Fabio Vanni, educatore coordinatore della Casa Circondariale di Viterbo, su Il reo e il folle n. 12/13, ha scritto un interessante saggio sull'attività dell'educatore penitenziario.
Prendo spunto proprio dal suo "L'educatore in carcere", per chiedere di poter presentare sul vostro periodico un'altra particolare categoria di operatori che lavorano quotidianamente negli Istituti di pena della Repubblica: gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria, oggi ingiustamente nell'occhio del ciclone per i riflessi negativi conseguenti ai presunti pestaggi di alcuni detenuti che si sarebbero verificati presso il carcere di Sassari lo scorso 3 aprile.
Non entro nel merito di quanto realmente sia accaduto nel penitenziario sardo. Gli accertamenti e l'acquisizione di prove competono esclusivamente alla Magistratura, ma non posso fare a meno di esprimere la mia più ferma disapprovazione per il modo in cui l'argomento è stato trattato dai mass-media.
Il blitz in stile "operazione Cosa Nostra" con il quale sono stati arrestati il Provveditore regionale sardo dell'amministrazione carceraria, il direttore del penitenziario sassarese e ben 79 appartenenti alla Polizia penitenziaria (tutti scarcerati dopo pochi giorni), mi ha sorpreso e amareggiato profondamente, in particolare per come sono stati rappresentati i presunti pestaggi di Sassari sugli organi di informazione e per l'immagine che essi hanno fornito dell'Istituzione carceraria italiana (quasi che, all'interno delle nostre prigioni, i pestaggi fossero la regola...).
Sbatti il mostro in prima pagina, insomma, prima ancora di trovare le prove.
Sono stati rimessi in libertà tutti: i settantanove colleghi, il provveditore regionale e la direttrice, coinvolti nei fatti di Sassari del 3 aprile. Nei confronti di 12 agenti la stessa Magistratura ha disposto la misura cautelare della sospensione dal servizio per un mese. Per tutti gli altri vi sono le condizioni, allo stato, per una immediata reintegrazione in servizio.
Finalmente cominciano a delinearsi meglio i contorni della vicenda giudiziaria che, già con questi primi provvedimenti dei magistrati, viene enormemente ridimensionata, essendo limitato il presunto coinvolgimento nei fatti a sole dodici persone, che comunque ritengo anch'esse oggetto di uno sproporzionato accanimento giudiziario.
Allo stato attuale l'auspicio di tutti è che venga fatta piena luce nel minor tempo possibile sulla vicenda rientrando nei canoni costituzionali della presunzione d'innocenza, purtroppo stravolta dalla spettacolarizzazione dell'inchiesta che ha gettato gravi ombre non solo sulle persone coinvolte, ma sull'intero Corpo di Polizia penitenziaria.
L'episodio ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che del carcere e di chi lavora al suo interno, giornalisti e opinione pubblica sanno ben poco.
Ci chiamano secondini, guardie carcerarie o, quando va bene, agenti di custodia -definizioni che non ci appartengono- non sapendo che siamo poliziotti penitenziari!!!
Pensano che si sia belve, killer, picchiatori.
Siamo invece uomini e donne di un Corpo di Polizia dello Stato, che nonostante gravi carenze di organico, deficienze di strutture e di mezzi, rappresentano lo Stato stesso nel difficile contesto delle galere. Siamo le persone che, statisticamente, in ogni istituto penitenziario d'Italia, ogni mese, sventano circa 10 tentativi di suicidi posti in essere da detenuti. Ma nessuno lo dice.
