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Aldo Pardi, Il sintomo e la rivoluzione. Georges Politzer crocevia tra due epoche, Introduzione di Etienne Balibar, Roma, Manifestolibri, 2007, 206 p

 

Se abbiamo deciso di soffermarci su questo saggio di Aldo Pardi è per almeno due buoni motivi. Innanzitutto, esso ha il grande merito d’essere in assoluto la prima monografia — e non solo in Italia — a tracciare il profilo della figura intellettuale di Georges Politzer. Ma non solo. Nel farlo, infatti, esso non si limita a riprendere quel volto di Politzer noto in Italia attraverso le sue traduzioni degli anni settanta, ovvero quello del filosofo che interroga i fondamenti epistemologici della dottrina freudiana e che polemizza contro il "bergsonismo", ma sa cogliere e mettere in luce un aspetto inedito di questa critica filosofica della psicologia, ovvero quell’aspetto che spinge Pardi ad accostare la "psicologia concreta" politzeriana ad un’ispirazione di tipo "fenomenologico".

Si tratta, ci sembra, di una questione di forte e attuale importanza nell’ambito della ricerca psicologica e psichiatrica, di una questione che fa problema al di là dell’esegesi di questo specifico autore, ed è proprio per questo che abbiamo scelto — con le seguenti riflessioni — di soffermarci su questo particolare versante del saggio di Pardi. Si tratta d’altronde di una problematica che proprio in Politzer si fa particolarmente visibile, nella misura in cui l’esigenza di elaborare una psicologia in grado di rendere conto del carattere "concreto", "vissuto" dell’esperienza, costituirà la base di quella "psichiatria fenomenologica" che proprio in Francia — a partire dagli anni quaranta — non esiterà a fare riferimento al programma politzeriano nel tentativo di definire le prerogative di una critica filosofica della psicologia e della psichiatria "classica". Ma andiamo con ordine e, prima di tornare a discutere questa che costituirà la tesi centrale della nostra disamina, cerchiamo di ripercorrere le tappe teoretiche principali dello stimolante studio di Aldo Pardi.

A questo proposito, ci sembrano particolarmente preziose le osservazioni generali attraverso cui viene definito il carattere dell’opera di Politzer e, di conseguenza, l’impostazione stessa che necessariamente dovrà assumere uno studio su di essa. Così, ribadisce giustamente Pardi in numerose occasioni nel corso delle sue analisi, "la psicologia concreta è più un abbozzo di teoria di un giovane studioso ricco di temperamento", un’intuizione "che ha colto delle verità, ma che non le ha seguite fino in fondo" (p. 20). O ancora: "Si avverte in Politzer uno sforzo, più emotivo, spontaneo, che razionale" (p. 170), del suo pensiero "si avvertono le intuizioni" (p. 15) più che una regolare successione teoretica. È proprio tale carattere fortemente intuitivo, personale ed "emotivo" della ricerca del filosofo francese che ne fa un "autore complesso nel pensiero e nella vita" (p. 16), ed è per questo, quindi, che nel rifiuto politzeriano della psicologia classica è manifesto anzitutto il rigetto dell’intellettuale-Politzer nei confronti della figura dello studioso distaccato, del filosofo che seziona "in terza persona" il suo oggetto di studio. Ecco allora perché la condizione di possibilità del tracciare il contorno dell’"opera" di questo originale filosofo non potrà che consistere nella messa in luce dell’inscindibilità di biografia e pensiero, di vita e teoria, ciò di cui, appunto, Pardi rende bene conto nella prima parte del suo lavoro. L’analisi della speculazione di Politzer, insomma, non potrà che assumere la forma anzitutto di una biografia intellettuale, all’interno della quale, solo, il succedersi di tappe e progetti filosofici assumeranno la loro specifica ragion d’essere.

