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VLADIMIR ALEKSEEVIC POLIKARPOV - L’approccio attivo-processuale nella psicoterapia. Di Claudio Davanzo e Katsiaryna Pishchala

[ V. A. Polikarpov è docente del Dipartimento di Psicologia dell’Università governativa bielorussa. Autore degli articoli nelle riviste "Questioni di psicologia", "Giornale di psicologia", "Studi sociologici". Autore dei manuali: "Psicosemantica" (2000); "Corso delle lezioni di Psicologia Generale" (2005), "Psicologia Generale" (2009).

Autore delle monografie "Pensiero e comunicazione" (prima edizione nel 1990, seconda nel 1999); "Psicologia del primo amore" (2002), "Comportamento di dipendenza tra i giovani: la prevenzione e la psicoterapia delle dipendenze" (2004); " Risorse intellettuali della società bielorussa" (2007); "La struttura del tempo" (2009).

Redattore scientifico delle edizioni "Simvoldrama" (2001); "Il tempo come un fattore di cambiamento di personalità" (2003); "Psicologia economica in Russia e in Bielorussia" (2007). E’ traduttore delle opere di K. G. Jung ]

Innanzitutto mi voglio soffermare su come veniva intesa la psicoterapia dal punto di vista della teoria di S.L. Rubinstein. Al suo interno sono state identificate diverse categorie principali, che vengono qui di seguito elencate. Quasi tutte queste categorie sono centrali per S.L. Rubinstein nello studio della psiche, e nel presente lavoro sono ulteriormente approfondite. La specificità dell’argomento richiede l’introduzione di alcuni nuovi e ulteriori concetti che rappresentano una generalizzazione di certi eventi specifici per i processi psicoterapeutici. Cioè:

    • il concetto di psiche come processo;
    • l’analisi attraverso la sintesi;
    • l’immagine che evoca un’altra immagine (quest’ultimo concetto è stato da noi introdotto);
    • la prognosi;
    • il rituale;
    • la psicoterapia;
    • l’approccio attivo-processuale.

I termini "immagine" e "psicoterapia" vengono visti in una specificità processuale.

Il concetto principale di S.L. Rubinstein, a nostro avviso, non ancora sufficientemente valutato, è la comprensione della psiche intesa come un processo: invece di riferirsi a dei modelli statici, oppure cosiddetti spaziali, tra cui il modello epigenetico, è stato proposto un modello dinamico che riflette l’esistenza di una psiche viva. Per la prima volta nella teoria psicologica sovietica, a fianco di una dimensione spaziale, è stata adottata una visione temporale, in cui è la coordinata del tempo a diventare cruciale. La psiche è quella di uomo vivo, attivo, legata al presente, non solo "qui" ma anche "ora", soprattutto "ora", in continua interazione umana con il mondo. La psiche si forma in continuazione, si ristruttura a seconda delle modifiche del mondo circostante, mantenendo un contatto continuo con quest’ultimo tramite l’azione. Questo è il modo di sussistere della psiche. L’interruzione del contatto con il presente rappresenta la morte. Il passato appartiene ai morti, mai ai vivi.

Anticipo immediatamente possibili obiezioni. Qualcuno dirà che anche i disordini mentali sono caratterizzati da una interruzione del contatto con presente. Anche in quei casi borderline, che sono tradizionalmente chiamati nevrosi, il paziente evita il contatto con il presente, almeno nei termini di F.S. Perls. È ben noto anche l’infantilismo di tanti malati mentali, la loro impotenza, ingenuità e spontaneità. A questo proposito, si potrebbe controbattere che richiedere ad un nevrotico di ritornare ad un contatto con il presente non sia altro che un approccio terapeutico, che mira soltanto a cambiare i suoi rapporti con questa specifica dimensione temporale, rapporti che invece non si interrompono mai durante tutta la vita dell’uomo, mentre la sua psiche è in funzionamento in qualsiasi sua forma. Lo stesso stupore catatonico, ad esempio, è un modo di relazionarsi con il mondo in qualsiasi momento dato. Noi riteniamo che questo atteggiamento sia sbagliato. Invece, "alla base della formazione della personalità di un uomo malato vi è la logicità psicologica (meccanismi) per molti versi simile alle leggi di un normale sviluppo psicologico "(5, 222), e "… il meccanismo del concepimento di un bisogno patologico è comune con il meccanismo della sua formazione nella norma" (5, 184). Essendo in una continua interazione con il mondo, a seconda delle specificità di questa interazione, la psiche crea nuovi interni determinanti, i quali filtrano a loro volta nuove influenze esterne. Questo è, tra l’altro, il motivo per cui il comportamento umano non è prevedibile con un certo grado di probabilità, anche se si è a conoscenza di tutte le cause, sia esterne che interne. Il comportamento umano non può essere descritto né con le leggi dinamiche né con queste stocastiche. Al momento, le previsioni delle cause che determinano il comportamento umano nel corso del tempo ancora non esistono. Esse ancora non sono semplicemente state teorizzate.

La continua interazione umana con il mondo, il suo essere nel presente, viene mediata tramite il suo atteggiamento di apprendimento. In altre parole, l’interazione con il mondo si basa sulla conoscenza del mondo: della natura, della società, delle persone, di sé stessi. Questa conoscenza viene realizzata attraverso il funzionamento del meccanismo basilare del pensiero — la cosiddetta "analisi attraverso sintesi" (7) — scoperto e scrupolosamente studiato da S.L. Rubinstein e dai suoi allievi. Nel processo di conoscenza, l’oggetto dell’azione si determina come un oggetto. Durante il processo della conoscenza dell’oggetto, vari contenuti dell’attività diventano rilevanti e vengono inclusi in nuovi sistemi di relazioni e quindi si appropriano di nuove qualità. Di conseguenza, viene cambiata anche la relazione dell’uomo verso l’oggetto (ed eventualmente verso il mondo intero), e quindi cambia lo stesso uomo. E’ appunto in virtù di questo processo e del suo "materiale" che l’uomo sviluppa tutti i suoi stati e capacità mentali che diventano i suoi nuovi determinanti.

