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Carlo Bonomi, Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 295, Euro 22

[Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’Introduzione di questo importante libro, che copre davvero una lacuna non irrilevante all’interno della sterminata bibliografia relativa a Freud. Le implicazioni epistemologiche, storiche e teorico-cliniche del discorso di Bonomi richiedono l’apertura di uno spazio di riflessione e di discussione, che queste pagine dell’Introduzione riusciranno senza dubbio a sollecitare ]

 

Introduzione

Questo breve lavoro nasce da una preoccupazione riassumibile in una domanda: come possiamo collocare la scoperta freudiana nel contesto storico senza appiattirne i contorni? Il richiamo ai "margini" che appare nel titolo riassume la doppia esigenza di riconnettere il corpus psicoanalitico alla storia della mente nell’età moderna e dall’altro ci aiuta a ridefinire lo sfondo sul quale noi dobbiamo posizionare l’opera di Freud se vogliamo che essa ci risulti ancora significativa.

L’azione di posizionamento contro uno sfondo è qualcosa che di solito non viene neppure avvertito come una azione che il lettore compie. Eppure è una azione essenziale perché il senso, la direzione e la forma di quello che il lettore vedrà, dipende in buona parte da questa azione, per lo più affidata agli automatismi della tradizione. Capita, però, a volte, che questi automatismi non funzionino più e che si perda quella presa diretta nelle cose che fa sì che esse ci appaiano come dotate di senso. Credo che questo sia avvenuto anche con la psicoanalisi. È avvenuto in modo particolarmente eclatante con il fenomeno dei "Freud bashers" (dei "picchiatori di Freud") che ha caratterizzato la scena internazionale degli anni 1990, quando una serie di intellettuali provenienti da ambiti vari ha incominciato a prendersela con il padre della psicoanalisi nel corso di esercizi di lettura che, si badi bene, non sempre erano sciocchi (a volte presentavano alcune analisi brillanti, per lo meno all’inizio), ma che però scontavano il fatto di non sapere più su quale sfondo posizionare l’opera di Freud. Così, alla fin fine, se la prendevano con un Freud che era diventato un concentrato di banalità e luoghi comuni e in cui si rispecchiava un mondo che i lettori non sentivano più come loro, un "Freud di cartapesta" che aveva smesso di parlarci.

Ma la vera questione è che già da un po’ Freud aveva difficoltà a farsi capire. Quando incominciai ad interessarmi della psicoanalisi, a cavallo tra gli anni 1970 e ’80, il suo mondo non era così lontano come lo è oggi, ma non era nemmeno più tanto vicino. Per quanto nessuno dubitasse della originalità del padre della psicoanalisi, non era più chiaro in che cosa consistesse quella che allora si chiamava la sua "rottura epistemologica". Introducendo la nozione di " coupure épistémologique" Althusser (1963-64, p. 78) aveva cercato di catturare la " rottura della continuità in relazione al campo anteriore " e l’effetto di " sconvolgimento " del campo sul quale era sorta l’opera di Freud. Sulla questione vedi il breve capitolo dedicato ad essa da Borch-Jacobsen e Shamdasani nel Dossier Freud (2006, pp. 163 sgg.), nel quale sono posti alcuni importanti interrogativi, che comunque non ricevono una soluzione. Il presente libro nasce precisamente all’insegna della necessità di chiarificare il senso di tale rottura, senza negare la storia (come nella tradizione dogmatica della psicoanalisi), ma anche senza negare la differenza introdotta dalla psicoanalisi. Se nel presente libro tanto spazio sarà dedicato alla prassi della castrazione reale, è proprio perché tale prassi viene individuata come il terreno in cui si rende visibile la rottura epistemologica della psicoanalisi. Come scrivo in un lavoro recente intitolato "Dalla mutilazione del genitale al culto del fallo" (Bonomi, 2006): " Si deve dunque riconoscere che la "rottura epistemologica" non è il titolo di una soluzione ma di un problema aperto, di una sfida costate a rimettere in questione la psicoanalisi in quanto sapere costituito, non per negare la sua legittimità, ma per ritrovare le sorgenti della sua vitalità nelle pieghe di una storia che la stessa psicoanalisi è chiamata a dispiegare. Se non si deve infatti negare la storia, non la si deve neppure sovrastimare. Il suo potere esplicativo non è così grande. La storia è piena di luoghi che non sono trasparenti e quello della castrazione è specialmente oscuro. Storia e psicoanalisi possono allora cercare di illuminarlo reciprocamente." La scoperta dell’inconscio non poteva essere perché, come Ellenberger (1970) aveva mostrato nella sua poderosa ricostruzione storica delle radici della psicologia dinamica, l’idea di forze dinamiche inconsce era moneta corrente ben prima della nascita della psicoanalisiQuanto al linguaggio anodino e altisonante della metapsicologia, esso aveva smesso di alimentare l’illusione di una iniziazione ad un sapere superiore, ed anzi era stato riconosciuto come così inquinato da promuovere tentativi di eliminarlo, come quelli di George Klein (1975) e di Roy Schafer (1976). Il primo lanciò un duro attacco al concetto di pulsione sessuale come accumulo autonomo di tensione somatopsichica all'interno di un apparato psichico concepito come sistema idraulico, evidenziando il carattere di risposta a stimolazioni esterne della sessualità e la sua inerenza ad un tessuto di significati e relazioni umane interiorizzate. Tutto questo, per Klein, era presente nel Freud clinico, il quale doveva però essere liberato dalle analogie pseudo-esplicative del Freud teorico. Il secondo era giunto ad auspicare Una nuova lingua per la psicoanalisi, in un testo che iniziava con parole così forti che meritano di essere ricordate:

Gli psicoanalisti freudiani non possono più a lungo permettersi di mantenere, senza sfidarla, la convinzione che le proposizioni psicoanalitiche debbano essere formulate nei termini della metapsicologia di Freud o in termini con essa compatibili. Di fatto abbiamo smesso da tempo di usare questo miscuglio di linguaggio fisico-chimico e biologico evoluzionista. Mi riferisco al linguaggio eclettico di forza, energia, catexis, meccanismo, sublimazione, neutralizzazione, da un lato e funzione, struttura, impulso, oggetto e adattamento dall'altro. (Schafer 1976, p. 3)

La questione del vocabolario della metapsicologia era importante perché implicava la definizione della posizione che Freud occupava rispetto ai saperi tradizionali. Uno dei detonatori di questo problema era stata la pubblicazione postuma del Progetto di una psicologia, un manoscritto incompiuto che Freud aveva inviato nel 1895 all'amico di Berlino Wilhelm Fliess. Il lavoro faceva parte di un voluminoso carteggio che copriva gli anni degli inizi della psicoanalisi, rimasto fra le carte della vedova di Fliess e poi acquistato dalla principessa Marie Bonaparte nel 1936. Nel 1950 buona parte delle lettere e delle minute vennero pubblicate a cura di Marie Bonaparte, Anna Freud e Ernst Kris nel volume intitolato Aus Anfängen der Psychoanalyse (tradotto in italiano nel 1961 come Le origini della psicoanalisi). Il volume presentava alcune cose di grande interesse e ne taceva altre; ciò che al momento colpì maggiormente fu proprio il Progetto, il quale rivelava l’adesione profonda di Freud al programma riduzionista di alcuni suoi maestri, come Brücke, il quale era stato una figura importante del movimento di biofisica sorto a Berlino a metà Ottocento con il fine di introdurre in fisiologia l’orientamento meccanicistico-matematico. Il Progetto si proponeva infatti di descrivere il funzionamento dell’apparato psichico come un sistema di neuroni governato da processi puramente quantitativi, ossia senza fare ricorso alcuno alla soggettività, ed era formulato in un linguaggio talmente astratto che finiva per scombinare la narrazione della nascita della psicoanalisi come scoperta di fatti clinici — la qualcosa rendeva necessario elaborare una nuova storia o introdurre un qualche aggiustamento.

Fu Kris ad incaricarsene suggerendo, nella prefazione al volume, che la nascita della psicoanalisi coincideva con la transizione da un Freud prevalentemente "fisiologo", quale è attestato dal Progetto del 1895, ad un Freud prevalentemente "psicologo", quale è rivelato da L'interpretazione dei sogni del 1899. Il principale punto di svolta veniva individuato nella "autoanalisi" del 1897 e nella inerente scoperta della sessualità e passionalità edipica infantile. Sarebbe stato nel corso di questo "spostamento degli interessi scientifici" che il vecchio vocabolario fisiologico avrebbe acquisito nuovi significati psicologici (Kris 1950, p. 528). Kris poteva così scrivere:

Nel corso di questa evoluzione alcuni hanno avuto l'impressione che i principi fondamentali della psicoanalisi debbano considerarsi invecchiati, perché molti dei loro termini derivano dalla terminologia scientifica degli ultimi due decenni del secolo scorso. Il fatto è incontestabile ... Tuttavia è anche vero che la terminologia tradizionale ha acquistato con la psicoanalisi un nuovo significato che spesso ha ormai poco a che fare con quello originale. (p. 538)

Questa strategia esplicativa venne ripresa da Ernes Jones, il quale scrisse nel primo volume di Vita e opere di Freud, che questi "dava ai termini che usava dei significati psicologici che li rendevano indipendenti dal loro contesto originale" (1953, p. 437), e sistematicamente adottata da James Strachey, il curatore della Standard Edition.