È esattamente nel quadro di considerazioni di questo tenore — considerazioni con le quali, per parte nostra, non possiamo che concordare — che va a collocarsi la tesi centrale del volume, ovvero l’idea che la "psicologia concreta" politzeriana, "accentuando l’importanza del vissuto intenzionale, fornisce una direzione del tutto nuova — che Pardi non esiterà a definire "fenomenologica" — per la psicologia" (pp. 175-176). Ciò che questo "autore ricco di spunti originali, ma estremamente frammentario" (p. 172) offre allo studioso è anzitutto una direzione per la ricerca psicologica, "la sua è più un’intuizione della natura particolare di questa disciplina, frutto di un ingegno e di una sensibilità non comuni, che uno studio meditato" (pp. 171-172). Ma è proprio sulla base di considerazioni di questo tipo, tuttavia, che abbiamo difficoltà a seguire Pardi nello sviluppo ulteriore ch’egli imprime al suo studio, nella misura in cui — dopo aver messo in luce il carattere solamente intuitivo della "fenomenologia" politzeriana — egli finisce per qualificare il filosofo francese come "lo scopritore dell’intenzionalità come categoria definitoria della soggettività psicologica" (p. 17), come colui che, rompendo con gli schemi delle teorie psicologiche del suo tempo, avrebbe "scoperto", mediante il concetto di "soggettività drammatica", "il soggetto trascendentale nella sua formulazione psicologica" (p. 142). Ma non solo. Pardi si spinge infatti sino a tracciare un parallelo fra le analisi di una ricerca "emotiva" e frammentaria qual è quella di Politzer, nientemeno che con la concettualità husserliana, e in numerose occasioni si azzarda sul terreno quanto mai insidioso di affermazioni secondo cui Politzer avrebbe descritto "il processo psichico come un’azione del soggetto, complessa e multiforme, esattamente come Husserl", giacché "entrambi assegnano al soggetto trascendentale, o io, la responsabilità completa degli atti in cui si pone" (p. 127). E ancora: "Il tendersi del soggetto in manifestazioni attive come suo proprio essere, l’atto, inteso come termine principe della dialettica dell’umano e dell’ambiente in cui è inserito, senza ulteriori rimandi, sono categorie che Politzer e Husserl condividono totalmente" (p. 126). Lo stesso dramma, concetto che il filosofo francese introduce quale nucleo ermeneutico in grado di rendere conto dell’insuperabile storicità, ovvero individualità del "soggetto" di una psicologia da intendere come praktische Menschenkenntnis, viene fatto assurgere da Pardi a categoria, e in quanto tale fatto coincidere con l’intenzionalità husserliana. Così — sostiene Pardi — "Politzer coglie la centralità della riflessione soggettiva per la comunicazione e la conoscenza dei contenuti delle intenzioni trascendentali, accostandosi idealmente ad una ricostruzione della razionalità della psicologia secondo processi di categorizzazione dei contenuti trascendentali stessi. Lo stesso percorso accennerà Husserl nella Crisi" (p. 162); "per quanto Politzer non parli mai di coscienza, i concetti di atto e di io da lui usati non possono non richiamare il "cogito" trascendentale husserliano […] in tale senso l’io si caratterizza come soggetto, e precisamente come soggetto trascendentale in termini fenomenologici" (p. 125), giacché "il fenomeno psichico reale è l’io e i suoi atti, cioè l’attività intenzionale del soggetto, in altre parole, la soggettività trascendentale" (p. 130). La ricerca di Politzer, dunque, "permette alla psicologia di confrontarsi con una nuova definizione di ciò che le è pertinente, il soggetto trascendentale presente in una situazione specifica" (p. 167). E le citazioni potrebbero continuare.