Per quanto riguarda la psicoterapia possiamo vederne un esempio specifico. Diversi anni fa, a Minsk divenne di moda la psicologia individuale di Alfred Adler. Un gruppo di specialisti, formati all’estero secondo un programma internazionale, avevano formato un gruppo di riferimento di professionisti a Minsk, che a sua volta, avevano radunato nuovi allievi. Naturalmente, la psicoterapia di Adler subì alcune modifiche e, in primo luogo, quelle riguardanti l’interpretazione troppo letterale e superficiale delle disposizioni basilari dell’autore. Ad uno di questi incontri terapeutici gruppali, in cui si discuteva molto della psicologia individuale di A. Adler, del complesso di inferiorità e dello stile di vita, partecipò una studentessa, Julia G. Il terapeuta era convinto che le memorie della prima infanzia riflettevano quegli eventi dell’infanzia che avrebbero determinato una caratteristica dominante della personalità, per cui "l’uomo per tutta la sua vita canta la stessa melodia". Gli incontri di gruppo non furono abbastanza efficaci, così Julia chiese un approccio individuale. La sua richiesta di psicoterapia nasceva dal fatto che recentemente aveva perso una buona occasione per colpa sua e in quel momento il problema persisteva. Il neofita chiese a Julia di ricordare le sue prime memorie d’infanzia. Il compito non fu difficile e lo stile di vita venne formulato nel modo seguente: "ogni volta, quando si avvicina un momento cruciale, io con le mie mani distruggo la mia felicità, il pericolo deriva dall’inconscio". Julia chiese di scrivere questa rivelazione su un pezzo di carta e per due anni portò questa foglio nella sua borsa! Per due anni Julia lottò contro questo suo "stile di vita". Cominciò a frequentare un gruppo terapeutico espressivo di respirazione colotropica e un gruppo di crescita personale. Nel frattempo, la vita andava avanti: si lasciò dal suo ragazzo con cui avrebbe voluto sposarsi, prendendosi naturalmente tutte le responsabilità di questa scelta sulle sue spalle. Avendo inoltre davanti a sé gli studi post-laurea, Julia conseguì una grave peggioramento alla fine del quinto corso, e si oppose al suo supervisore scientifico. Dopo la laurea superò con successo gli esami per la partecipazione ad un programma russo-americano a Mosca che le avrebbe permesso di ricevere un buon stipendio, ma nel giorno in cui avrebbe dovuto redigere tutti i documenti necessari, Julia cercò disperatamente di evitare l’influenza del suo "stile di vita" e, per rassicurarsi, svolse tutti i compiti sul luogo lavorativo in modo scrupoloso facendosi assegnare un compito molto importante e di responsabilità. Quando rientrò, la giornata di ammissione per documenti era ormai terminata e i membri della commissione esaminatrice se ne erano già andati.

Questo caso è esemplificativo non solo perché mostra una profezia auto-realizzata, o una diagnosi auto-confermata, ma perché dimostra tali meccanismi, e nella sua analisi si possono evidenziare tutte le principali categorie della teoria della "psiche come processo".

Prima di tutto, colpisce la formazione di una nuova qualità nella struttura della personalità di Julia. Compare una nuova determinante interna che media le influenze esterne, cioè l’attesa delle proprie azioni volte a distruggere la situazione favorevole. Questa attesa, come una nuova comprensione di sé, deriva dall’inclusione in nuovi sistemi di relazioni di un’immagine estratta dalla memoria della prima infanzia e l’attribuzione a questa immagine di un nuovo valore. Questa analisi delle esperienze vissute e la sua sintesi nel contesto della situazione problematica attuale, interpretata nell’ottica della teoria di A. Adler, fornisce non solo una valutazione degli eventi traumatici in corso, ma indica anche una direzione per un’ulteriore conoscenza di sé e per un’ulteriore relazione con sé stessi e con il mondo. Qui è opportuno usare la categoria "previsione", introdotta nel 1979, da A.V. Brushlinskij (3). La mia esperienza di lavoro con i pazienti ha evidenziato che una previsione, confermata sia in senso cognitivo che pratico, aumenta la suggestionabilità del paziente e blocca il suo atteggiamento critico su quello che sta accadendo. In questo caso, quando nel processo psicoterapeutico viene raggiunto un rapporto di fiducia, la previsione confermata produce uno stato di trance e rende la suggestionabilità più efficace. Sembra che su questa particolarità della psiche si basi l’approccio della ratifica nell’ipnosi non direttiva. L’ipnoterapeuta descrive al paziente la sua condizione attuale e gli comunica che cosa dovrebbe avvenire in un momento successivo; quando questo effettivamente accade, la credenza del paziente aumenta, diminuisce l’auto-controllo, e la trance può diventare più profonda. Negli ultimi anni è stato dimostrato che per la riuscita di una ammonizione nel lavoro psicoterapeutico (e non solo) non c’è bisogno di una profonda e lunga trance. Se la trance è davvero uno stato transitorio (1), diventa importante trovare il momento giusto per intervenire, oppure questo momento può essere trovato accidentalmente (sorpresa, paura, risate, ispirazione, disattivazione dell’attenzione esterna causata da un stimolo monotono, ecc.) Questa condizione è essenziale per tutti i disturbi, sia iatropsicogeni che didattopsicogeni. Rispetto a questi fatti, in generale ben conosciuti, potrei aggiungere che diventa importante in questo momento che avvenga una qualche conferma della previsione. In tal modo, per un attimo si uniscono i processi cognitivi con il processo di ammonizione in un’alleanza psicoterapeutica. In più, la conferma della previsione contribuisce, allo stesso tempo, all’efficacia sia della trance che dell’ammonizione.

Ma anche senza una trance, la conferma della previsione è in grado di confermare ed assicurare la sua veridicità, in particolare, quando il terapeuta gode di autorità (anche se questo avviene anche al di fuori di una interazione psicoterapeutica). Tuttavia, le condizioni di trance rendono il processo di ammonizione più stabile.

Parlerò ancora dell’uso della prognosi in psicoterapia, affrontando un’altra questione: da dove è venuta quest’immagine che ha acquisito un valore così importante, fatidico in questo caso?

Sicuramente, il neofita di Adler sbagliava, pensando che le memorie della prima infanzia indicassero la situazione psicotraumatica originaria. Quest’idea deriva da una cattiva interpretazione della psicoanalisi. Lo stesso Adler, in contrasto con la causalità meccanicistica di Freud, condivideva le opinioni dei teleologi. In particolare, egli ha scritto: "Non vi è nulla nell’inconscio. Ad esempio, tutti i significati dei sogni vengono creati dall’interpretatore, non prima. Dove precedentemente vi era semplicemente una mancanza di comprensione, l’interpretazione viene data con i vecchi concetti ...Il complesso di inferiorità è solo un’idea che noi diamo al paziente. Egli si comporta "come se avesse il complesso d’inferiorità. Io stesso, come inventore del complesso di inferiorità, non intendevo uno spirito, sapendo che esso non esiste nella coscienza o nella incoscienza dei pazienti, ma solo nella mia coscienza". "Sull’identità influiscono di più le aspettative soggettive di ciò che può accadere, piuttosto che l’esperienza passata" (vedi 11, 182).

