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Giorgio Bedoni, Visionari. Arte,sogno, follia in Europa, Selene Edizioni, 2004, pp.142, 78 illustrazioni, Euro 23,50

[ Per gentile concessione, pubblichiamo la prefazione di Fausto Petrella al libro di Bedoni, dedicato al tema arte e follia: vogliamo ricordare ai nostri lettori che su un tema molto vicino (arte e psichiatria) lo stesso Bedoni si è intrattenuto, in una conversazione davvero ricca e approfondita pubblicata su POL.it, con Gillo Dorfles : grande vecchio della storia dell’arte, già medico-psichiatra. ]

 

 

Prefazione

 

Visionari. Arte, sogno e follia in Europa si differenzia nettamente dagli scritti psichiatrici sulle produzioni artistiche dei malati di mente. Giorgio Bedoni si propone di accompagnare e guidare non solo lo specialista, ma ogni lettore colto, nei complessi problemi dei rapporti tra arte e follia. Nasce da questo proposito una sorta di lucido ed elegante Baedeker ragionato e illustrato dei principali luoghi dell’arte psicopatologica europea. Karl Baedeker, che visse nella prima metà dell’Ottocento, fu forse il primo ideatore di libri per viaggiare, guide divenute celebri per la loro precisione e accuratezza. L’invenzione di simili guide fu possibile perché i tempi erano maturi per la nascita di un interesse diffuso per i viaggi, che sarebbe divenuto, nell’arco di più di un secolo, il grande fenomeno collettivo del turismo.

Mi è venuto spontaneo associare a Bedoni questo remoto libraio di Coblenza non solo per un’assonanza di nomi. Anche Bedoni ha avuto un’idea nuova scrivendo questa sua guida, molto meditata e ricca di sensibili e profonde osservazioni, volte a fornire all’arte psicopatologica, ai suoi autori e alle opere, un orizzonte di contestualizzazione e di integrazione storica, territoriale e spirituale.

Con il suo libro, Bedoni ha portato a maturazione un lungo percorso, sviluppato per anni con tenacia e passione, e iniziato, ormai molto tempo fa, con la sua tesi di specializzazione in psichiatria a Pavia. Il suo interesse per l’arte psicopatologica è proseguito con l’attività in vari ateliers di significato riabilitativo. E si è espresso, in collaborazione con la storica dell’arte Bianca Tosatti, nell’allestimento di due grandi e straordinarie mostre, a Pavia e a Genova, e nell’ottimo libro-catalogo Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa (1998). Rilevanti sono anche i suoi contributi ad Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile (2000), sempre in collaborazione con Bianca Tosatti.

La "guida" attuale non è dunque affatto il risultato di un’improvvisazione; raccoglie i frutti di quest’esperienza, mostrando che i tempi sono maturi per una correlazione dell’arte psicopatologica con molto di quello che ci circonda. E anche per un diffuso ed emergente interesse per essa, persino di tipo collezionistico.

"Arte psicopatologica" è sicuramente una brutta espressione, anche se è spesso usata. Altre ve ne sono, ma tutte per qualche aspetto non convincono, soprattutto perché sono o brutali (arte psicotica), oppure sottilmente eufemistiche: art brut, secondo la dizione di Dubuffet, arte outsider, o irregolare… Al di là delle denominazioni, sarebbe importante intendersi di cosa stiamo esattamente parlando. E allora potremmo chiederci cosa caratterizza le opere di questo genere, posto che esse costituiscano un genere, o non piuttosto un antigenere, che si colloca radicalmente fuori dell’ordinario e che quindi, correttamente, richiederebbe che le opere fossero considerate nella loro singolarità, indipendentemente da qualsiasi etichettamento.

Conosciamo nel Novecento artisti le cui opere geniali hanno mutato i nostri paradigmi del vedere. A fianco di queste esperienze di punta, esiste certamente un’arte ordinaria, cioè normale, come esiste la "scienza normale" di cui parla Thomas Kuhn. Ma è ben difficile che quest’arte normale interessi o tocchi veramente e in profondità il fruitore, lo spettatore, l’acquirente sensibile o il collezionista avveduto. Il recinto delle arti ha sempre delimitato un’area speciale della socialità, capace di tollerare — molto più delle istituzioni sociali correnti — le stravaganze della singolarità, le diversità e le licenze comunemente insopportabili perché perturbanti, i moti dell’animo inammissibili ed estremi. Respinto dal comune consenso, il magma passionale e doloroso dell’esperienza ribollente e outrée, l’angoscia insopportabile che lascia senza parole e la depressione più nera possono prendere le vie tollerate e innocenti dell’espressione artistica. L’oggetto artistico, una volta concepito, costruito e fatto, compie il miracolo di una trasformazione che raffredda il magma e lo incanala nella concrezione espressiva di un’opera. Ogni forma dell’arte, anche se povera, anche se elementare o misera, è una piccola vittoria sul caos e l’annientamento. Quando l’operazione espressiva dell’arte riesce, essa ha la capacità di sottrarre al silenzio e alla notte movimenti ed esperienze che altrimenti resterebbero mute, confinate in un’interiorità informulabile o nei percorsi carsici ed erosivi del corpo, con conseguenze devastanti e negative. Oppure queste esperienze resterebbero confinate nelle strutture psichiatriche, nei manicomi dove molta arte irregolare, anche se non tutta, si è potuta sviluppare, soprattutto perché non spenta da massicce sedazioni psicofarmacologiche, che per parecchi decenni non erano ancora disponibili.