Leggendo questi passaggi del saggio di Pardi, pertanto, non possiamo esimerci dall’esprimere l’impressione che lo studioso — pur cogliendo acutamente un aspetto inedito e certamente fecondo del pensiero di Politzer — abbia quanto meno finito per far dire a quest’ultimo molto più di quanto esso abbia effettivamente intuito con le sue nozioni di "atto", "dramma" e quindi di "psicologia concreta". Ma c’è di più. Incentrando la sua analisi della critica politzeriana della psicologia classica sull’affinità che essa manifesterebbe con la nozione husserliana di "soggetto trascendentale", Pardi rischia di perdere quanto risulta invece, ai nostri occhi, come l’intuizione autenticamente vincente del suo studio, ovvero l’idea che proprio da questo sentore così frammentario e solo vagamente "fenomenologico" della critica filosofica che Politzer muove alla psicologia, si debba partire se si vuole cogliere il ruolo che quest’ultima ha giocato nella ricerca filosofico-psicologica francese ad essa successiva. Più in particolare — nell’ottica che intendiamo proporre attraverso l’analisi di questo saggio — ci sembra che la "fenomenologia" che affiora dalla spinta verso il "concreto" avvertita dalla psicologia politzeriana assuma un valore notevole se messa in relazione all’utilizzo e quindi alla trasformazione che la psichiatria cosiddetta "fenomenologica" ha fatto subire, in Francia, già a partire dagli anni venti-trenta, alla fenomenologia husserliana. Una psichiatria, d’altronde, che non ha esitato in numerose occasioni a citare Politzer — esplicitamente o meno — proprio nell’intento di recuperare alla ricerca psicologica la dimensione "concreta", "vitale", "personale" del vissuto di cui l’approccio sperimentale-scientifico non era stato in grado di rendere conto. Nell’ottica di chi scrive, pertanto, ciò che Pardi insiste nel qualificare come "soggettività trascendentale" del programma psicologico politzeriano, altro non sarebbe, in realtà, che un’ispirazione nata più dal rifiuto di ciò che la psicologia classica — materialista o spiritualista, ma in ogni caso "astratta" — aveva attribuito al soggetto-oggetto psicologico, che da un’intenzione teorica filosoficamente "forte" qual è quella che emerge, invece, dalla speculazione husserliana.

Ciò che vorremmo suggerire in queste pagine, quindi, in alternativa all’operazione di tracciare un rischioso parallelismo esteriore fra i due autori, è l’opportunità di andare a vedere che cosa, ma soprattutto come Politzer è stato ripreso e utilizzato da quella corrente filosofica che in Francia si trova a citarlo proprio nel momento in cui intende dare una svolta "fenomenologica" alla psichiatria, e che a questo scopo compone in un unico disegno le intuizioni della fenomenologia husserliana con quella disciplina che più di ogni altra possiede la prerogativa di interrogare l’esistere effettivo del "soggetto", ovvero la psicologia. Quella corrente, insomma, che di Husserl ha ripreso più una sorta di ispirazione che una precisa costruzione teoretica; quella corrente, più precisamente, che, dell’impianto teorico del filosofo tedesco, ha fatto economia proprio dell’"epoché trascendentale". Ecco allora che in questa chiave, quelle osservazioni di Pardi prima sul carattere intuitivo e frammentario della speculazione di Politzer e poi, invece, sul valore teoretico di quest’ultima, quelle osservazioni che finiscono inevitabilmente col risultare dissonanti e persino contraddittorie fra loro allorché prese alla lettera, possono invece essere recuperate e fatte funzionare in continuità e propositivamente l’una rispetto all’altra se colte nel contesto di quello che fu lo sviluppo assunto dalla psichiatria fenomenologica ed "esistenziale" di marca francese, di questa critica filosofica della psicologia che — proprio come quella di Politzer prima di lui — ha preso forma non a partire da un’ispirazione di carattere filosofico puro, ma dall’esigenza di rendere conto della concretezza e dell’effettività della vita psichica, e che solo in quanto alla ricerca di uno strumento teorico d’indagine si è rivolta alla fenomenologia tedesca e l’ha fatta funzionare — trasformandola — nell’ambito dell’esistenza psicologica. Anziché cercare in Politzer i caratteri che "precorrono" la modernità, riteniamo sarebbe più proficuo interrogare quei "moderni" che hanno ripreso la speculazione politzeriana, com’è d’altronde lo stesso Pardi a suggerirci al termine del suo saggio, allorché afferma che nella contemporaneità filosofica "la "mano" di Politzer è forte, e va giustamente riscoperta collocandola al posto che le spetta" (p. 182).