Sulla base degli studi delle immagini dei pazienti, che comparivano nel corso delle consulenze psicologiche, potrei sostenere la seguente tesi: sogni, fantasie, ricordi d’infanzia, ricordi di episodi visti nei film, oppure letti sui libri, e molti altri, tutto questo è solo un’illustrazione dell’attuale situazione problematica, per così dire è solo la sua spiegazione, ma non è la risoluzione, nè il suo riassunto.

Questo costituisce il materiale per un’ulteriori analisi. Questo è solo un altro scorcio del problema, scaturito dal meccanismo dell’analisi attraverso sintesi. Descrivo un caso accadutomi. Un giorno avevo un importante incontro dove veniva esaminata la questione di un cospicuo vaglia. L’orario dell’incontro coincideva con la mia lezione all’università così, per questo motivo, alla riunione andò un mio collega, persona giovane e molto indecisa. Quando mi avvicinai all’edificio della nostra facoltà, mi venne in mente il pensiero di questo incontro, degli "squali" (!) che vi sarebbero stati presenti, e per rassicurarmi mi dissi: "No, K. è il nostro uomo là". Dopo di che mi distrassi dal pensiero della riunione e mi ricordai di un episodio visto ieri nel "Tempo": un aereo della Repubblica jugoslava sparava agli aerei americani. Il primo era di vecchia costruzione, quelli americani invece supermoderni. In quel momento mi resi conto perché mi era apparsa quest’immagine. La situazione, nella quale si trovava il mio compagno alla riunione, mi diventò estremamente chiara. Restava soltanto da analizzare le parole: " K. è il nostro uomo là". Tutto rimaneva nella stessa dimensione. Questa frase viene detta in un film per bambini "Le avventure di Pinocchio" dalla volpe al gatto: "Il topo è il nostro uomo". Ecco chi eravamo noi tra quegli "squali". In particolare, in queste immagini veniva presentata la situazione problematica, ma non la sua soluzione. Con quest’ultima bisognava lavorare. Credo che i sogni abbiano la stessa funzione. Avevo seguito un paziente alcolista che ogni volta, quando riusciva a ritardare la sua prossima dipsomania, sognava di aver trovato qualcuno con cui bere la vodka. E questo "qualcuno" il paziente non riusciva mai né vederlo né descriverlo. Tra l’altro, il paziente si ubriacava sempre da solo. Sulla base della mia ipotesi, decisi di cercare il fattore provocante, cioè quello che lo faceva bere. La comprensione di questi sogni come una espressione della volontà mi sembrava molto primitiva. Infine, si arrivò al problema dell’omosessualità repressa. Nello stesso modo, le memorie della prima infanzia si limitano ad illustrare la sua situazione problematica attuale.

Il processo dell’analisi attraverso sintesi non sempre viene riconosciuto. L’analisi attraverso sintesi può creare delle immagini, dei vissuti che potrebbero diventare i sintomi psicopatologici. Vorrei soffermarmi ora maggiormente sulla questione della patologia e della norma.

Nel caso di qualsiasi malattia, sia somatica che mentale, la persone soffrono per via dei loro sintomi, vale a dire delle loro manifestazioni esterne, e non della loro causa, descritta come una forma nosologica. Ad esempio, il paziente soffre non per il virus di influenza, ma per il mal di testa, l’alta temperatura, ecc. Allo stesso tempo, se una malattia somatica si sviluppa, per così dire, dall’essenza al fenomeno, per esempio, dall’infezione del virus ai sintomi, la malattia mentale, a meno che non sia dovuta a fattori ereditari, si sviluppa, al contrario, dal fenomeno all’essenza, dal sintomo alla forma nosologica. E’ un fatto conosciuto che la consapevolezza dei sintomi nei nevrotici fa parte della malattia e diviene il suo fattore principale, ma lo stesso argomento può essere applicato a molti altri tipi di disturbi mentali borderline.

E’ l’immagine che diventa il sintomo psicopatologico, il vero significato di cui l’uomo non può comprendere la causa della sua incoerenza nella percezione di se stesso e di suoi doveri. (Qui si può parlare di una protezione psicologica nevrotica-scorretta). Ecco un esempio molto semplice - in questo caso, in verità, si tratta di una risposta nevrotica ordinaria (stress). Una volta durante una conversazione, chiesi a una delle ultime laureate della Facoltà di Psicologia, se fosse stato scritto qualcosa di nuovo riguardo la paura. Lei mi rispose parlando tanto e di altro, agitandosi sempre di più. Alla fine disse: "L’aggressione può essere in funzione della paura. La madre grida al suo bambino in modo da non perdere il suo status sociale". Questa comprensione della situazione attuale avvenne nella studentessa in una forma metaforica, oscurando una comprensione corretta. Io sono un bambino, perché ho chiesto. Lei è la madre perché deve spiegarmi qualcosa. Lei grida, in quanto non sa cosa dire e ha paura di perdere il suo status. Notata improvvisamente da lei stessa la sua aggressività (analisi) si era inclinata in un sistema neutro di relazioni (sintesi).

Ora analizziamo un esempio molto vivido. Una volta insegnavo in un istituto commerciale. Dopo l’esame, una studentessa N. venne da me. Si lamentava del fatto che durante la preparazione per gli esami le era improvvisamente emersa l’immagine di un infinito spaventoso. In ogni parte da cui potesse essere guardato non c’erano confini. Ciò le causò una grande paura. Dopo un po’ di tempo questo stato passò, però N. cominciò a temere che si potesse ripetere. Mi ricordai la frase di R. May: "Il senso di colpa è un senso di vuoto enorme", ed è quello che dissi rispetto a questo caso agli studenti. In più, sapevo che lei stava seguendo allo stesso tempo i corsi sia del primo anno che del secondo e che la sessione era molto difficile per lei. Per tale motivo, decisi che sarebbe bastato l’uso dell’ingiunzione paradossale. Dopo averle chiesto dettagliatamente sullo stato e le condizioni della sua preparazione per la sessione, le dissi che era assolutamente sana. Poi attirai la sua attenzione sul fatto che lei, ovviamente, era esageratamente esaurita e riepilogai i sintomi della sua stanchezza eccessiva con le sue stesse risposte. Infine, le dissi: "Questo suo stato è molto interessante. Per favore, cerchi di ri-viverlo nuovamente, e una volta che ce la fa, mi chiami immediatamente". Successivamente la persi di vista per un periodo di sei mesi. Se solo avesse saputo che non mi aveva detto tutto!

Giunto il periodo della sessione invernale, lei venne da me alla fine di settembre dello stesso anno. In questo caso dovetti ascoltarla più attentamente.