Questo aggiustamento rimandava le difficoltà e i dubbi senza risolverli: che senso ha mai, infatti, mantenere dei termini fisicalistici e biologici, se si vuole che essi siano intesi in senso psicologico? Non sarebbe stato più sensato usare un vocabolario psicologico, se di questo si trattava? Un momento cruciale del crescente disagio verso il vocabolario psicoanalitico fu l'incontro tra studi storici (in particolare Bernfeld 1944, 1951, Amacher 1965) e studi teoretici nella tradizione di Rapaport che si realizzò nello studio di Robert Holt del 1965 sull'influenza degli assunti neurobiologici nel pensiero freudiano. In esso Holt affermava:

Da questi studi storici, mi si è imposta la seguente formulazione sommaria: molti dei risvolti più enigmatici e apparentemente arbitrari della teoria psicoanalitica, che comprendono asserzioni che sono false al punto da non essere in alcun modo verificabili, sono o assunti biologici nascosti o risultano direttamente da tali assunti, che Freud imparò dai suoi insegnanti di medicina. (p. 115)

Holt prendeva posizione contro quella tendenza a sminuire l'impatto dei vecchi termini neurofisiologici sulla creazione della nuova teoria psicologica che aveva portato Strachey a dire a proposito del Progetto che ciò che Freud vi aveva scritto in termini neuro-fisiologici risultava "valido e molto più intelleggibile se tradotto in termini mentali" (Strachey 1957 p. 164; cit. in Holt 1965, p. 129). "Al contrario", Holt ribadiva, "io credo che molte delle oscurità, fallacie e contraddizioni interne della teoria psicoanalitica sono piuttosto derivati diretti della sua eredità neurologica" (p. 129). Questa critica metteva in discussione l'idea che, nel suo atto di nascita, la psicoanalisi avesse pienamente convertito il senso dei "vecchi" termini neuro-fisiologici per significare qualcosa di completamente "nuovo" e "psicologico".

Molti contributi di quegli anni nacquero come tentativi di risolvere questa tensione tra vecchio e nuovo. Paul Ricoeur, nel monumentale sforzo interpretativo del 1965, si attenne, come un equilibrista, all’assunto che la terminologia psicoanalitica tratta dalle scienze naturali fosse "semi-metaforica", e Daniel Lagache, introducendo il vocabolario della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis (1967) ammise che lo "scandalo" della psicoanalisi consisteva nel fatto di parlare di cose che per il senso comune non esistono neppure:

lo scandalo della psicoanalisi non consiste tanto nell'importanza da essa attribuita alla sessualità, quanto nell'introduzione della fantasmatica inconscia nella teoria del funzionamento mentale .... ma il linguaggio comune non ha le parole necessarie per designare strutture e processi psichici che per il senso comune non esistono neppure, per cui è stato necessario inventare delle parole ... (Lagache 1967, p. VII)

Lagache toccava qui un problema cruciale, attorno al quale inizieranno presto a convergere i tormenti dell’epistemologo e dello storico, il problema del rapporto tra psicoanalisi e senso comune. Se Lagache si accontentava di dire che Freud aveva sottratto le parole della psicoanalisi dal linguaggio ordinario, su questo punto si sarebbero concentrate alcune delle obiezioni più interessanti degli anni successivi. Partendo da una concezione del linguaggio ispirata da Wittgestein, come di un "insieme di regole per costituire una versione del mondo", Schafer (1976) accusò il vocabolario di essere molto più seriamente implicato nella costituzione della esperienza e dei "fatti" psicoanalitici di quanto fosse comunemente presunto. Come psicoanalisti, egli diceva, "abbiamo imparato a parlare" una certa lingua, abbiamo "acquisito una competenza nello sviluppare le implicazioni di questi termini e nell'estendere le loro applicazioni" fino a credere di possedere un "sapere preconcettuale" che esisteva prima e indipendentemente dalle parole. Come era avvenuto questo incantesimo? Schafer riteneva che il linguaggio fosse implicato nella creazione di "fatti" attraverso il nascosto uso di analogie operative che avrebbero sottilmente organizzato la molteplicità dell'esperienza nell'unità del discorso. Queste analogie derivavano dalle tradizioni scientiste cartesiana, newtoniana e darwiniana in cui Freud era cresciuto, le quali potevano a loro volta essere considerate come versioni sofisticate delle metafore concretistiche che pervadono il linguaggio quotidiano e che, a loro volta, sarebbero derivate dall'esperienza infantile corporea e indifferenziata. Nella sua teorizzazione metapsicologica, Freud avrebbe fatto un uso sistematico di questi modi figurati, concretistici e impropri di descrivere le azioni mentali. O, come dirà alcuni anni più tardi, egli avrebbe intessuto i suoi racconti metapsicologici nella doppia trama della metafora della "macchina" newtoniana e della "bestia" darwinista, le quali rispecchiano al tempo stesso vissuti corporei e racconti infantili universali (Schafer 1980-81). Freud avrebbe così avvolto le sue intuizioni psicologiche nelle due strutture narrative principali del suo tempo, introducendo nel suo argomentare metapsicologico assunti metafisici come il meccanicismo e l'animismo, fallacie logiche come l'errore categoriale e il regresso all'infinito, ed opzioni morali come il determinismo perfetto che nega all'uomo ogni libertà e responsabilità. Quella che tradizionalmente è stata chiamata metapsicologia, arriva a dire Schafer all'inizio degli anni Ottanta, è il risultato di una "distillazione di senso comune sofisticato":