Ora, se è a partire da un confronto con Husserl che vogliamo impostare tale ricerca, è precisamente agli psichiatri-fenomenologi francesi che dobbiamo rivolgerci, a quelle prospettive che — come abbiamo già in parte anticipato — hanno fatto propria l’impostazione fenomenologica a prescindere appunto dal suo riferimento ad una soggettività di carattere "trascendentale". Fra i primi a citare esplicitamente il nome di Politzer è Minkowski, ed è certamente interessante rimarcare la posizione che tale autore riveste all’interno di quella che potremmo definire l’"autocoscienza" filosofica di questa corrente della psichiatria fenomenologica francese. Estremamente rivelative, a questo proposito, sono le osservazioni di Arthur Tatossian, nella misura in cui esse rivendicano un carattere fenomenologico ad un programma, qual è quello minkowskiano, che, pur nel costante riferimento alla fenomenologia husserliana, si presenta come "esente da riduzione fenomenologica e orientazione trascendentale" [Eugène Minkowski ou l’occasion manquée, in P. Fédida - J. Schotte (a cura di), Psychiatrie et existence, Grenoble, Millon, 1991 (20073), pp. 18-19]. Ne deriva allora una considerazione della fenomenologia "in senso ampio", una fenomenologia che "istruisce" la ricerca dello psichiatra non perché la preceda con una concettualità ad essa estrinseca, ma solo nella misura in cui la guida a volgersi ai fenomeni "senza partito preso" [E. Minkowski, A la recherche de la norme en psychopathologie, in "L’Évolution Psychiatrique", fasc. 1 (1938), p. 89]. È nel quadro di un’ispirazione di questo tipo che Minkowski si trova dunque a citare Politzer, del quale riprende precisamente le nozioni di dramma e romanzo in quanto nozioni capaci di rivolgersi al vissuto come quella sola "categoria" in grado di consentire allo psichiatra di "penetrare" l’"essenza" del fatto psichico, ovvero di approntare un’indagine dell’esistenza che sia immanente a questa esistenza stessa [Id., La psychopathologie contemporaine face à l’être humain (roman, poésie, prose et science de l’homme), in "L’Évolution Psychiatrique", 17, 1 (1952), p. 6]. Ma si pensi anche al Foucault dell’Introduzione a "Sogno ed esistenza" di Binswanger, a quel Foucault critico della psicologia che — in quegli stessi anni cinquanta in cui legge Husserl, Politzer e Minkowki — interpreta il programma binswangeriano proprio a prescindere dalla categoria di "trascendentale", e che dell’analisi esistenziale loda principalmente il merito di essere in grado di fornire un approccio al ""fatto" umano" che "non rinvia l’antropologia a una forma a priori di speculazione filosofica" (tr. it. di L. Corradini, in L. Binswanger, Sogno ed esistenza, Milano, SE, 1993, p. 16).

Si tratta di una prospettiva che troviamo presente anche in H. Maldiney, e in modo particolare in quell’articolo del 1961 in cui tanto Politzer quanto il Foucault del saggio su Binswanger sono citati esattamente allo scopo di mostrare la possibilità — a partire dall’esempio dell’analisi freudiana del sogno come espressione drammatica — di analizzare l’esistenza a partire dalle sue forme intrinseche. Ed è precisamente nell’ambito di simili considerazioni che si rivela il valore che anche per Maldiney assume il riferimento alla fenomenologia, nella misura in questi egli sottolinea come il programma husserliano di "tornare alle cose stesse" coincida certamente con l’intento dell’analisi psichiatrica delle espressioni "patologiche", a prescindere, però, da quel riferimento ad una soggettività di tipo trascendentale fondamentalmente priva, ai suoi occhi, di quel radicamento al reale al quale la psichiatria non può rinunciare (Comprendere, tr. it. di F. Leoni, in Pensare l’uomo e la follia, Torino, Einaudi, 2007, pp. 197-198). Ecco allora quale ruolo gioca la ripresa della "psicologia concreta" di Politzer per questa corrente della psichiatria francese che intende riferirsi alla fenomenologia "in senso ampio", non "puro" ma "esistenziale", e che proprio per questo, in numerose occasioni, a Husserl preferirà Heidegger, salvo però far subire a quest’ultimo — sull’onda di Binswanger — una profonda trasformazione o, a detta d’alcuni, "fraintendimento" nella direzione appunto del carattere "concreto" di un essere inteso sempre più nei termini di vita e divenire.