Nel secondo semestre il gruppo della studentessa N. seguiva il corso di psicologia di personalità. Durante una lezione l’insegnante della sua classe leggeva alcune parole, e gli studenti dovevano immaginare qualcosa (non sono riuscito ancora a capire che tipo di tecnica è stata utilizzata). Improvvisamente N. presentò la stessa immagine, raccontandola in seguito all’insegnante assieme ai sentimenti ad essa associati. L’insegnante ne discusse davanti a tutti e le disse che quello era un sintomo di de-realizzazione, le spiegò quanto grave fosse la sua situazione e le comunicò che avrebbe potuto aiutarla anche di persona ma, visto che doveva ancora terminare le lezioni, per N. sarebbe stato meglio rivolgersi a un suo amico terapeuta del servizio dell’assistenza psico-sociale. Andando al colloquio da questo psicoterapeuta, N. fu molto preoccupata, temendo il peggio. Di seguito cito un estratto dal suo racconto: "Improvvisamente lui mi gettò un bicchiere che io dovevo afferrare, e attirò la mia attenzione sul fatto che mi spaventai. Poi lui alzò la bottiglia su di me e io reagii aggredendolo. Il terapeuta disse: "Vede, lei è aggressiva". Poi mi chiese se preferissi una terapia psicoanalitica o gestaltista. Dissi che non sapevo. Il terapeuta mi suggerì la terapia gestalt. Durante le sedute mi faceva discutere (?). Iniziai a soffrire d’insonnia, tanto che mi diede una piccola pastiglia da dividerle in 8 o 16 pezzi, dicendo di prenderla prima di andare a dormire".- "La aiutò?" — "Circa il mio stato no. Ma senza le pillole non ero più in grado di prendere sonno."

L’immagine intanto non scompariva, anzi la perseguitava ovunque. Includendosi in nuovi sistemi di rapporti e di relazioni, questa immagine acquistava una nuova qualità, la qualità di un vero sintomo psicopatologico.

In estate suo marito, un uomo d’affari di successo, la portò all’estero per farla riposare e tutti i sintomi scomparvero.

Dopo essere ritornata all’università, N. si incontrò con la stessa insegnante. Quest’ultima le chiese se stesse continuando a frequentare lo psicoterapeuta, spiegando quanto questo fosse importante. Dopo di che, N. iniziò ad avere gli stessi sintomi: l’immagine spaventosa dell’infinito, la paura che questo non sarebbe mai scomparso, l’insonnia. Divenne difficile studiare. Comparve inoltre anche il desiderio di suicidarsi che poi però scomparve. Pensò quanto i genitori avessero bisogno di lei e capì, soprattutto, che se anche si fosse uccisa, questo spaventoso infinito non sarebbe scomparso, ma sarebbe rimasto. N. andò di nuovo dallo stesso terapeuta che le somministrò le stesse pillole, in seguito venne da me.

N. fu la mia fortuna più grande, in primo luogo perché il mio lavoro con lei risultò un grande successo e, in secondo luogo, perché vidi per la prima volta con chiarezza come si può sviluppare una psicoterapia sulla base della teoria di S.L. Rubinstein.

Innanzitutto, naturalmente, fu necessario determinare quando e in quali circostanze era comparso questo stato la prima volta. In un colloquio confidenziale N. mi disse che all’età di 12-13 anni, aveva perso la capacità di procreare (la causa è rimasta a me sconosciuta). Dopo la scuola, N. si iscrisse all’università delle scienze tecniche. "Sì, non nascondo che mi sono iscritta lì per sposarmi". All’università conobbe un ragazzo che in seguito trovò posto in una società privata solida e dal buon guadagno. Dopo la laurea, N. si iscrisse in un'altra università, questa volta, secondo lei, per ottenere una professione. Un po’ prima della sessione invernale N. si sposò col suo ragazzo e ben presto gli confessò la sua incapacità ad avere figli. Il confronto con lui fu difficile, dopo di che N. si sentì molto giù per una settimana. Proprio in quel periodo, comparve l’immagine dell’infinito spaventoso. Bisogna dire che il marito affrontò quell’avvenimento in modo meno tragico rispetto a lei. Ben presto lui lo accettò e non tornò più sull’argomento. Fu durante questi eventi che N. venne da me la prima volta. Dopo il primo colloquio con me l’immagine spaventosa scomparve e, come disse N., ad avere più influenza non fu la mia proposta di rivedere l’immagine e rivivere lo stato associato ad essa, ma il mio tono sicuro, con il quale le dicevo di trovarla decisamente sana.

A questo punto bisognava comprendere il valore iniziale di questa immagine. Nei pensieri, ricostruii il suo contesto attuale: N. era venuta da me perché la psicoterapia ripresa le impediva di studiare, richiedendo sempre di più la sua attenzione. N. espresse esattamente questo in tal modo: "Come se in te comparisse qualcuno che osserva solo i tuoi atti "patologici" e reagisse solo ad essi". Inoltre, mi ricordai che un anno prima lei frequentava i corsi del primo e del secondo anno, cioè aveva avuto fretta di terminare il suo percorso di studi e di ottenere la professione.

Parlando con me, disse che la sua dipendenza dallo psicoterapeuta e dalle pastiglie rendeva la situazione ancora più pesante e che, in generale, lei odiava qualsiasi modalità di dipendenza. Tutto questo venne espresso con aggressività.

Prima di continuare la descrizione del caso, vorrei fare una nota molto importante che ha, tuttavia, un legame diretto con esso. Voglio richiamare l’attenzione sul fatto che la studentessa N. formulò la sua richiesta in modo non equivoco, anche se non diretto, dichiarando che dopo il mio primo colloquio il suo sintomo molesto era scomparso, e che si sentiva in buona salute perché glielo avevo detto io. N. venne da me a cercare la salute e questa è una condizione molto favorevole per lavorare con un paziente. Sono veramente convinto che, se ciò non avviene, se la ricerca della salute sia esclusa dalla richiesta del paziente, bisogna crearla. Non mi riferisco a un naturale desiderio del paziente di godere una piena salute, ma intendo l’orientamento del paziente nel trovare una norma in sé stesso. In generale, psicoterapeuta e paziente dovrebbero cercare durante la psicoterapia non la malattia, ma la salute. E’ necessario trovare le caratteristiche della normalità del paziente e mantenere i contatti con esse. Questa ricerca dovrebbe essere condotta congiuntamente con il paziente.

