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Luoghi e strategie di un'etnopsichiatria critica Roberto Beneduce - Che cosa intendiamo per Etnopsichiatria, che cosa vuole essere questa sezione di Etnopsichiatria
L'ambito di studi che confluisce sotto le etichette di etnopsichiatria, psichiatria transculturale o culturale, etnopsicologia, antropologia psicologica o psicoantropologia, etnomedicina ecc., sta rapidamente ampliandosi, arrichendosi di contributi disciplinari eterogenei, e naturalmente i modelli di ricerca e di pratica clinica che intorno alla dimensione culturale si sono via via prodotti sono risultati il più delle volte in conflitto fra loro. È necessario tollerare la presenza di etnopsichiatrie differenti perché i contesti, i fattori contingenti, le priorità sono determinanti nel definire modelli di lavoro anche assai distanti fra loro. Ciò che fa la il proprium di un'etnopsichiatria critica è la consapevolezza che il "culturale" non deve occultare altre dimensioni, non deve trascurare di considerare la posizione e i rapporti di forza degli interlocutori né l'ideologia veicolata da molte categorie diagnostiche (l'etnopsichiatria di Carothers, l'esperto dell'OMS che nel Kenia coloniale lavorava negli anni '50, non è ad esempio degna di questo nome). Qui di seguito proponiamo semplicemente una tabella che vuole riassumere quelli che ci sembrano gli oggetti peculiari della ricerca etnopsichiatrica, e riteniamo che essi delimitino uno spazio sufficientemente ampio perché altri ricercatori possano riconscervisi; il loro elenco è naturalmente parziale. Intorno ad essi intendiamo procedere, nei prossimi anni, allo scopo di raccogliere informazioni, ricerche, contributi, esperienze: ciò nello sforzo di definire un orizzonte di via via più coerente. Siamo consapevoli che in Italia la tradizione di studi etnopsichiatrici ed etnopsicologici è estremamente giovane, e tuttavia le richieste di documentazione e di formazione stanno crescendo rapidamente imponendo un passaggio da una fase di curiosità, di interesse provvisorio, a quella di una rigorosa sistematizzazione che prenda le distanze dai troppo ancora troppo diffusi luoghi comuni (esotismi inclusi). La fascinazione per l'Altro non è (e non è stata) meno potente e meno dannosa della ostilità e della diffidenza nei confronti dell'Altro, dei suoi saperi. Riteniamo pertanto doveroso procedere nel senso di un atteggiamento metodologicamente attrezzato onde consentire un serio sviluppo di questo ambito di studi. I contributi e gli interlocutori che condividono questi principi sono ormai numerosi, e riteniamo che un dialogo efficace sia con molti di essi già una realtà. Tab. 1. Campi di ricerca della psichiatria trans-culturale, dell'etnopsichiatria, e dell'etnopsicologia Obiettivi generali | Campi di studio e di intervento (in alcuni casi condivisi con altre discipline, indicate fra parentesi) | 1a) Studio del rapporto fra cultura e psichismo (rappresentazioni della persona, del corpo, delle "anime" e della "mente", ecc.) 2a) studio del rapporto fra dinamiche socio-culturali, psichismo, psicopatologia 3a) studio e confronto delle diverse forme di sofferenza psichica nelle diverse società e dei relativi modelli interpretativi nonché del significato delle diverse risposte alle cure e della dimensione sociale dell'efficacia terapeutica 4a) studio del rapporto fra conflitti sociali (conflittualità urbana, fra minoranze, ecc.), religiosi, economici, interpersonali o etnici e sofferenza psichica; contesto ed esperienze della migrazione (soprattutto quando essa si genera in risposta a minacce collettive, guerre, ecc.) 5a) Studio dei sistemi di cura nelle diverse società, delle teorie sulle quali si fondano e delle tecniche terapeutiche che utilizzano. Analisi critica della bio-medicina e del suo ruolo di modellamento e riproduzione di corpi, coscienze, poteri, interessi, ecc. Ricerca sulle forme di interazione fra sistemi di cura diversi (locali e convenzionali, ecc.). I problemi posti dal "pluralismo medico" | 1b) analisi di altre psicologie e psichiatrie attraverso ricerche "sul terreno" in paesi non occidentali; analisi delle premesse storico-antropologiche di nozioni come sé, Io, conflitto, ecc. nel lessico della psichiatria e della psicologia occidentale; (antropologia medica, antropologia simbolica, etnopsicologia o psicologia transculturale, etnografia); 2b) analisi di casi particolari: urbanizzazione, modernizzazione, creolizzazione, culti religiosi di recente apparizione, migrazione, comparsa di nuovi tipi di disturbi mentali o sindromi, emergere di fenomeni come culti di possessione o accuse di stregoneria, ecc. (antropologia cognitiva, epidemiologia qualitativa, etnopsicanalisi, sociologia sanitaria, storia delle religioni, ecc.); 3b) analisi delle diverse categorie diagno-stiche della psichiatria occidentale e di altri saperi relativi alla sofferenza psichica secondo un approccio emico ed etico: anoressia, depressione, neurastenia, schizofrenia, mara, nit ku bon, koro, gaud, ogbanje, puubuq lanq, ecc. (antropologia culturale, neurologia transculturale, epidemiologia, etnofarmacologia, ecc.); ridefinizione critica delle cosiddette culture bound syndromes; decostruzione del PTSD; ecc. 4b) analisi delle situazioni di conflitto e degli eventi correlati (esodi, violenze, torture, traumi; sfruttamento minorile; ecc.); intervento sulle loro conseguenze psico-patologiche, culturali e sociali (community based rehabilitation, etno-psicoterapia, ecc.; casi-modello: le conseguenze della violenza sociale, bellica o di Stato nei paesi sud-americani, nell'Est asiatico, nei Balcani, nei Territori Occupati o in Kurdistan, ecc.); clinica della migrazione (psicanalisi, terapia familiare, psicoterapia di gruppo, etnopsicoterapia, ecc.; antropologia medica, sociologia, ecc.); 5b) analisi dei dispositivi terapeutici (rituali, piante medicinali, ASC, psicoterapie, psicotecnologie, ecc.): loro utilizzazione nella costruzione di modelli terapeutici "meticci" (antropologia religiosa, etnomedicina, etnobotanica, etnofarmacologia, ecc.). |
- Una riflessione urgente: Etnopsichiatria e migrazioni.
Si discute molto oggi sull'opportunità e i rischi derivanti dall'inventare spazi specifici dove accogliere la domanda di cura e di aiuto da parte degli immigrati o delle loro famiglie, alle prese con conflitti psicologici e difficoltà comuni nella loro condizione e nelle vicende che solitamente caratterizzano l'esperienza della migrazione (separazioni, perdite, lutti, crollo dello status sociale, esperienze traumatiche, razzismo, sfruttamento, ecc.). Le perplessità sono talvolta fondate: non si riproduce così il rischio di ghettizzare gli immigrati, l'espressione stessa dei loro bisogni, anziché favorirne il diffluire dentro i circuiti e le reti istituzionali già previsti per la popolazione autoctona? Non dovrebbe essere la psichiatria di fatto sempre attenta alle ragioni del contesto di provenienza dei pazienti, alle differenze simboliche e semantiche, ai particolari idiomi della sofferenza, alle radici culturali ed etnocentriche delle sue stesse categorie, non dovrebbe in altri termini esserci unicamente una etno-psichiatria? Infine, si obietta in modo più sottile, se questa scelta nascesse dal presupporre la necessità di operare sul disagio psicologico di persone provenienti da altre culture con saperi e strategie particolari, non si contraddirebbe il sacro principio dell'universalità dello psichismo umano? Queste perplessità sono espresse in buona fede, e meritano pertanto di essere prese in considerazione, benché le loro premesse siano in tutto o in parte erronee. La prima di queste sta forse nella vecchia idea dell'integrazione: gruppi e culture a poco a poco si adattano reciprocamente, si transculturano, si integrano. Questo processo, considerato alla stregua di un processo naturale, dovrebbe produrre una crescente comunicazione fra immigrati e società ospiti, con la sempre maggiore fruizione da parte dei primi dei servizi e delle opportunità (economiche, assistenziali, ecc.) che quest'ultima offre. Questo processo non è tuttavia affatto scontato, e le contraddizioni che attraversano la tenuta e la qualità dei sistemi sanitari pubblici in un epoca di liberismo sono evidenti a tutti: molti sono piuttosto i problemi che ripropongono drammaticamente la questione dell'equità nell'accesso ai servizi, mentre ovunque si osserva come le minoranze etniche - alle prese con indici di morbilità o di mortalità infantile che, in alcune aree metropolitane come Harlem, superano quelle del Bangladesh - non abbiano di fatto gli stessi gradi di accesso ai servizi sociosanitari della popolazione autoctona. A Torino, secondo un'inchiesta pubblicata qualche anno fa, solo il 50% dei cittadini immigrati aventi diritto all'assistenza sanitaria era regolarmente iscritta al Servizio Sanitario Nazionale. Le ricerche inerenti più in particolare alla psichiatria, alla cura degli immigrati (quelli di origine caraibica, ad esempio) e ai differenti tassi di ospedalizzazione, confermano come sia elevatissimo l'effetto di reciproca amplificazione fra fattori culturali, sociali, razziali e psicologici nel determinare un più alto rischio di marginalizzazione, di stigmatizzazione psichiatrica o la costruzione di risposte istituzionali distorte, e quanto sia ingenua l'equivalenza fra l'operare di ogni "buon psichiatra" e quello dell'etnopsichiatria: un'equivalenza che, espressa anche da voci autorevoli, conserva ad un serio esame della realtà il mero valore di assunto di principio, o al più quello di un auspicio, che l'analisi delle pratiche e dei modelli oggi egemoni nella psichiatria stanno piuttosto a smentire costantemente (ciò che del resto fa il proprium della psichiatria culturale è meno il suo oggetto che non il suo metodo). E tuttavia critiche a queste iniziative vengono da molti, spesso da fronti inattesi, e questa è una ragione ulteriore per provare a trovare una risposta: mi è capitato infatti di dover difendere il rigore e l'originalità degli assunti sui quali si fonda l'etnopsichiatria anche da coloro che sempre si sono mostrati sensibili alle questioni della differenza, che si sono impegnati sul fronte dell'equità nell'accesso alle risorse e nella difesa delle minoranze. Difficile rimane far comprendere a questi ultimi che l'idea di offrire a tutti pari servizi non si traduce automaticamente nella pari utilizzazione da parte di tutti con un pari grado di opportunità, soddisfazione ed efficacia. Ma di quale genere di inaccessibilità si tratta: istituzionale, economica, sociale, culturale? Se solo guardiamo a quest'ultima, dovremmo piuttosto chiederci quanto sia legittimo assume tout court come validi modelli interpretativi, strategie psicoterapeutiche e stili di comunicazione che si adeguano solo agli standard della nostra psicologia e dei suoi presupposti ma assai poco alla necessità di rispettare linguaggi della sofferenza, costruzioni della persona e del sé, modelli differenti della cura: non dovrebbe risultare sin troppo ovvia la fecondità di una ricerca che guardi a pratiche e metafore al confine fra territori diversi dell'immaginario, della legge, del desiderio? Infine, perché tanta diffidenza? Forse che l'etnopsichiatria rimaneva accettabile sin quando veniva praticata fra gli Indiani delle Pianure (solo una innocua curiosità)? Ora che essa provoca invece da vicino le nostre pratiche con i suoi modelli, i suoi interrogativi, le sue strategie meticce e fa capolino nelle nostre città, nelle nostre università o nei nostri servizi parlando di "altri" e di "universi invisibili" diventati così prossimi a noi, sembra che il rapporto con le sue ipotesi e le sue sperimentazioni sia diventato assai più conflittuale. Se è difficile dare una risposta univoca al problema di quale modello di sanità e di salute costruire nelle società contemporanee, attraversate da così massicci flussi migratori (le realtà alle quali si fa riferimento sono da più punti di vista quanto mai eterogenee, le legislazioni mutevoli, e i dati forniti