Il senso comune sofisticato è la fonte degli assunti precritici da cui sono derivate le strutture narrative della psicoanalisi ... La psicoanalisi non prende il senso comune qual è, ma lo trasforma in un distillato più completo … Tradizionalmente questo processo di elevazione del senso comune è stato chiamato metapsicologia psicoanalitica. (Schafer 1980-81, p. 207)

Formulata nel suo tipico stile provocatorio, questa tesi di Schafer veniva in un certo senso a chiudere il lungo e travagliato periodo della cosiddetta "crisi della metapsicologia": una volta aperte e dispiegate, le analogie attorno a cui era costruito lo scandaloso linguaggio freudiano si erano rivelate come un concentrato di senso comune!

Se la stagione della "crisi" poteva dirsi chiusa era soltanto perché, con questa mossa, tutta la problematicità della metapsicologia si era trovata di colpo trasferita al senso comune. Il senso comune non era più ovvio: si doveva imparare ad ascoltarlo in modo nuovo. Ma che cosa era il senso comune? Era davvero riconducibile ad un unico insieme di vissuti corporei infantili universali, sempre uguali a se stessi in qualunque tempo e luogo, come pretendeva Schafer (ma in fondo anche Freud), o i vissuti corporei infantili dovevano a loro volta essere visti come condizionati dalla cultura, come, tanto per fare un esempio e richiamarsi a un autore divenuto via via più rilevante, era stato mostrato da Elias (1969-80) rispetto al continuo modificarsi della soglia della vergogna e del disgusto nel corso del processo di civilizzazione? E poi, la felice idea di Lagache che lo scandalo della psicoanalisi consisteva nella sua rottura con il senso comune, poteva essere riformulata nei termini di una dialettica interna? Domande come queste richiedevano non solo di riposizionare la psicoanalisi sullo sfondo della tradizione da cui era emersa, ma anche di entrare in questo sfondo per identificare uno a uno i punti di continuità e di discontinuità.

I vari studi di quegli anni - fra i quali è doveroso ricordare quello di Sulloway (1979) per il suo straordinario impatto — spingevano sempre più a riconoscere il pensiero del fondatore della psicoanalisi come prigioniero di assunti e schemi di pensiero acriticamente incorporati nella sua dottrina attraverso gli studi di medicina. Come scriveva Holt in un saggio del 1984 "tutti noi siamo metafisici, implicitamente se non esplicitamente" (p. 348), in quanto i nostri pensieri e la nostra condotta sono sottilmente guidati da "metafore fondanti" ("root metaphors") e "ipotesi sul mondo" in merito a che cosa è la realtà, al posto che l'uomo occupa nell'universo, al modo in cui conosciamo. Era ormai diventato chiaro che il "mondo" che si rifletteva nell’opera di Freud era lontano e diverso dal nostro, per quanto si continuasse a riconoscere che egli avesse determinato più di ogni altro la mutazione di quel mondo vecchio in quella che Holt chiamava "la moralità moderna e la nostra visione del mondo". Ma non si sapeva più come tutto ciò fosse avvenuto. La timida ipotesi dello studioso più autorevole e rappresentativo della "crisi della metapsicologia" era che l’opera di Freud rappresentasse un passo verso una nuova sintesi, tutta da venire, tra umanesimo e meccanicismo. In quegli anni si sapeva ancora che Freud era stato un innovatore, ma non si riusciva più a toccare con mano il carattere innovativo del suo pensiero, e questo perché, divenendo parte dell’aria che si respira, aveva perso quella solidità necessaria al tatto. Non c’erano più confini netti né margini spigolosi: le concezioni freudiane si erano fuse con la nostra cultura fino a formare "l’unica mitologia occidentale che gli intellettuali contemporanei hanno in comune", come scriverà poco dopo Harold Bloom (1986).