Fu, quindi, necessario ampliare il contesto, sviluppando il tema della dipendenza-indipendenza. A quel punto mi si era già formata una comprensione del significato dell’immagine di N., ma era la paziente da sola che doveva giungere ad una adeguata comprensione, solo in questa condizione quest’ultima poteva diventare una sua comprensione e non una decisione imposta dall’esterno. Ho deciso di seguire lo schema prognosi - suggerimento - insight. La prognosi avrebbe dovuto indirizzare il suo pensiero e avrebbe dovuto corrispondere alla sua motivazione di salute per influenzarne il comportamento. Così le dissi: "Ora parliamo con lei ancora della dipendenza e dell’indipendenza. Ma prima, poiché stiamo analizzando la sua terribile immagine, per non dimenticare, voglio dirle che ogni immagine, sia che si tratti di un sogno, di un’immaginazione, o di una memoria (ricordo), illustra sempre una situazione problematica attuale. Tale situazione, che risulta rilevante ora, oppure che è stata rilevante quando l’immagine è emersa per la prima volta, riguarda il materiale la cui analisi ci permette di capire il problema che ci tortura e di scoprire cosa dobbiamo fare per eliminarlo". Dopo due domande di chiarimento e un paio di esempi, N. diede il proprio consenso. Naturalmente, con uno studente-psicologo si dovrebbe spendere più tempo e più forze.

Ora potevo passare alla fase di suggerimenti, iniziando a parlare non della sua immagine, ma di come lei intendesse la dipendenza.

"Che cos’è la dipendenza?" - "Quando si dipende da tutti, a partire dal proprio marito, dal proprio padre, dagli amici. Quando non è possibile essere se stessi" — "Che cosa c’è di male in questo? " — "E’ terribile" — "Che cosa c’è di terribile?" — "E’ spaventoso, quando ti lasciano e si diventa nulla." — "Che cosa vuol dire essere nulla?" — "Quando tu sei nessuno. Nessuno non ha bisogno di te. Quando nessuno ti sopporta. Questo è il vuoto." — "E per salvarsi dal vuoto bisogna cessare di essere se stessi?" "Sì. Non vi è alcuna altra soluzione". — "E di che cosa c’è bisogno per essere se stessi?" — "E’ necessario appoggiarsi a qualcosa...aspetti...E’ come se volesse dire che l’immagine mi mostra ... Questo è come nella mia immagine. Essa mi mostra che non ho niente a cui potrei appoggiarmi?"

Qui vediamo l’emergere dell’insight, un insight che si sviluppa passando le tappe corrispondenti (3). I suggerimenti vengono estratti dal contesto del colloquio condotto dal consulente.

"Credo sia proprio così".

Si sarebbe potuto continuare il colloquio fino a giungere alla formazione da parte di N. dei criteri di ciò che era desiderato, ma decisi di non farlo. Avevo paura di lasciare N. con la sua immagine, sapendo che i piani di comportamento si costruiscono sulla base dell’immutabilità dell’immagine. Ora bisognava cambiare il significato dell’immagine così decisi di dare un’interpretazione. Pensai: un analista che segue la teoria di Adler utilizza la tecnica dell’interpretazione (10), è un fatto comune per molti altri approcci (4, 236); a sua volta l’approccio di S.L. Rubinstein ne ammette l’utilizzo?

Dissi a N.: "Lei è riuscita a capire giustamente il significato di questa immagine che illustra la situazione in cui lei si è trovata. Non si può restare per sempre come "un bel giocattolo per il proprio marito" (come lei stessa si è descritta all’inizio del nostro colloquio). Bellezza e gioventù non sono un sostegno sicuro nella vita ed è spaventoso capire che non c’è niente di più instabile. Ma se lei riuscirà a capire bene il significato di questa immagine, vedrà di aver già scoperto la soluzione e di essersi già appropriata della posizione corretta. Bisogna solo accettarla coscientemente. Lei sta studiando in un buona università per poter avere una buona professione e per diventare indipendente. Si impegna nello studio?" — "Dipende" — "Che cosa glielo impedisce?" — "La mia malattia". — "Ma lei è sana".

Non ho intenzione di illustrare qui tutto il dialogo. Dopo una lunga pausa, N. mi disse che, naturalmente, si atteggiava ad aver una malattia per costringere gli altri a fare il suo lavoro. Ecco la passione per Adler!

La differenza di questa interpretazione è che il consulente cerca di trasferire l’immagine in una azione positiva, superando la riflessione patogena. Forse, in casi di disturbo borderline, è proprio il focus al quale è rivolta l’attenzione che determina se il paziente sia sano o malato. Il centro dell’attenzione, come giustamente osserva B.V Zeygarnik (5), è determinato dalla motivazione che a sua volta è strettamente correlata con l’attività. Un solo riconoscimento, oppure una ri-comprensione delle cause dei sintomi (6, 104) non sono sufficienti, a meno che non siano inclusi nell’azione come una nuova motivazione. Così è emersa la necessità di includere l’attività come un fattore psicoterapeutico.

Entriamo nel campo convenzionalmente riconosciuto come un tabù nella consultazione psicologica e di psicoterapia. Lo psicologo non dà consigli: questa è diventata una regola generale. Ciò è assolutamente giustificato se viene inteso letteralmente. Lo psicologo non deve diventare una specie di "stampella" per il paziente, alla quale quest’ultimo sarà appoggiato per tutta la sua vita. L’obiettivo finale di qualsiasi consulenza psicologica e psicoterapica non è aiutare i clienti a risolvere il loro problema, ma è insegnare loro a risolvere i problemi da soli, aiutarli a diventare indipendenti e maturi. Ma come si può fare ciò senza intervenire nelle sue attività? La verità è che questo non viene raggiunto solo nelle sedute psicoterapeutiche svolte entro le mura degli uffici. È possibile ottenere una reazione nel paziente, si può aiutarlo in forma simbolica a completare l’attività incompiuta dell’infanzia, si può lavorare con la suggestione ipnotica, ma quanto tempo durerà l’effetto raggiunto? Naturalmente un consiglio diretto è inutile, spesso non è competente in quanto nessuno, compreso lo psicologo, non conosce così bene la vita del paziente come il paziente stesso; il consiglio può essere anche nocivo se lo si priva di autonomia, ma quando il paziente stesso prende una decisione anche se con l’aiuto di uno psicologo, quest’ultimo può sostenerlo e incoraggiarne alcune attività. In questo caso, tutti gli incontri successivi dovrebbero essere ridotti a una discussione sulle attività attuali del paziente, commentate dallo psicologo.

Nel caso sopra descritto dovevo consolidare la posizione scelta da N. con un’azione, una attività. Proposi quindi, visto che avevamo deciso di non essere malati ma di lavorare, di buttare via davanti a me tutte quelle pastiglie.

Da quel momento passarono quattro anni. Per tre di questi N. venne da me all’inizio una volta alla settimana e poi con un intervallo di due-tre mesi. Alla fine questi incontri si trasformarono in sedute di sostegno psicologico. Ogni persona ha il desiderio di parlare con qualcuno con cui ha un’empatia sincera. Attualmente N. ha una propria attività che assorbe tutta la sua attenzione e il problema del divorzio non è mai emerso.