dalle pubbliche amministrazioni risultano spesso incerti e parziali), non c'è dubbio che lavorare perché si costruiscano spazi di cura e di assistenza dotati di una maggiore pertinenza ("sensibilità") culturale costituisce una strategia che rivela alla lunga indubbi benefici (non ultimo quello di aumentare la consapevolezza negli operatori sulla necessità di modificare lo stile delle loro prestazioni e problematizzare i modelli impliciti che le guidano: ciò che sarebbe non poco vantaggioso anche nei confronti della popolazione locale). Quando realizzati in modo appropriato, sviluppandosi all'interno di una rete che connetta gruppi di lavoro informali, organismi ed associazioni, o promuovendo essi stessi nuovi legami ed alleanze (ad esempio con le comunità degli immigrati, con i loro leader religiosi o con altre figure di riferimento), i servizi che perseguono una tale sensibilità culturale producono un lavoro che da ogni punto di vista si rivela fecondo e contribuiscono a ridurre considerevolmente gli irrigidimenti burocratici tipici delle nostre istituzioni sanitarie e quell'ossessione economicistica che sembra rappresentare per molti il solo principio a cui debbano ispirarsi interventi, scelte e programmi. Le numerose iniziative sorte per merito del volontariato nel nostro ed in altri paesi o all'interno del servizio pubblico (ma senza tener sempre conto della logica e dell'organizzazione preesistenti), confermano che, anche volendo interpretarle in termini socio-antropologici come risposte disordinate da parte del paese ospite alla questione "migrazione", si tratta di risposte che contribuiscono a generare una nuova consapevolezza, che favoriscono una trasformazione delle modalità di presa in carico dei bisogni espressi o inespressi dell'utente esprimendo ad uno stesso tempo la necessità di costruire nuovi strumenti e linguaggi che non siano soltanto quelli appiattiti della retorica scientifica. Fra i diversi riverberi di queste attività, rivolte ad accrescere la fiducia dei pazienti immigrati, a ridurre il rischio di malintesi, ad acrescere l'efficacia degli interventi, va segnalato per altro quello di contribuire in misura considerevole a modificare le attitudini degli operatori verso categorie diagnostiche di cui possono finalmente venir messi in causa il valore universale, così come gli stessi canoni occidentali di razionalità e normalità (canoni che sul terreno della norma, delle false credenze e della devianza, della malattia mentale in particolare, hanno giocato sempre un ruolo fondamentale). Naturalmente queste trasformazioni sono reciproche: anche gli immigrati, i gruppi dai quali provengono e le relazioni che li caratterizzano sono attraversati da mutamenti decisivi nelle rappresentazioni del corpo, della malattia, della salute, così come nelle gerarchie di potere, nelle ideologie, nei valori estetici, nelle logiche del desiderio. L'antropologia medica ci ha da tempo mostrato come ogni processo di razionalizzazione riposi sempre su un soggiacente processo di simbolizzazione; ora i problemi che scandiscono la questione della cura e della salute delle popolazioni immigrate, la necessità di far comunicare universi dell'esperienza, del corpo, della sessualità non omogenei, rimette in primo piano la posta in gioco tutta etica di questo confronto che non a caso proprio sul terreno della bio-medicina e del diritto pone spesso gli interrogativi più drammatici. Se consideriamo l'ambito psicologico-psichiatrico, i centri sorti in Europa e in Italia per rispondere al disagio psichico negli immigrati si sono spesso rapidamente trasformati in originali luoghi di ricerca, dove si elaborano pratiche cliniche innovative, si trasformano i modelli della cura e i presupposti epistemologici delle tradizionali prospettive psicopatologiche, dove si producono in molti casi risultati spettacolari. Questi luoghi stanno contribuendo di fatto a definire spazi di mediazione e di confronto altrimenti difficilmente immaginabili all'interno dei circuiti istituzionali