Questo era lo stato delle cose quando iniziai il percorso di studi che si trova qui raccolto. L’aspetto più frustrante, o almeno quello che io percepivo come tale, era il non riuscire a catturare i momenti di continuà e discontinuità con la tradizione. L’enfasi posta sulla "psicologia per neurologi" mi sembrava disviante perché focalizzava eccessivamente l’interesse su una "mitologia del cervello" che per quanto occupasse le cattedre universitarie, era nei fatti slegata dalla pratica medica. La gente non si faceva curare da coloro che professavano il "nichilismo terapeutico", come attorno agli anni 1880 facevano gli studiosi del sistema nervoso centrale. Si era cercato troppo nei libri sul tavolino di Freud e troppo poco nell’aria che respirava e negli ambulatori che frequentava.

Un correttivo a questa impostazione di ricerca era rappresentata dalla (allora) recente critica della scoperta della sessualità infantile, la quale riassumeva bene le contraddizioni in cui ci trovavamo: da un lato era ancora forte e diffusa la convinzione che quella della sessualità infantile fosse la scoperta più significativa e dirompente di Freud, e dall’altro lato, sulla scia del mutamento di mentalità introdotto dal 1968, questa convinzione appariva sempre più ridicola. Quest’ultima prospettiva trovava sostegno in alcuni studi apparsi negli anni 1970, che mettevano in discussione l’idea che la visione angelicata dell’infanzia fosse davvero lo sfondo da cui la scoperta freudiana si era distaccata. Questi studi, che segnalavano come tutti i vari elementi che eravamo abituati a collegare al nome di Freud fossero ampiamente presenti già da prima, furono ripresi da Sulloway (1979), il quale ne evidenziò l’intimo ordine, mostrando come la scoperta della sessualità infantile fosse il prodotto della rivoluzione darwiniana e del suo impatto sulla psicologia. È difficile esagerare l’effetto che in quegli anni ebbe questa ricostruzione: se autori come Schafer, Holt e Mitchell incominciarono a parlare di metafora o narrativa della "bestia", lo si deve proprio al lavoro di Sulloway, il quale aveva fornito una ricostruzione che, oltre a mostrare in modo puntuale come, per dirla con Mitchell (1987), "la teoria freudiana della sessualità e la metapsicologia fondata sulle pulsioni" rappresentassero "un equivalente della struttura della teoria di Darwin sull’evoluzione della specie umana", a differenza degli autori che avevano toccato la questione in precedenza, aveva reso evidente come tutto ciò fosse in realtà basato su un "darwinismo di cartapesta".

Sulloway aveva di fatto mostrato come dietro la complessa articolazione del pensiero freudiano, più che Darwin fosse riconoscibile un divulgatore come Haeckel, e dunque un insieme di idee comuni caratteristica di un epoca ormai lontana. Utilizzando la narrativa della "bestia", Freud aveva riprodotto un mondo in cui la sessualità era "sentita" come una prova degradante dell’origine animalesca dell’uomo e come una minaccia continua al suo contegno civile. Ma nel 1980 questo "sentire" si era trasformato da legame segreto che univa Freud ai suoi lettori in luogo di un distacco in virtù del quale la trama freudiana non aveva più una presa diretta nei suoi lettori. E a questo punto la trama di questo mondo era libera di apparire come il semplice prodotto di una "metafora". Anche la scoperta freudiana della sessualità infantile aveva finito per sgonfiarsi come una "scoperta di cartapesta". Insomma, se le cose erano diventate delle metafore, era perché nessuno ci credeva più. Ma perché, alla stessa cosa, in un momento ci si crede e in un altro non ci si crede più? E perché il credere o non credere modifica così radicalmente la percezione che abbiamo delle cose? Se prendiamo queste domande sul serio, non possiamo accontentarci delle "narrative" e delle "metafore". C’è da considerare il quadro entro il quale le cose appaiono e la funzione che vi svolgono. Non posso che sottoscrivere quanto a suo tempo affermato da Friedman:

È triste che siano così tanti gli psicoanalisti che si accontentano di interpretare il sistema freudiano come un edificio costruito in base ai "modelli" scientifici dell’epoca. La presentazione di una teoria nei termini di un modello può appena scalfirne la superficie, a meno di non tener conto dei compiti comuni di cui sia la teoria che il modello accettano di prendersi responsabilità. Confrontare la teoria di Freud con le altre scienze del suo tempo ci può aiutare a capire di che cosa si occupa il suo sistema … (1988, p. 188)

Le mie prime escursioni nella letteratura medica del diciannovesimo secolo confermarono quello che già si sapeva, ossia che l’idea di sessualità infantile incomincia ad apparire in modo sistematico dalla fine degli anni 1850. Vi era però un dato che non mi aspettavo: le osservazioni riportate e le idee espresse non avevano nulla a che fare, per lo meno inizialmente, con la matrice darwinista. A volte precedevano, anche se di poco, il 1859, l’anno della pubblicazione de L’origine delle specie; altre volte le nuove idee erano promosse da autori che, come Morel, erano creazionisti. Eppure nel 1860, l’opera del teorico di quella caduta adamitica che è la degenerazione, diventa il veicolo della nuova idea che l’onanismo è la principale causa di follia nei bambini, un’idea che assurge in brevissimo tempo a paradigma al di fuori di ogni matrice darwinista. Sarà soltanto in un secondo momento che il "darwinismo di cartapesta" si impossesserà di questa area nello sforzo di addomesticarla.

Restava da capire all’interno di quale cornice la sessualità infantile avesse incominciato ad emergere, rendendosi visibile e diventando un problema, o per meglio dire, il problema per eccellenza, dato che a fine Ottocento si configura come la chiave per accedere alle più diverse dimensioni della vita psichica. Naturalmente, la cornice principale era quella del processo di civilizzazione e del progressivo controllo sulle pulsioni e sugli affetti che contraddistingue la modernità. All’interno di questa cornice mi è sembrato di poter identificare un processo dialettico che coinvolge le figure del bambino e del folle. Nel primo capitolo ne colgo alcuni dei movimenti oscillatori, degli aspetti contraddittori e degli effetti paradossali, cercando di mostrare come questo processo contribuisca a modificare sia l’immagine della follia che la percezione dell’infanzia. La psichiatria romantica, il trattamento morale, la psicoterapia e la psicologia infantile nascono tutti come momenti diversi di questo processo unico che appare come dotato di vita propria e che costituisce il terreno su cui prenderà forma anche la psicoanalisi.

Questa si radica dunque sullo stesso terreno delle altre discipline, dalle quali cui sembra differenziarsi soltanto per un diverso modo di rapportarsi al senso comune e di gestirne i paradossi. Qualunque sia la ragione di questo diverso modo di gestire i paradossi, l’opera di Freud appare, da questa prospettiva, ben radicata nello spazio mentale dell’epoca e in presa diretta con le sue contraddizioni. Se non configuro questo radicamento come una partecipazione al senso comune è perché ritengo che il senso comune rappresenti una forma organizzata di protezione nei confronti delle contraddizioni profonde dello spazio mentale in cui si vive, mentre ciò che sembra fin dall’inizio caratterizzare il pensiero di Freud è l’indifferenza a questo fattore protettivo.

L’esplorazione di queste contraddizioni mi ha condotto, ormai molti anni or sono, a prendere in considerazione una parte della vita professionale di Freud che era stata fino ad allora ignorata: il training pediatrico che egli fece a Berlino con Adolf Baginsky, subito dopo aver seguito a Parigi le lezioni di Charcot e prima di iniziare la libera professione. Quando incominciai a fare ricerche su questo argomento, le poche biografie di Freud che ne facevano menzione riportavano, a partire da quella di Jones, che Freud avrebbe fatto il suo training nel marzo del 1886 presso l’ospedale Kaiser und Kaiserin Friedrich-Krankenhaus, il quale però era sorto solo più tardi, nel 1890, per iniziativa di un comitato berlinese presieduto da Rudolf Virchow (cf. il Krankenhaus-Lexicon, 1900, p. 62 sg.). Questo era un chiaro segno di quanto il "training" neuro-pediatrico di Freud fosse stato trascurato dagli studiosi e un motivo per approfondire questa parte della sua vita di medico. Dalle mie ricerche successive è risultato che nel 1886 Adolf Baginsky aveva un policlinico privato situato in Johannisstr. 3 in un palazzo che non esiste più da molto tempo. Solo dopo le mie indagini sul luogo e la presentazione delle mie ricerche al convegno dei 100 anni della psicoanalisi, è apparso un articolo sul soggiorno di Freud a Berlino, a firma di J. G. Reicheneder (1994). Segnalo che anche nel recente libro di Christfried Tögel, Freud und Berlin (2006, p. 18), pur trattandosi di un libro molto ben curato, viene per inerzia ripetuto lo stesso errore di Jones. Il risultato delle mie ricerche venne presentato al congresso celebrativo dei Cento anni dalla nascita della psicoanalisi (1893-1993) ed è stato pubblicato in vari articoli apparsi negli anni seguenti (Bonomi 1994a, 1994b, 1997, 1998a, 1998b, 2002a, 2002b). Il secondo capitolo è una rielaborazione di questo materiale che ci trasporta all’interno di uno spazio mentale radicalmente diverso dal nostro, ma che è talmente implicato nella nascita della psicoanalisi da offrire nuovi squarci nelle sue origini.