Il programma fenomenologico di G. Lanteri-Laura costituisce un esempio particolarmente esplicito di questa operazione; esso rappresenta anzi una sorta di messa a punto di carattere generale del significato che la fenomenologia tedesca ha via via assunto nell’ambito della psichiatria filosofica in Francia. E anche fra le pagine del suo celebre lavoro del 1963 — La psychiatrie phénoménologique (Paris, Puf) — la presenza di Politzer è forte, in quell’insistito riferimento al "concreto" alla luce del quale lo psichiatra si convince della necessità di rinunciare a quel soggetto trascendentale che costituisce il risultato fondamentale di una fenomenologia intesa come "scienza a priori delle essenze" e in quanto tale "estranea al mondo". Se la psichiatria può a giusto titolo definirsi "fenomenologica", sarà quindi solo a patto di abbandonare la riduzione trascendentale, la ricerca delle "essenze", per conservare invece, di essa, soltanto l’"attitudine", l’esigenza "d’una descrizione senza presupposti" che fornisca allo psichiatra uno strumento che lo aiuti a comprendere quelle peculiari e concrete strutturazioni del "mondo" che sono le malattie mentali (pp. 176-177).

Ancora una volta, dunque, il riferimento alla fenomenologia passa attraverso il tema metodologico dell’immanenza del rapporto fra l’analisi filosofica e il suo "oggetto", ed è precisamente in quest’ottica che si svolgono anche i numerosi rimandi che tutti questi autori di cui ci stiamo occupando formulano nella direzione dell’opera di Merleau-Ponty, un Merleau-Ponty che — sarà bene rimarcarlo, come d’altronde anche Pardi fa (cfr. in particolare pp. 114, 123-124) — fu tra i primi, nella sua Fenomenologia del 1945, a dare rilievo al valore filosofico della riflessione psicologica di Politzer proprio nel momento in cui si trattava per lui di mostrare la fondamentale "equivocità" dell’esistenza effettiva, "in prima persona", ovvero di quell’esperienza che sola, paradossalmente, è in grado di cogliere se stessa e allo stesso tempo di porsi plausibilmente a fondamento della stessa psicologia come scienza. È in quest’ottica, d’altronde, che il filosofo francese invitava a rileggere la stessa "riduzione fenomenologica" husserliana, incitando a cogliere il "carattere concreto e familiare" di questo procedimento eminentemente "retrospettivo", atto insomma a fornire una visione dell’essenza che "non ci fa passare al di là del tempo in un dominio di pura logica o di puro pensiero", ma si qualificava ai suoi occhi come una "ripresa intellettuale, elucidazione o esplicitazione di ciò che è stato concretamente sperimentato" (M. Merleau-Ponty, Fenomenologia e scienze umane, tr. it. di M.C. Liggieri, Roma, Editrice Universitaria La Goliardica, 1985, rispettivamente alle pp. 37, 31 e 57). La "ricerca dell’essenza", dunque, intesa come indagine di una "certa modalità del nostro rapportarci al mondo", non poteva che confluire, in quest’ottica, nell’"analisi dell’esistenza" (ivi, p. 49), ed è per questo che alla riflessione filosofica viene affidato il compito di partire dallo studio della percezione, in quanto quel luogo esistenziale-concettuale che più di ogni altro mostra come "Io non sono un oggetto che si possa percepire, poiché faccio la mia realtà e non mi raggiungo se non nell’atto" (Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 2003, p. 492; corsivo nostro). Si tratta di una direzione di ricerca che non sarebbe sfuggita, in particolare, a Lanteri-Laura, che sa cogliere in modo estremamente significativo la relazione che intercorre fra il tema merleaupontiano della percezione con quello del "concreto" d’ascendenza politzeriana. Ed è per questo ch’egli si sofferma — come già Politzer e Merleau-Ponty prima di lui — sul valore che la Gestalttheorie avrebbe rivestito per la ricerca psicologica, nella misura in cui essa "non pretende di situarsi fuori dal mondo e non mira a determinare l’attività del soggetto trascendentale", giacché "non si può parlare del soggetto prima di aver descritto il campo percettivo" (La psychiatrie phénoménologique, cit., p. 177). E anche Pardi, tra le righe, sa cogliere bene questo fondamentale snodo concettuale e metodologico che emerge dall’opera di Politzer, e non solo nei passaggi in cui tratta dell’affinità di vedute fra quest’ultimo e Merleau-Ponty, nel comune riferimento alla teoria della Gestalt e al concetto di "totalità" da essa desunto, ma soprattutto laddove illustra i motivi della critica politzeriana della percezione in Bergson proprio riprendendo quei passaggi della "Revue de psychologie concrète" in cui il giovane Politzer rivendica alla percezione il legame inscindibile con l’attualità del soggetto percipiente (Pardi, p. 163).

