografico della "Rivista Sperimentale di Freniatria" su Psichiatria, fascismo e nazismo, il lavoro dello storico consisterà nel definire "alcune linee portanti", alcune "vie d’accesso ad una migliore comprensione della costruzione progressiva" di quel particolare fascio di relazioni e sintonie che la disciplina psichiatrica intrecciò con quelle due peculiari forme di totalitarismo che furono fascismo e nazismo (Gli psichiatri e il regime. Ipotesi per una ricerca. Intervista con Ferruccio Giacanelli, pp. 73-85).

Si tratta di un’impostazione che rivela la propria ambizione epistemologica esattamente attraverso questa "modestia" storiografica ed ermeneutica di cui si fa portatrice, un’ambizione che si traduce nella profonda consapevolezza che la psichiatria, più di qualsiasi altra "disciplina", non si riduce e non potrà mai ridursi a un insieme di conoscenze autonome e via via più definitive, ma — come ha messo bene in luce Georges Lanteri-Laura — "esiste e si manifesta ad un tempo come trama di specificità il cui centro sembra possedere una coerenza propria, e come un fascio di relazioni con ciò che si allontana da tale centro" (cfr. Psychiatrie et connaissance. Essai sur les fondements de la pathologie mentale, Sciences en situation, Paris 1991).

È precisamente questo l’intento generale che la presente raccolta di saggi intende perseguire, partendo da quella stessa considerazione con cui si concludeva la genealogia foucaultiana dell’"anormalità" nell’ambito della psichiatria del XX secolo (Le anormaux. Cours au Collège de France (1974-1975), Paris, Gallimard-Seuil, 1999; tr. it. di V. Marchetti e A. Salomoni: Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000, lezione del 19 marzo 1975), che ora Mauro Bertani ripropone nel suo Editoriale sottoforma di domanda: "Come mai la psichiatria ha potuto funzionare così bene e spontaneamente sotto il fascismo ed il nazismo?" (p. 5). L’impostazione stessa del problema possiede un significato epistemologico di rilievo, dicevamo, nella misura in cui l’interrogativo rivolto alla psichiatria, in tutti i saggi raccolti in questo volume, non riguarda mai la sua "natura" di disciplina specifica, ma il suo "funzionamento" all’interno di un contesto storico, sociale e culturale determinato. Un contesto, tuttavia, che non la determina esteriormente, ma alla cui architettura essa stessa contribuisce in massima parte, nella forma di un’immanenza cronologica e concettuale. Si tratta di un’ottica che troviamo espressa in modo esplicito in particolare nel saggio di Francesco Migliorino (Bonifica umana. La clinica dell’uomo nuovo, pp. 61-72), che si prefigge di seguire non i "precedenti" dell’antisemitismo nazista, ma, nietzscheanamente, l’"Herkunft", la "provenienza" (p. 65), ovvero la progressiva formazione di quell’"officina" ad un tempo di sapere e di potere che fu la psichiatria in quanto "dispositivo scientifico di profilassi sociale" (p. 67). A costo di utilizzare un linguaggio fenomenologico che rischia di sembrare fuori luogo in questa disamina storiografica ed epistemologica, potremmo dire che psichiatria e fascismo, in questo volume, vengono colti a partire da un comune "orizzonte di senso", vale a dire non più secondo il paradigma tradizionale dell’"ideologia" o del "costruzionismo sociale", ma a partire da quel "progetto" o configurazione comune agli stati XX secolo che è la "governamentalità biopolitica".

Entro questa prospettiva, il recupero delle memorie dell’operato dei "gerarchi di manicomio", come ci spiega Giacanelli (cit., p. 82), non sarà fine a se stesso, ma avrà lo scopo di tracciare il contorno di quel "progetto "biocratico" di cui la psichiatria ha delineato l’architettura fin dai primi del ’900, dando vita ad una miriade di interventi e iniziative, di cui il fascismo ed il nazismo raccoglieranno, per molti versi, l’eredità". Il contributo di Emilio Maura e Paolo F. Peloso (Allevatori di uomini. Il caso dell’Istituto biotipologico ortogenetico di Genova, pp. 19-35) risponde precisamente a questo intento. Il programma "ortogenetico" messo in opera nel 1926 da Nicola Pende (1880-1970) nell’Istituto da lui fondato presso la clinica medica dell’Università di Genova, infatti, viene collocato in quell’"atmosfera culturale e in quell’ispirazione che sono ancora le stesse in cui, un secolo prima, era nata l’utopia manicomiale: la responsabilità, che l’élite intellettuale avvertì tra Sette e Ottocento, non solo di governare, ma di costruire la società" (pp. 21-22). Ed è in questo frangente, appunto, che i due autori si richiamano proprio al concetto foucaultiano di biopolitica, come quella "pratica della governamentalità che non si accontenta di avere per oggetto il controllo dei comportamenti e delle espressioni, il controllo politico tradizionale esercitato dalla polizia, ma ha per oggetto il corpo stesso, con le sue emozioni e i suoi pensieri. La medicina non si occuperà da allora più di individui […] ma sarà trascinata dalla nascita dello stato moderno e dalle grandi battaglie preventive nel campo delle malattie contagiose, ad assumere sempre più responsabilità di carattere pubblico che hanno a che fare con la vita sociale" (p. 22).