tradizionali: per comprendere la portata di simili iniziative basti pensare al numero di incontri con educatori, assistenti sociali, medici, studenti, gente comune, amministratori, rappresentanti di associazioni, confraternite e comunità di immigrati che anche un centro tutto sommato giovane come il Centro Frantz Fanon ha prodotto a Torino negli ultimi anni, alle riflessioni portate avanti sulle espressioni peculiari della sofferenza in alcuni gruppi di immigrati e ai possibili effetti sulle mentalità e i metodi di lavoro quando si pensi al lungo periodo. Ricevendo domande di supporto o di intervento propriamente terapeutico da parte di immigrati giunti attraverso ospedali o servizi, circuiti informali, o inviati da associazioni di volontariato e centri di accoglienza, il Centro ha potuto accumulare nel corso di questi anni una discreta esperienza e formulare un proprio modello di lavoro che, tranne i casi in cui ciò sia specificamente richiesto o fortemente motivato, prevede l'azione di un gruppo terapeutico. I mediatori culturali del Centro Fanon, alcuni dei quali hanno avuto esperienze professionali anche in altri settori di lavoro, si sono formati o si stanno formando sulle particolari strategie di intervento necessarie nell'etnopsichiatria clinica: strategie che, come è facile intuire, non si esauriscono nella semplice interpretazione o mediazione linguistica. Il loro lavoro è molto impegnativo: viene loro richiesto di agire consapevolmente proprio su quella situazione di transito culturale, di incertezza epistemologica e di conflitto dentro cui si generano non pochi dei problemi e dei dilemmi di cui gli immigrati ci parlano e che in qualche misura essi stessi hanno conosciuto. Con i mediatori, grazie anche al loro sguardo critico, gli operatori del Centro stanno portando inoltre avanti una riflessione sul valore e sul possibile uso di tecniche terapeutiche provenienti da altri orizzonti culturali: il dispositivo terapeutico che si vuole realizzare è dunque consapevolmente eterodosso o, se si preferisce, contaminato, meticcio. Questa scelta, se si impone anche in rapporto alla varietà di domande e problemi per i quali ci viene richiesto un intervento, ha la sua premessa teorica nella necessità di un sistematico ancoraggio culturale delle strategie di cura: ciò che significa sfruttare la cultura d'origine del paziente non meno di quella degli operatori come altrettante leve terapeutiche in grado di attivare cambiamenti nella struttura psichica dei pazienti, nella qualità delle loro relazioni, nella percezione e narrazione dei loro problemi. La presunzione del Centro Fanon è pertanto quella di sviluppare una pratica rigorosa di ascolto, di supporto e di intervento relativo alle difficoltà psicologiche negli immigrati, annodando i fili delle loro molteplici (e talora fragili) reti di appartenenza, senza richiudersi però, come si è avuto occasione di ripetere in diverse occasioni, in un orizzonte di pure tecniche terapeutiche (per quanto brillanti o efficaci possano esse sembrare). Questa è una delle ragioni per le quali si è scelto per il nostro Centro il nome di Fanon, ed è forse bene ricordare per quanti non ricordano chi era Frantz Fanon. Nato a Fort-de-France nel 1925, formatosi come psichiatra in Francia, giunto in Algeria negli anni '50 durante il periodo più acuto della lotta anticoloniale (nel 57 ne viene espulso e ripara a Tunisi con altri membri del GPRA), Fanon si accorge subito, all'ospedale psichiatrico di Blida, che le forme di cura, anche sofisticate, di cui aveva avuto esperienza (la "psicoterapia istituzionale" ad esempio, allora avanzata strategia di intervento all'interno dell'ambito asilare appresa da Tosquelles) mal si adattano ad una realtà così conflittuale: l'insuccesso è la regola. Non basta più allora prendere le distanze dalle vecchie categorie della psichiatria coloniale elaborate dalla Scuola Psichiatrica di Algeri (scuola che era stata diretta per molti anni da Antoine Porot), né tanto meno si rivela sufficiente