Il nucleo della questione, che per apparire significativo necessita comunque di essere inserito in un ampio quadro di riferimento, è che nel corso di questo training pediatrico Freud si incontra con l’etiologia sessuale dell’isteria, la quale da un lato prefigurava la successiva "teoria della seduzione", perché secondo le idee neurofisiologiche dell’epoca erano soltanto le stimolazioni esterne che producevano un "contagio", e dall’altro comportava una "cura" finalizzata ad eliminare un "male" localizzato nei genitali con interventi chirurgici che comprendevano per le bambine l’amputazione del clitoride e per le giovani donne la castrazione, ossia l’estirpazione delle ovaia.

Nella presente rielaborazione cerco di ricostruire il senso di queste teorie e di questi trattamenti punitivi nell’ambito delle concezioni neurofisiologiche dell’epoca e in riferimento al fenomeno sociale durato circa due secoli (dal 1760 al 1968) che è stato chiamato la "grande paura della masturbazione" (Stengers e Van Neck 1984). Tra le tesi di ordine generale che sostengo vi è l’idea che la perdita della sede somatica dell’isteria sia stata determinata dalle grandi contraddizioni aperte dalla teoria dei riflessi spinali. Il passaggio "dalla fisiologia alla psicologia" che troviamo al centro de L’interpretazione dei sogni, immortalato nell’elevazione dell’arco riflesso a modello della prima teoria freudiana della mente, si comprende molto meglio tenendo conto delle tensioni che si vengono a creare tra modelli contrapposti, e in particolare del fatto che la teoria nervoso-centrale sembra insediarsi come reazione al carattere sempre più punitivo e cruento assunto dai trattamenti ginecologici sotto la spinta della precedente teoria dei riflessi. Da questo punto di vista il passaggio "dalla fisiologia alla psicologia" rappresenta un passaggio dai "genitali al cervello" nella spiegazione dell’isteria, un passaggio a cui Freud partecipa solo in un primo momento, sotto la spinta dei suoi "maestri" Charcot e di Breuer (come egli stesso avrà modo di sottolineare), ma a cui presto rinuncia per mantenersi vicino alla prospettiva dei riflessi spinali, l’unica che sembra garantire un legame con la sessualità. Qui si inserisce la vicenda della sua collaborazione con Wilhelm Fliess, che peraltro non tratto in questo volume, e della peculiare inibizione ad esercitare la professione medica in senso tradizionale. Questa inibizione, che non sembra del tutto estranea al grave incidente che avviene nel corso della operazione chirurgica di una sua paziente (Emma Eckstein), lo porterà a scoprire la dimensione puramente mentale della vita sessuale, a cui potrà accedere nel momento in cui decide di non intervenire più sul corpo delle sue pazienti.

In questo volume il lettore non trova il percorso che porta Freud dal corpo alla parola (un percorso che passa dal sogno di Irma e che mi propongo di tracciare in un ulteriore lavoro), bensì alcune delle sue premesse, relative soprattutto ai trattamenti ginecologici e chirurgici alla moda. Poiché questi trattamenti non erano praticati da squilibrati, ma bensì da medici ben inseriti nella società e indubbiamente desiderosi di curare le loro pazienti, colgo l’occasione per sollevare alcuni interrogativi sulla natura del sapere medico, del senso comune e della moralità. E poiché il successo e la diffusione di questi trattamenti giunge al suo apice negli anni in cui nasce la psicoanalisi, mi interrogo sul loro nesso con la rottura della psicoanalisi con il senso comune, giungendo a formulare la seguente riflessione:

La dimensione traumatica dell’incontro di Freud con la castrazione sembrerebbe così consistere nella lacerazione del senso comune e della sua funzione protettiva. È attorno a questo squarcio che, negli anni seguenti, prenderà forma la psicoanalisi, la quale sarà contemporaneamente un tentativo di solidificare la coscienza delle contraddizioni, e una protezione a posteriori, come un tentativo di fasciare con nomi, concetti, pensieri, una ferita scoperta.