È in un certo modo un peccato, quindi, che Pardi non abbia insistito in questa direzione di ricerca che pur egli ha intuito, e che l’avrebbe portato probabilmente ad approfondire maggiormente il significato di una fenomenologia che purtroppo egli si limita a idenficare con il nome di Husserl senza tener conto della profondità e soprattutto della problematicità che tale riferimento ha rivestito e tuttora riveste, in Francia, per quel settore della ricerca filosofica che — proprio come Politzer — si interroga sullo statuto filosofico-epistemologico della psicologia, sulle sue prerogative e sulle sue aspirazioni. Limitandosi a comparare — positivamente o negativamente (si vedano i numerosi passaggi in cui Politzer traccia le fondamentali differenze fra Husserl e Politzer, in particolare a pp. 18-19, 108, 178-179) — le prospettive elaborate dai due filosofi a partire dalla nozione di "soggetto trascendentale", Pardi rischia quindi di offuscare proprio quel significato "più ampio" della fenomenologia ch’egli pur coglie nel momento in cui mostra come il carattere profondamente "fenomenologico" della psicologia politzeriana consista nel non ridurre i significati quotidianamente vissuti dal soggetto a "schemi concettuali estrinseci" (p. 163). Indicando come quella praktische Menschenkenntnis che è la "psicologia concreta" si svolgesse "non al livello astratto dei metodi e dello statuto scientifico, ma al livello dell’individuo, cioè intrinsecamente all’oggetto da esse studiato" (p. 178), egli sa dunque rendere atto, seppur implicitamente, non solo del nucleo fenomenologico più fecondo del pensiero di Politzer, ma anche del significato che tale riferimento alla fenomenologia ha assunto per quei moderni che hanno sommessamente ripreso la lezione del filosofo francese ribadendo la convinzione — attraverso la fenomenologia — che "la psicologia non ci fa e non potrebbe mai farci conoscere alcuna causa prima", giacché "essa non si situa "all’inizio", bensì "nel mezzo" della nostra esistenza (Politzer, Dove va la psicologia concreta?, tr. it. di S. Marzocchi, in I fondamenti della psicologia, Milano, Mazzotta, 1975, p. 168). Al filosofo che intenda pertanto interrogare questa esistenza non resterà allora — come sembra suggerire Pardi al termine della sua Prefazione — che riscoprire e descriverne le forme, o meglio la multiformità degli stati e delle determinazioni che definiscono le dimensioni, storiche e concrete, dell’individuo.

ELISABETTA BASSO

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