adottare strumenti terapeutici più sofisticati dal momento che le prime come i secondi sono inadeguati. Bisogna scegliere, prendere parte e rischiare in prima persona. Fanon si interessa così a comprendere le zone d'ombra del potere coloniale quali si riproducono anche nei luoghi della cura, nel linguaggio della psichiatria, nel suo razzismo come nel suo paternalismo; interroga i conflitti psicologici e i dissidi caratteristici del rapporto fra colono e colonizzato, ma anche quelli che assediano la relazione fra Bianco e Negro, i loro riflessi sul mondo emozionale ed affettivo, sui modi in cui reciprocamente si costruiscono le immagini dei dominatori e dei dominati, le loro identità (e noi sappiamo quanto quelle domande siano oggi attuali). Il lavoro di Fanon è estremamente acuto: pur nel linguaggio dell'epoca e del contesto della lotta coloniale, nell'enfasi e nella violenza con la quale difende i diritti del popolo algerino e nella costante sottolineatura di quella che egli chiamava "attitudine rivoluzionaria", il suo sguardo mette a fuoco (e qui la metafora è quanto mai appropriata) tutti o quasi i problemi dell'incontro e dello scontro con l'Altro culturale, la volontà di dominio e di controllo che si introduce nelle pieghe più sottili del comportamento, della sessualità o del discorso scientifico. Negli anni '70 il lavoro di Ben Jelloun (1977) sembra ripercorrere alcuni dei temi che furono cari a Fanon quando si interroga sulle nevrosi sessuali di tanti immigrati magrebini, sull'esperienza clinica così frequente fra essi dell'impotenza, sull'intreccio fra figure familiari, ruoli sessuali, immaginario erotico e contesto di sfruttamento ed ostilità che fa da sfondo alla loro sofferenza, al senso di morte infine che piega le loro esistenze giorno dopo giorno. Portatori di un'identità orfana, il reale finisce per opprimerli, spingendoli sovente nel circolo vizioso della malattia come unico luogo di un possibile riconoscimento. Queste analisi, da riprendere con cautela un quarto di secolo dopo la loro formulazione (le realtà e le culture stesse delle migrazioni migrano assai più rapidamente di quanto non s'immagini), rivelano tuttavia una ricchezza non ancora esaurita di temi, proposte, suggestioni per il clinico formatosi in occidente e poco familiare con i problemi della psicologia, della sessualità, della struttura familiare quali vengono elaborati, riprodotti o trasformati in altri contesti socio-culturali. Il contributo di un'etnopsichiatria, di un'etnopsicologia e di un'etnomedicina che radichino il loro sguardo e il loro procedere fra le connotazioni culturali, simboliche, sociali e storiche del disagio psicologico e della malattia mi sembra in definitiva non solo fecondo ma capace di rispondere, una volta per tutte, a quanti obiettano che il contributo delle loro ricerche e del loro punto di vista sia tutto sommato marginale. Soprattutto, il modello di etnopsichiatria al quale facciamo riferimento ripropone la necessità di ripensare le "culture" come luoghi di conflitto e di cambiamento, di rapporti di forza oltre che di senso, non solo dunque come aggregati omogenei di ideologie, lingue e costumi: l'etnopsichiatria può allora situarsi proprio nello spazio dinamico di conflitto e di trasformazione che l'incontro fra culture e società genera anche a partire dai processi migratori, giungendo attraverso vie molteplici (quelle della clinica come quelle della ricerca) a definire modalità più efficaci per intervenire sul disagio dei singoli immigrati quanto su quello dei gruppi e delle comunità alle prese con le ferite della propria memoria (non esclusi quelli autoctoni, spesso schiacciati da quei fantasmi della contaminazione, dell'invasione, della delinquenza solitamente associati alle figure dello straniero, del nomade, dell'immigrato). Saranno i prossimi anni a dirci se gli strumenti di cui ci siamo dotati sono stati all'altezza degli scopi che ci eravamo prefissati di realizzare.
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