Nella terza parte ricostruisco un altro scenario che non è stato inglobato nella storia della psicoanalisi: la storia della nascita e del tramonto del concetto di trauma psichico negli anni che vanno tra il 1880 e il 1920 circa. L’utilità specifica di questa ricostruzione è che ci permette di sovvertire il modo usuale di vedere le mosse compiute da Freud nella costruzione della sua teoria. Nel primo volume della Vita e opere di Freud, Ernest Jones ha sostenuto che il punto di partenza di Freud era stata l’"opinione convenzionale dell’innocenza infantile" (Jones 1953, p. 388), identificando il baricentro della sua scoperta nell’abbandono dell’etiologia traumatica a favore del riconoscimento di "desideri e impulsi di cui il paziente stesso era responsabile". Tuttavia, questo slittamento dall’evento esterno alla disposizione interna caratterizza il processo di psicologizzazione del trauma (Fischer-Homburger 1975) che si svolge sulla scena pubblica prima e indipendentemente da Freud. E se guardiamo la sua opera "in controluce" a partire da questo sfondo esterno, ecco che la domanda che dobbiamo porci non è perché Freud "abbandona la teoria del trauma reale", ma al contrario perché non ci riesce, che cos’è che lo frena, perché non percorre fino in fondo la strada che pure ha imboccato fin dal 1893. La risposta, solo abbozzata, è che quella "paralisi" che diventerà il varco d’accesso preferenziale allo spazio mentale delle sue pazienti e la cifra unica del suo stile investigativo, è anche e prima di tutto la matrice da cui nasce, come seguendo un indefinito moto oscillatorio, il continuo farsi e disfarsi del suo pensiero. Anche questo capitolo è per lo più una rielaborazione di materiale pubblicato in precedenza (Bonomi 2000, 2001, 2003, 2004). Per aiutare il lettore ad orientarsi è stata aggiunta in appendice una tavola cronologica per ciascuno dei tre capitoli storici.

Il quarto capitolo rappresenta infine un contributo alla decostruzione di quell’ideale della "castrazione simbolica" che tanta parta ha avuto nel creare un vincolo ipnotico tra i membri della comunità psicoanalitica e il fondatore di tale comunità. Partendo dall’esigenza di trovare un collegamento tra la violenza della castrazione reale e la sua posteriore elevazione a simbolo del processo strutturante per eccellenza ("la funzione della Legge in quanto istitutiva dell’ordine umano", per usare la definizione data da Laplanche e Pontalis 1967, p. 81), l’indagine si trasforma in una esplorazione della soglia che unisce e separa il caos dal cosmo, così come viene riflessa in una serie di miti greci, creazioni artistiche e fondazioni religiose in cui Freud trova ispirazione per la propria opera. Con quest’ultimo excursus, la "soglia" si lascia infine adombrare come il terreno stesso della psicoanalisi. Nell’appendice sono raccolti alcuni appunti che aiutano a collocare i temi del libro nel panorama della successiva storia della psicoanalisi. Se vi è una insistenza particolare sulla realtà e il suo diniego, non è certamente in nome di un realismo ingenuo, ma perché il campo del "reale" è qiello che è rimasto meno studiato dalla psicoanalisi.

Le ricerche qui raccolte e rielaborate si stendono per un arco di circa vent’anni, e sebbene in questo lavoro non entro nell’opera di Freud se non nella misura di volta in volta necessaria per farne risaltare i bordi, esse non sono disgiunto da un più ampio tentativo di rileggere la nascita della psicoanalisi su cui ho lavorato parallelamente e di cui questo lavoro rappresenta la premessa ma anche, per certi versi, la conclusione. Questo ne spiega il tempo di gestazione insolitamente lungo. In tutto questo tempo, le persone che sono state di impulso e di aiuto sono diventate talmente tante che ringraziarle tutte sarebbe persino imbarazzante. Ve ne sono però alcune il cui incoraggiamento a proseguire nella strada intrapresa nei momenti iniziali e più difficili del percorso è stato decisivo, come André Haynal, che ha fatto sì che le mie ricerche incontrassero un pubblico adeguato, Patrick Mahony e Robert Holt, che oltre a sostenermi con la loro fiducia, hanno in più modi nutrito la mia mente, Marco Conci, che si è generosamente prestato a leggerne le varie versioni, e Franco Borgogno che in questi ultimi anni è diventato un interlocutore insostituibile.

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