La possibilità di formulare (dare forma rappresentativa, Gestaltung), di trasformare in immagine, in gesto espressivo o in comunicazione visiva il dolore indicibile, la catastrofe psichica che ha distrutto o stravolto il paesaggio dell’anima: tutte proprietà metamorfiche e sublimative che l’arte condivide con i sogni notturni o a occhi aperti. Con la differenza che questi ultimi sono condannati alla transitorietà, all’evanescenza e all’effimero. L’opera invece resta, documento muto e insieme oggetto eloquente, perché con la sua presenza e il suo mostrarsi interroga gli altri. E questi, reagendo, fanno finalmente risuonare o parlare l’opera. A quel punto il gioco è fatto, perché l’oggetto entra finalmente in un circuito di interesse e di desiderio, di ripulsa o di accettazione o addirittura di valorizzazione idealizzante. Non è ammirevole che una rappresentazione, anche anomala, abbia sconfitto l’accecamento e la distruzione, la colpa e la derelizione assoluta? Chi riesce a fare questo miracolo non appare infine come una sorta di santo o di mistico senza dio, che ha trovato dentro di sé la capacità e la forza di un moto costruttivo in una marea di tenebre fermentanti e caotiche?

L’arte di quelli che Bedoni chiama visionari (quasi sempre malati cronici, ospiti abituali dei manicomi europei in epoca prefarmacologica) mostra che è possibile che questo miracolo accada, come è possibile reperire oggi un pubblico sempre più numeroso, che si appassiona, e apprezza, con varie reazioni sentimentali, l’operazione che l’artista folle ha compiuto. Certo può succedere, ed è veramente successo, anche il contrario. Che l’opera "irregolare" disturbi, venga occultata, ne sia percepito in forma esclusiva il suo rapporto col negativo, con l’orrore e con l’eversione, e quindi sia distrutta o bruciata, come è accaduto per "l’arte degenerata" dei malati di mente nelle operazioni di pulizia etnica durante il nazismo, per esempio nel manicomio di Heidelberg. I malati di mente coinvolti da questo giudizio di condanna si trovarono in ogni caso in buona compagnia, con i Klee, i Kandinskij e i Kirchner, tanto per fare dei nomi celebri.

Il rapporto del bello con l’orribile — noto paradigma ossimorico carducciano, che il poeta riferiva ai prodotti della tecnica della sua epoca — sta nel centro tematico ed emotivo di tanta arte contemporanea anche recente o recentissima, ponendo problemi rilevanti alla conoscenza e alla critica, oltre che alla risposta dell’osservatore. Dobbiamo registrare come una novità del tempo presente, una diversa considerazione di queste opere rispetto al passato. All’evitamento e all’emarginazione distruttiva, oggi si è sostituita sia una sorta di rassegnazione accettante o indifferente, sia un apprezzamento positivo che può essere anche elevato: invece di sottolineare il nulla e la morte psichica, o la degradazione del sé, che pure sono in varia misura spesso presenti o alluse nelle opere, troviamo l’ammirazione per la volontà di affermare e rappresentare a ogni costo, per la straordinaria capacità di molti artisti/malati di esprimere questa negatività emergente dalla solitudine, dall’ira, dalla derelizione bisognosa e incapace di compromessi col mondo. Chi riesce a rappresentare questi aspetti della condizione umana, chi non li nega ma li dichiara, o li denuncia formulandoli, può suscitare rispetto e talvolta un’autentica valorizzazione.