L’idea principale della teoria di S.L. Rubinstein è che l’uomo e la sua psiche si formano, si evolvono e si manifestano in azione, in attività. E’ proprio la natura delle attività che determina le neoformazioni che possono sorgere nella psiche umana e le particolarità della personalità. Cercherò di mostrare questo con un esempio tratto dalla psicoterapia. Ho scelto questo caso solo perché, secondo me, esso riesce a dimostrare in modo evidente gli effetti delle azioni, nelle quali viene coinvolto il soggetto, sui suoi cambiamenti e addirittura sulle trasformazioni patologiche della sua personalità. Questa terribile storia, descritta di seguito, non ha avuto luogo a Minsk. Le informazioni su di essa le ho ricevute tramite le interviste dei partecipanti, da un’osservazione obiettiva.

Non penso che tutto questo sia stato attentamente pianificato in anticipo. Gli eventi si sono evoluti spontaneamente. Un effetto ne ha causato un altro. Qui sarebbe opportuno introdurre un nuovo concetto di "soglia di arbitrarietà", in particolare applicabile in psicologia sociale e in vittimologia. La soglia di arbitrarietà è una zona al di fuori del controllo sociale. Ad esempio, un supervisore scientifico che si attribuisce le idee di un laureando sapendo che quest’ultimo non potrà lamentarsi. Oppure ho conosciuto un dentista che, durante la Seconda Guerra Mondiale, era stato nominato chirurgo ospedaliere. Non sapeva fare gli interventi chirurgici e ogni volta praticava solo ciò che aveva imparato in fretta: amputava indipendentemente dalla natura delle lesioni. Ora che era diventato anziano, la sua coscienza aveva improvvisamente cominciato a tormentarlo. O lo psichiatra che, ancora poco tempo fa, aveva piena autorità sul paziente. Il marito che picchia sua moglie e che quando si ubriaca si appropria di un "comportamento da porco". Il ragazzo che nel rapporto con la sua ragazza prima le permette tutto, poi improvvisamente si trasforma in un sadico e ciò risulta inaspettato non solo a lei ma anche a lui stesso. La soglia di arbitrarietà è al di fuori della zona di pena, al di fuori della condanna. La soglia di arbitrarietà ha un carattere provocatorio, il comportamento si sviluppa progressivamente da una fase ad una successiva, si esclude un atteggiamento critico da parte del soggetto per le proprie azioni, le motivazioni e gli obiettivi del comportamento non vengono presi in coscienza.

Durante un seminario di psicologia gli studenti presentavano le loro relazioni. Lo studente Y. lesse la sua relazione riguardante la parapsicologia. L’insegnante cercò di deriderlo davanti a tutti ma invano poiché, come disse la stessa insegnante, in seguito il gruppo classe accolse la posizione "sbagliata" dello studente Y. Non è compito mio quello di analizzare la personalità della docente. Potrei dire solo che lei aveva le sue ragioni soggettive per prendere questa sua sconfitta in modo doloroso. Gli sviluppi conseguenti a questa storia furono da lei così commentati: "In seguito lui scoprì dove può portare la passione per la parapsicologia".

Questa docente, che aveva delle conoscenze in un ospedale locale psichiatrico; invitò lo studente Y. a vedere alcuni pazienti. Allo studente Y. vennero mostrati i malati cronici e poi fu testato in un laboratorio psicologico. Il metodo del pittogramma dimostrò la sua schizofrenia (qui mi astengo dal fare commenti). Dopo la diagnosi, venne condotto un lungo e dettagliato colloquio sulla schizofrenia, sui suoi sintomi e sulle sue forme. Questo fu un punto molto importante. Si trattò della formazione di un’immagine evocativa "di lancio". Ancora quando apprendevo le tecniche d’ipnosi, notai un interessante approccio metodologico da parte di alcuni docenti. L’insegnante aveva a lungo spiegato ai nuovi arrivati lo stato di trance, o, meglio ancora, aveva detto al gruppo di descrivere, uno dopo l’altro, come ciascuno immaginasse cosa succedesse, a suo avviso, ad un uomo in uno stato di trance; in seguito l’insegnante integrava le formulazioni nominate all’interno del modello della suggestione. Lo stato di trance avviene sempre nel modo in cui viene rappresentato dal gruppo. Gli ipnotizzatori "di varietà", ad esempio, usano gli stessi metodi. Essi parlano al pubblico a lungo di se stessi e di ciò che era accaduto alle persone da loro ipnotizzate nei precedenti show, descrivendo in modo dettagliato loro condizione, e solo dopo questo selezionavano le persone maggiormente ipnotizzabili. In caso di induzione iatrogena, il medico crea un’immagine "di lancio" richiamando l’attenzione sulle manifestazioni delle malattie correnti, o in psichiatria, sulle reazioni nevrotiche del paziente. Ad esempio, lo psicoterapeuta dice "sorriso", vedendo che il paziente non riesce a sorridere. Sull’immagine "di lancio" è basato l’effetto placebo. L’immagine "di lancio" è una previsione, una prognosi, fatta in una situazione psicologica (2, 57) senza formulazione diretta. L’immagine "di lancio" viene data all’interno di una "lingua contestuale" (il termine appartiene a S.L. Rubinstein). L’immagine "di lancio" è sostanzialmente diversa dalle immagini descritte in precedenza, create dalle attività cognitive del soggetto. L’immagine "di lancio" deriva da un’invasione proveniente "da fuori", e viene costruita dal proprio materiale che però è insignificante per il soggetto. Proprio per questo, questa immagine può, in casi estremi, provocare un disordine schizotipico. L’unità della personalità si disgrega quando "l’azione, esclusa dalla costruzione del soggetto stesso, perde il collegamento interno con esso. Perdendo il rapporto con il soggetto, le azioni in tal modo perdono il legame tra di loro. La personalità, alla fine, rappresenta veramente un solo "mazzo" o "fascio" (bundle) di rappresentazioni" (9,105-106).

Sicuramente, l’immagine "di lancio" nel caso di Y. non potrebbe di per sé causare la trasformazione successiva della sua personalità e del suo comportamento senza essere inclusa nella sua attività in corso. Però questa attività dovrebbe essere stata composta da atti puramente simbolici che, secondo S.L. Rubinstein, sono puramente fittizi in quanto rappresentano le azioni (9, 106). Questa definizione, riguardante gli atti rituali utilizzati anche dai culti religiosi al fine di creare una mentalità corrispondente nei credenti, è pienamente applicabile al meccanismo di formazione degli effetti iatrogeni.

Y. cominciò a ricevere le prime cure. Dopo un po’ di tempo, durante il quale vi era stata una comunicazione ininterrotta con l’insegnante di psicologia, fu visitato dallo psichiatra del suo distretto che gli diagnosticò una nevrosi ossessiva e lo mandò al riparto di nevrosi di un ospedale somatico. La professoressa di psicologia espresse indignazione contro l’incompetenza dello psichiatra.