La tesi che emerge da tale impostazione del problema viene esplicitata dal contributo di Francesco Paolella, il quale — a partire da un interessantissimo spoglio analitico dell’"Archivio fascista di medicina politica" (bimestrale pubblicato a Parma fra il 1927 e il 1932, al quale contribuirono numerosi psichiatri) — mostra che se l’attuazione del progetto "governamentale" della "medicina politica" diviene possibile "grazie alla novità storica rappresentata dal governo fascista", ciò non significa tuttavia che tale progetto sia da ascrivere esclusivamente al fascismo (Archivio fascista di medicina politica, pp. 37-59, p. 41). "Grazie al fascismo è finalmente possibile mettere in campo reali politiche di lotta contro le malattie sociali, difendendo il popolo lavoratore dall’eredità patologica e dalla degenerazione morale e fisica della stirpe" (p. 39). Tali politiche, tuttavia, in realtà affondano le radici — nel caso italiano — nella tradizione della medicina sociale di Bernardino Ramazzini e Guido Baccelli (p. 41), così come è la scuola lombrosiana a tornare in auge allorché i medici fascisti si fanno promotori, attorno al tema della delinquenza, di un "indirizzo scientifico" in criminologia e giurisprudenza (p. 53).

A tale proposito, ci permettiamo di rimandare a un’altra rivista che di recente si è occupata di questi stessi temi, focalizzandosi in particolare sul nazismo, le cui indagini interesseranno certamente chi volesse approfondire i problemi qui esposti: Cultura nazista? La tentazione letale degli intellettuali del Novecento, n. mon. "La Rosa di Nessuno", 2, 2007 (segnaliamo in particolare il contributo del curatore, Andrea Cavazzini, De la bio-politique à l’extermination. Contribution à une archéologie du National-socialisme, pp. 27-65).

Psichiatria, fascismo e nazismo, dunque, è un binomio le cui radici non affondano nello spazio ristretto di un decennio o di un ventennio: "la bonifica umana non è stata la messa in opera di uno sciagurato progetto pensato da una minoranza di esaltati" (Migliorino, cit., p. 70). Il processo che approda alla teorizzazione e all’attuazione di eugenetica e ortogenetica, in realtà, "investe tutto il XIX secolo e s’intreccia strettamente, e si confonde, con l’utopia dell’approdo, per la prima volta avvertito possibile e vicino, a una società cristallizzata nella perfezione, nella razionalità e nella disciplina" (Maura e Peloso, p. 22). Ed è per questo, dunque, per il fatto cioè di aver focalizzato l’attenzione sulla "provenienza" comune delle pratiche eugenetiche e ortogenetiche, che questa raccolta di saggi ha scelto di riunire in un unico volume dei contributi incentrati sulla psichiatria istituzionale inerente alle realtà rispettivamente del fascismo italiano e del nazismo tedesco, senza insistere troppo sulle specificità che li contraddistinguono. La "scienza della salute" fascista e l’"eugenetica positiva" nazista vengono infatti iscritte entrambe in quella forma di "totalitarismo biologico" "già collaudata in tutta Europa, che aveva fatto delle indistinte masse umane un corpo collettivo vivente da governare con le politiche della salute, dell’igiene, della natalità, della longevità, della razza" (Migliorino, cit., p. 70). Anche Maura e Peloso, dunque, pur soffermandosi sulla distinzione tra l’ortogenetica italiana (o eugenetica "negativa") — sviluppatasi sulla base della scuola costituzionalista e fondamentalmente di matrice cattolica, caratterizzata dalla "rinuncia a qualsiasi intervento sull’individuo prima della nascita sull’atto procreativo" (p. 20) — e l’eugenetica "radicale" tedesca — volta invece alla sterilizzazione e all’eutanasia di massa — concludono sottolineando come, "a parte queste importanti differenze, le due dottrine condividono moltissimo: i presupposti, le finalità, l’atmosfera culturale, il linguaggio", e in fin dei conti, "da "allevare" gli uomini come animali a "macellarli" come animali […] il passo può essere tragicamente breve" (ibid.).

