Perseguire l'idea di un carcere sano potrebbe apparire illusorio o folle a taluni, ambizioso o pericoloso ad altri. Che si sia mossi da un rassicurante pragmatismo, da una solidarietà necessaria ovvero da un anelito pregiudizialmente libertario, in ogni caso, pretendere di lavorare al miglioramento di una struttura irrimediabile per definizione, suscita sconcerto, timore e scherno. Come non cedere a tale diffusa intolleranza? In verità, chi conosce dall'interno l'istituzione penitenziaria, dovrebbe domandarsi come si sia potuto con facilità rinunciare a programmi di restauro del sistema che non fossero quelli di un'apertura spesso indiscriminata.
Tacciare di lombrosianesimo chiunque abbia, in questo secolo e in Italia, tentato di dare spessore alle opportunità riabilitative e terapeutiche dei reclusori, è d'altra parte uno sport nazionale piuttosto praticato ancora oggi, se non più tardi delle idi di marzo del 2000, uno dei più noti psichiatri forensi del Paese, ha potuto inveire con accuse di questo tenore contro uno psichiatra penitenziario che sosteneva la necessità di una cura per il numero crescente di persone affette da un più o meno profondo disagio psichico, che attraversano, urlanti o silenziose, le patrie galere, dal Nord al Sud della Penisola.
Tornare a gettare uno sguardo dentro il carcere senza cedere all'immediata repulsione che questo ispira, è la sfida che abbiamo di fronte. Renderlo quando non più sano, se non altro meno insano, è il dovere di ogni operatore penitenziario. Una delicata pellicola ci porta, in questa presunta alba di un nuovo millennio, all'interno del braccio della morte di un reclusorio statunitense, nel bel mezzo della Depressione americana: Il miglio verde mostra le stupefacenti virtù terapeutiche di un drappello di agenti carcerari consapevoli della propria funzione e, al contrario, il potenziale distruttivo rintracciabile nel perverso e gratuito esercizio di un potere ostile e malato, nell'arrogante, inutile e cieca inclinazione vendicativa delle masse e nel pregiudizio che annebbia perfino il cuore e la mente di chi dovrebbe sostenere e difendere il colpevole. Un altro film ancora, un film cinese questa volta, Diciassette anni, mette in scena la pietas di un'agente carceraria nei confronti della disorientata omicida riammessa alla libertà sotto la sua custodia. E infine, nella pellicola Le regole della casa del sidro, è sottolineato il rilievo di un investimento autentico sulle potenzialità dell'infanzia abbandonata, che altrimenti rischia di riempire carceri e ospedali psichiatrici. La fiducia in un destino non necessariamente segnato dal fallimento, in una riparazione possibile, è inscritta nelle parole con cui il medico-padre dà la buonanotte ai suoi protetti: "Buonanotte, principi del Maine, re della Nuova Inghilterra!" Un saluto che è un auspicio benevolo, che non ha niente di irrisorio, un saluto sul quale i bambini si interrogano, concludendo che piace loro. D'altra parte il potere dell'annunciazione è straordinario, specie nei primi anni, sia nel senso di un declino delle aspettative, sia in direzione opposta.
Lavorare in luoghi estremi, in situazioni terminali, non significa perdere la speranza in un riscatto. Nessun posto appare disperato quanto il braccio della morte, dove neppure la consolazione della malattia e delle cure soccorre l'uomo. Eppure anche lì può verificarsi il miracolo assurdo del ritorno alla vita, in un misto di fiaba e realtà che non crea confusione. Il vero prodigio non è quello legato ai poteri paranormali di un uomo, ma la capacità di alcune persone semplici di comprendere il valore del rispetto di cui circondano coloro che il mondo detesta tanto da mettere a morte. Un rispetto fatto di piccoli gesti: i toni bassi della voce, una familiarità non invadente e sincera, la tendenza ad esaudire le richieste ragionevoli, l'essenzialità composta del rito dell'esecuzione, finalizzato a ridurre al minimo il dolore e la vergogna, e infine la scelta di sottrarsi al non-senso della pena di morte e di lavorare piuttosto con i giovani delinquenti.
Rendere meno insano il carcere è stato fin dall'inizio lo scopo de Il reo e il folle e della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria. A tale obiettivo, ora che l'ingresso della sanità pubblica nel sistema delle pene può indurre a confidare in una spinta evolutiva del ‘trattamento', è dedicato il presente numero, dove sono raccolte prospettive disparate ed esperienze diverse che, sui fronti penale e psichiatrico, civile e formativo, sanitario e sociale, mirano alla trasparenza della coazione, a un suo incivilimento, più che a rimuoverla e basta.