Dopo il soggiorno al riparto di nevrosi i contatti con la professoressa ripresero. Lei aveva già instaurato un rapporto con la madre e la moglie di Y. Il desiderio di dimostrare che aveva ragione divenne eccessivo e in questa fase introdusse l’idea che la schizofrenia di Y. venisse aggravata dall’abuso di alcol. La sindrome della fase iniziale dell’alcolismo venne interpretata come manifestazione della schizofrenia. L’intera famiglia frequentò attivamente le consultazioni della professoressa di psicologia, che sembrava essere l’unica a sapere che cosa fare.

Vorrei in particolare sottolineare che qui non è così importante la comunicazione, ma le azioni che le persone fanno in conformità ad uno scopo (ad esempio per confermare o smentire la diagnosi, ecc.). E’ una sorta di rituale. Proprio nell’azione viene formato quello spazio semantico specifico e quella motivazione corrispondente che consentono poi il commento necessario. Parafrasando le parole di S.L. Rubinstein, tutto dipende dalla natura dell’azione: se è produttiva, creativa, o rituale, farsa.

Alla fine Y. accettò di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, "per favoritismo", nel riparto di psicosi. L’ultima volta che lo vidi, Y. tentava di superare una prova di esame universitario con la sua neurolepsia non curata. Y. non è più riuscito a diplomarsi, ha divorziato, lavora ogni tanto ed è registrato in un dispensario psiconeurologico. Chi lo vede ora dice che egli sia un tipico pazzo.

Cercherò ora in termini più generali di rispondere alla domanda su che tipo di psicoterapia può essere sviluppata sulla base della teoria di S.L. Rubinstein. Vorrei citare di nuovo un caso, questa volta relativo all’articolo qui presentato, di cui espongo inizialmente una breve anamnesi.

Al laboratorio di sostegno psicologico di EHU presentò la sua richiesta una signora di età pensionabile. Un anno prima, lei era stata ricoverata in un ospedale psichiatrico e ora aveva paura che la sua condizione potesse tornare rendendo necessario un nuovo ricovero in ospedale.

Qual’era stata questa condizione? Essa era emersa durante l’estate scorsa quando la signora stava in campagna con la sua nipote di 12 anni e con l’amica di quest’ultima. La signora era sempre in pensiero per la mancanza di denaro e per il futuro. Anche dopo aver raggiunto l’età del pensionamento, continuava a lavorare come insegnante di lingua presso due università. Suo marito era morto molto tempo prima e lei aveva preso il ruolo di unico capo famiglia. Sua figlia era una romantica bella ragazza di 38 anni che, pur avendo una laurea di istruzione superiore, non aveva mai lavorato. Ancora nella prima gioventù, aveva divorziato dal suo primo marito e sposato per amore un uomo con una disabilità di primo grado. Da questo rapporto era nato un bambino. La necessità di occuparsi di un marito malato le prendeva tutto il tempo e la sua pensione veniva spesa per il suo mantenimento e per le medicine. In più, seguendo la tradizione familiare, i figli erano stati iscritti in alcune scuole prestigiose mentre la figlia maggiore frequentava la scuola musicale. La signora era anche preoccupata per i suoi studenti. Le richieste crescevano e lei non poteva più migliorarsi nella professione. In seguito ci si misero anche questi computer! I colleghi cominciarono ad offenderla con allusioni sconvenienti e ridicole derisioni sulla sua età da pensionamento. Non ci si poteva aspettare aiuto da nessuna parte. "Che cosa sarà di noi?" — chiese la signora.

Così un giorno, dopo aver messo i bambini a letto e dopo aver finito tutte le faccende di casa in campagna, la signora andando a letto sentì un enorme vuoto nero davanti a lei e una paura così insopportabile che dovette alzarsi e accendere la luce. La paura fu così forte che temette di suicidarsi nel caso non fosse passata. La signora ebbe paura di coricarsi nuovamente a letto e si addormentò solo alla mattina. Durante la giornata tutto fu normale e a quel punto tornò rapidamente in città. Dopo aver restituito l’amica della nipote ai genitori e la nipote alla figlia, dispiaciuta per questo, la signora andò dal neuropatologo, il quale la mandò dallo psichiatra del distretto. Il medico le disse che sarebbe potuta peggiorare finendo per commettere un suicidio, le diagnosticò una melanconia involutiva e le consigliò il ricovero in una clinica psichiatrica. La signora si trovò bene nel servizio. Il medico, una donna accogliente, le disse: "Potrà andarsene quando ne avrà voglia". In clinica la trattarono bene, però la signora sentì che il farmaco le toglieva le forze, mentre lei aveva ancora bisogno di lavorare. Per questo poi si dimise senza completare tutto il ciclo di trattamento. "Sono letteralmente uscita a stento dall’ospedale e ho raggiunto casa con tanta difficoltà". Naturalmente a casa non cambiò nulla. Dopo sei mesi i rapporti con i colleghi peggiorarono. Gli studenti diventarono ancora più sfacciati e ora lei temeva che la sua situazione potesse ritornare. "Mi sembra di capire che è giunto il momento per me di andare in pensione, - disse - ma non posso andarmene".

Il lavoro viene diviso in 4 fasi. Nella prima fase viene fatta un’anamnesi e si raggiunge una comprensione del significato obiettivo del sintomo. Qui lo psicologo si basa sia sulla conoscenza delle leggi del funzionamento del meccanismo fondamentale del pensiero, un’analisi attraverso la sintesi, sia sulla comprensione dei vissuti attuali del soggetto come un prodotto del suo stesso funzionamento. Nella fase successiva il lavoro viene condiviso con il paziente, basandosi sul metodo dei suggerimenti, lavoro volto a creare le condizioni per una comprensione da parte del paziente sul significato obiettivo dei suoi sintomi. Dato che S.L Rubinstein sottolinea la necessità per lo psicologo, per una vera e propria penetrante conoscenze psicologica, di diventare "un’ostetrica socratica", avrei portato questo metodo alla categoria maieutica. (Più tardi, indipendentemente da S.L. Rubinstein, sull’uso del metodo maieutico nella conoscenza in psicologia e, in particolare, in psicoterapia, hanno iniziato ad occuparsene i teorici della Dasein-analisi).