Benché l’anarchico italiano Camillo Berneri (1897-1937), nel testo tradotto dal francese in questo stesso volume, a proposito promulgazione della legge hitleriana sulla prevenzione delle nascite affette da malattie ereditarie, si dicesse "stupito di constatare che giornali di sinistra (quale "La Patrie humaine", 28 luglio 1933) richiedono una legge identica per la Francia", in realtà non fu un caso che anche al di fuori della Germania simili idee riscontrassero un così forte successo (cfr. "La stérilisation hitlerienne". Un testo inedito di Camillo Berneri, a cura di Francesco Paolella, pp. 9-17, p. 17. Su questo, si veda anche il contributo di Rael D. Strous, Gli psichiatri di Hitler. Un "insight" storico ed etico, pp. 103-115). Probabilmente il significato ultimo di questo numero monografico della "Rivista sperimentale di freniatria" va individuato proprio qui, in questa ricerca delle costanti strutturali delle pratiche governamentali, che ci mostra come tale indagine storica e documentaristica — "faticosa e difficile […] a lungo interrotta a seguito di dinamiche di rimozione e di negazione", ci ricorda Michael von Cranach (Motivazione dell’agire dei medici che hanno applicato l’eutanasia nel regime nazi-fascista, pp. 87-101) — da testimonianza storica si faccia monito per il presente. Sarebbe un errore — scrivono Maura e Peloso — "considerare lontani nel tempo e di esclusivo interesse storico" i problemi che la vicenda della psichiatria durante fascismo e nazismo solleva. "Se Pier Aldo Rovatti apre un recente numero della rivista Aut Aut con la constatazione che "[…] la medicalizzazione della vita oggi è un dato di fatto", significa che essi rimandano invece a questioni oggi al centro della biopolitica, quali il rapporto tra il concetto di salute dell’individuo come elemento di interesse collettivo e come suo affare intimo, privato; e il rapporto tra diagnosi precoce e prognosi psicologica, da un lato, e dall’altro pudore, libertà, dignità della persona e aleatorietà del suo destino. […] La vita non è un presupposto opaco né un residuo, un fondo scientificamente dato e misurabile, ma l’apertura di una prospettiva individuale, qualcosa che riguarda il futuro di questo individuo (la soggettivizzazione di questo futuro)"" (pp. 27-28).

Per concludere, vorremmo rilevare un ulteriore problema che sembra emergere, seppur implicitamente, dalla raccolta di saggi che abbiamo presentato. In un convegno tenutosi una decina d’anni fa presso l’I.R.S.E.S.C. di San Servolo su questo stesso tema (cfr. Atti del convegno: Psichiatria e nazismo. San Servolo, 9 ottobre 1998, a cura di Diego Fontanari e Lorenzo Toresini, Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 2002), Mario Galzigna richiamava l’attenzione su una nota introduttiva del dépliant relativo, che recitava come segue: "Interessa evidenziare quanto la psichiatria nazista si colleghi con alcuni presupposti della psichiatria istituzionale". Ci sembra che questo volume della "Rivista sperimentale di freniatria", attraverso l’analisi delle strutture della governamentalità biopolitica, abbia contribuito ampiamente a evidenziare tali presupposti. La questione che non possiamo fare a meno di porci, tuttavia, concerne più da vicino la relazione fra "psichiatria" e "psichiatria istituzionale". Se è vero, come suggerisce Rael D. Strous nel suo saggio, che "la psichiatria per sua natura assume le ideologie correnti nei suoi approcci al singolo e alla società" (cit., p. 111), e se è vero, come hanno ben dimostrato gli esempi della psichiatria durante fascismo e nazismo, che questa disciplina è in fondo priva di uno statuto epistemologico che le consenta di perseguire un fine neutrale rispetto alle relazioni che intrattiene con gli altri saperi-poteri, ne dovremo forse concludere, allora, che la psichiatria stessa, alla stregua di quel disparato coacervo di saperi riunitisi attorno al progetto eugenetico, è destinata a rimanere a sua volta "una sorta di meta sapere senza fondamento"? (cfr. Migliorino, cit., p. 70). In altre parole: se la psichiatria "in sé" è un sapere epistemologicamente debole, ciò significa forse che la sola forma che essa è in grado di assumere è quella istituzionale?

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