Bedoni opta per una nuova denominazione per questi artisti toccati dalla follia; una follia che ai nostri giorni mi sembra ormai irrimediabilmente trasformata in malattia mentale, senza che con questo ne sia realmente chiarito il fondo misterioso, che coincide con l’enigmaticità della condizione umana. Da qui il titolo dell’opera: Visionari. Visionari sono stati molti grandi filosofi e artisti del passato remoto e pros-simo. Visionarietà significa non aderire all’apparenza sensoriale del reale, ma ricono-scere che il mondo si fa avanti attraverso un’immaginazione che rende visibile e percepibile un’altra realtà, una visione affettiva del mondo affrancata da uno sguardo puramente constatativo o imitativo. Visionari sono stati certi santi, certi mistici o cer-ti artisti, che hanno costretto il discorso convenzionale dei segni e delle parole ad aprire altri spazi percettivi, a ricreare il mondo magicamente o a lanciare nelle loro opere i messaggi di un personale oltremondo, nella speranza di essere intesi e ac-colti. Messaggi di un oltremondo immaginario, corporalmente affettivo e ineffabile, dove l’urgenza espressiva induce a simbolizzarlo con un alfabeto privato di segni e un idioletto enigmatico e provocatorio, ma certamente anche in cerca di un’intesa e di un patto col mondo. La gamma delle possibilità espressive della dimensione visionaria è illimitata. Essa è un sottogenere dell’arte fantastica, che si è emancipata dall’imitazione del reale, per dare libero corso all’immaginazione. Che si tratti di un vero e proprio genere, che ha anche conosciuto specifiche marcature lessicali e formule condivise e di maniera, è stato ben documentato anche da studi critici recenti, come quello di Victor Stoichita sull’arte visionaria del siglo de oro spagnolo.

È molto diverso chiamare visionaria un’esperienza o parlare invece di allucinazioni. Le allucinazioni comportano, quasi per definizione, un gioco di squalificazione: l’allucinato vede qualcosa che non c’è e che non dovrebbe pertanto vedere. Egli sarebbe quindi soggetto a un errore dei sensi, proprio della pazzia.

Le visioni sono invece proprie dei santi, dei profeti e degli sciamani. I nostri stessi sogni ci appaiono da svegli come esperienze visionarie effimere. Ma le vere visioni sono esperienze che hanno a che fare con la vita spirituale e religiosa, possono essere profetiche e comunque prossime all’intuizione dell’essenziale o del vero; e al tempo stesso sono aperte alla comunicazione. Proiezioni dell’interiorità, ci parlano anche del mondo così come può essere visto, aprono su mondi possibili entro i quali chi vuole potrebbe anche avventurarsi e penetrare.

Alcuni dei musei, che Bedoni fa visitare al lettore, sono luoghi in cui sono confluite e come concentrate le opere "irregolari", raccolte spesso da psichiatri appassionati o da artisti affascinati da queste forme espressive della marginalità. Opere nate dal fallimento esistenziale e nel quadro di una reclusione manicomiale senza sbocchi possibili. E tuttavia quasi sempre testimonianze di rara sincerità espressiva e di modi insieme autentici e complessi di vedere e di sentire, senza compromessi con istanze imitative o di mercato.

L’eroe-pittore che più di ogni altro rappresenta l’emblema, insieme sublime e tragico, di un grande folle che ha conosciuto un successo postumo e addirittura una fama assoluta, è stato certamente van Gogh; colui che Artaud — un altro grande folle — considerava, con impareggiabile acutezza e simpatia, un "suicidato dalla società". Ma van Gogh è ormai divenuto un artista regolare, conteso dai musei di tutto il mon-do. Oltre a una fama postuma, ha ottenuto anche un’amara guarigione postuma.

Gli artisti — spesso grandi — che troviamo a Losanna e a Heidelberg, a Berna come a Vienna, sono invece "ricoverati" in musei appartati a loro dedicati, o assai più raramente, come Wölfli, "inseriti" anche nei musei normali. E non mancano anche rari folli sfuggiti alla presa della psichiatria, come Ferdinand Cheval.

A tutti Giorgio Bedoni ci avvicina con rispetto e simpatia, e una inesauribile meraviglia per le grandi qualità umane e artistiche che qui si riscontrano. Sempre cercando connessioni, aperture, risonanze con altri artisti meno infelici e più facilmente riconosciuti. L’operazione di avvicinamento e comprensione mobilita le conoscenze storico-critiche dell’arte, ma anche le attitudini di risonanza, e infine genuinamente terapeutiche dell’autore. Lasciamoci dunque guidare da lui in un viaggio di avvicinamento, al termine del quale scopriremo forse di aver fatto una sorta di esperienza iniziatica, che ci rende capaci di partecipare comprensivamente senza giudicare frettolosamente. Un atteggiamento che finalmente contrasta due diffusi pregiudizi, che sono anche luoghi comuni contraddittori: quelli della difformità radicale, o, all’opposto, della non discernibilità della malattia mentale rispetto all’esperienza cosiddetta normale e corrente.

Fausto Petrella

fpetrella@unipv.it

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