Nella terza fase la comprensione raggiunta del significato obiettivo del sintomo viene tradotta in azione. Da notare, che tra le fasi non vi è alcun confine disgiuntivo ma resta un’interazione maieutica, che si costruisce attorno alle azioni in via di sviluppo del paziente. Qui è opportuno fare riferimento ad un’importante citazione di S.L. Rubinstein. "La più profonda, veramente penetrante conoscenza psicologica, può essere sicuramente raggiunta nell’attività di un uomo che per il suo partner-sperimentato diventerebbe un’ostetrica socratica delle sue idee germinali, un guaritore della sua infermità mentale, un leader nella soluzione di conflitti di vita, un’assistente nel superare le difficoltà contro le quali è inciampata la sua vita." (8,177).

Infine, per quanto riguarda la quarta fase, il lavoro svolto viene completato. E’ il cliente stesso che decide quando bisogna interrompere il lavoro. Dopo aver cambiato qualcosa nella sua vita, il paziente non ha più semplicemente bisogno d’aiuto psicologico. Ma questa fase può prolungarsi per un periodo abbastanza significativo e consistere in un numero limitato di incontri di "controllo" che si svolgono su iniziativa del paziente.

Nell’ultimo caso, la discussione maieutica della sua immagine e della sua condizione ha permesso alla paziente di assumere una posizione corretta e di capire adeguatamente la sua situazione di vita. Con il sostegno dello psicologo è riuscita a prendere l’unica decisione corretta e necessaria: la signora è rimasta al lavoro per metà del tempo, il cui guadagno, combinato con la pensione, le risultava sufficiente. La riduzione del carico lavorativo e, di conseguenza, del reddito della madre ha indotto la figlia a trovare un lavoro. La posizione della figlia è diventata col tempo indipendente, ciò ha cambiato la distribuzione dei ruoli all’interno della famiglia, e l’ha portata a capire che bisogna vivere secondo i propri mezzi e a ridurre la conflittualità, anche perché la madre ora si mantiene da sola e non risulta un peso per la famiglia della figlia. Vale la pena diventare se stessi - gli anziani hanno bisogno di riposo e di cura da parte dei vicini - e la vita diventa così più ordinata.

In conclusione tengo a dire che la mia esperienza mi convince a non temere di influenzare l’attività vitale dei pazienti, con l’obbligo di mantenere una posizione maieutica, senza uscire, in nessun caso, al di là del suo ambito di applicazione. Allo stesso tempo, i cambiamenti positivi implicano necessariamente una partecipazione attiva da parte del paziente che diviene il soggetto delle sue stesse modifiche. Naturalmente, questo metodo è efficace solo quando i sintomi appaiono sullo sfondo di una coscienza critica del paziente.

Definirei questo approccio come "psicoterapia attivo-processuale" o "psicoterapia collaborativa".

 

Nota dei traduttori

La diffusione della psicologia sovietica in Italia ha avuto sorti alterne condizionata dai diversi accadimenti storico-politici che l’hanno attraversata. Nonostante prima della seconda guerra mondiale avesse conosciuto una forte espansione, grazie alla diffusione e condivisione del pensiero marxista, diversi eventi socio-politici si sono poi susseguiti modificando radicalmente questa tendenza: l’avvento del fascismo, la successiva liberazione americana, l’influenza della Chiesa, la vittoria della Democrazia Cristiana nel panorama politico, per citarne i principali. L’indirizzo dell’interesse scientifico e accademico ha subìto perciò una svolta cruciale direzionandosi sempre più verso posizioni filoamericane. Dalla seconda metà del novecento gli scambi tra le due psicologie, sovietica e italiana, sono stati altalenanti, così come indicato da L. Mecacci, creando solo a volte un terreno di dialogo che fosse veramente stabile o legittimo (vedi l’articolo di L. Mecacci, "La Psicologia Russa e le Scienze Psicologiche e Psichiatriche in Italia nella seconda metà del Novecento": www.utoronto.ca/tsq/17/mecacci17.shtml ).

Grazie ai recenti fenomeni di globalizzazione, di immigrazione e di informatizzazione su scala mondiale, il mondo scientifico ha avuto la possibilità di conoscere ed esplorare nuovi approcci epistemologici e metodologici, confrontando su piani non discriminatori paradigmi un tempo lontani. Il mondo della psicologia, della psichiatria e della psicoterapia non ne sono stati (e non ne sono) certo esenti.

Nella speranza di dare un nostro contributo in questo senso, presentiamo il seguente articolo da noi tradotto, "L’approccio attivo-processuale nella psicoterapia", che sintetizza, attraverso la presentazione di casi clinici esemplificativi, i fondamenti della teoria di V.A. Polikarpov nata a partire dal pensiero di S.L. Rubinstein.

Confidiamo che tale lavoro possa rappresentare sia un’occasione per conoscere e approfondire uno dei nuovi approcci della psicoterapia postsovietica; sia per stimolare un dialogo con i diversi orientamenti psicoterapeutici diffusi in Italia, favorendo l’individuazione di comuni punti di contatto e la discussione di eventuali punti di criticità.

 

NOTE

1 S.L. Rubinstein utilizza la categoria "azione" nel senso hegeliano e fichteiano del termine, non in senso marxista. In Italia questa categoria è stata ripresa dagli studi di Giovanni Gentile, fondatore della filosofia attivista. S.L. Rubinstein ha vissuto nel periodo stalinista e, per questo motivo, era vincolato dal mascherare i suoi scritti con delle citazioni di Marx. Eliminandole comunque il senso del suo lavoro non cambia.

  1. ende un passato fissato, scollegato dalle coordinate temporali presente-futuro [nota dei traduttori].
  2. L’intendere il malato senza il presente [nota dei traduttori]

  1. Induzione ipnotica [nota dei traduttori].
  2. Un telegiornale nazionale russo [nota dei traduttori].
  3. R. May fu uno degli esponenti della Psicologia Umanistica assieme allo psicologo A. Maslow e il filosofo M. Buber [nota dei traduttori].
  4. immagine che evoca un’altra immagine" [nota dei traduttori].
  5. Non psichiatrico [nota dei traduttori].
  6. European Humanities University è una università bielorussa con sede a Minsk fino al 2004, ora in esilio a Vilnius in Lituania.
  7. Qui, il termine "sperimentato" si riferisce all’esperienza di un uomo che viene conosciuto da uno psicologo e che conosce se stesso.

Claudio Davanzo, psicologo, consulente per l'azienda ULSS 12 Veneziana, presidente della coop. Poiesis onlus - Psicologia Servizi Educativi Ricerca - di Milano, specializzando in psicoterapia presso l'ist. Aretusa - Scuola di psicoterapia psicoanalitico fenomenologica - di Padova.
e-mail:
claudiodavanzo@tiscali.it

Katsiaryna Pishchala, studentessa dell’Università di Venezia Ca’Foscari, corso di specialistica in Politiche e Servizi Sociali, ex studentessa di European Humanities University di Minsk, corso di Psicologia.
e-mail:
katia.pishchala@live.it

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