L'attuale momento, per l'Amministrazione penitenziaria nel suo contesto, è difficile e delicato, non solo per i riflessi conseguenti ai presunti fatti accaduti a Sassari. Difficile e delicato perché sono sotto gli occhi di tutti il vertiginoso aumento del numero dei detenuti, il sovraffollamento degli istituti, le tensioni, le difficoltà di lavoro all'interno delle carceri, in ragione di una smisurata promiscuità, le restrizioni, pur legittime, pur comprensibili e giuste, della Legge Gozzini in materia di riforma penitenziaria, l'aumento smisurato del numero dei detenuti tossicodipendenti, sieropositivi ed extracomunitari. Insomma, il cumulo, anche drammatico, dei problemi con i quali l'Amministrazione, ma in modo particolare il personale della Polizia penitenziaria, deve fare ogni giorno i conti.
Nonostante la cronica carenza di organico e le mille difficoltà operative-strutturali, tra i detenuti, con compiti di sorveglianza e trattamento, 24 ore su 24, 365 giorni l'anno, c'è il personale di Polizia penitenziaria.
Il carcere, oggi, si configura come una discarica sociale, un grande magazzino dove la società, senza eccessive remore, continua a riversare tossicodipendenti, malati di AIDS, extracomunitari, malati di mente, pedofili, mafiosi e camorristi, prostitute, travestiti e transessuali, tutto ciò che non si vuole vedere sotto casa e nelle strade.
In mezzo a loro, spesso isolato se non dimenticato, il più delle volte anche giovane, l'agente di Polizia penitenziaria, che deve rappresentare la dignità e la legalità dello Stato, la Legge. La rappresenta da solo, con la sua divisa, con la sua coscienza professionale, con il suo coraggio, con il suo rischio. Rappresenta, dunque, la Legge e la sicurezza della società.
Rispetto ovviamente tutte le figure professionali che operano all'interno del carcere, ma sottolineo l'importanza del Personale di Polizia penitenziaria, perché è questo Personale che garantisce tutta una serie di attività realizzate nei momenti in cui non vi sono altri operatori penitenziari. Penso alla sera, quando può verificarsi un tentativo di suicidio (come si è verificato e si verifica, purtroppo, abbastanza frequentemente) o quando il detenuto riceve un mortificante telegramma dalla famiglia che incrina la sua serenità. In tali momenti, insieme a quel detenuto, non vi sono gli educatori o gli assistenti sociali, ma gli agenti di Polizia penitenziaria, pur risultando sotto organico rispetto al sovraffollamento di detenuti nelle carceri liguri, ad esempio.
Se il carcere è, in qualche misura, la frontiera ultima, la più esposta del sistema-giustizia, all'interno del sistema carcerario il personale di Polizia penitenziaria costituisce la barriera estrema.
Siamo noi quelli che stanno in prima linea, che stanno nelle sezioni detentive, che stanno in contatto quotidiano con i detenuti 24 ore su 24, 365 giorni l'anno, quelli cui viene affidato, dal nostro sistema giudiziario, un compito indubbiamente più complesso rispetto alle altre Forze di polizia, senza naturalmente nulla togliere al lavoro importantissimo svolto dai Colleghi e dalle Colleghe appartenenti a queste altre Forze dell'Ordine.
E' necessario metterlo in evidenza, perché la rivendicazione del ruolo, del significato, del prestigio e dell'importanza del Corpo di Polizia penitenziaria, di una sua professionalità crescente, di una sua dignità sempre più alta, deve partire dalla considerazione della specificità dei nostri compiti istituzionali.
Allorché l'agente della Polizia di Stato, il Carabiniere o il Finanziere, che svolgono una funzione fondamentale per la difesa dello Stato e delle sue Istituzioni, nel corso della loro giornata lavorativa hanno un incontro con il nemico dello Stato, con il criminale, si tratta di un incontro che è, per un verso, eventuale e peraltro, quando si verifica, limitato nel tempo. Si riduce al momento dell'arresto, della perquisizione, dell'interrogatorio. Viceversa, il compito dell'agente di Polizia penitenziaria, nel confronto anche e soprattutto fisico con chi rappresenta, in un modo o nell'altro, il nemico dello Stato, colui che ne ha violato le leggi, si svolge giorno dopo giorno, anche a Natale, Capodanno, Pasqua e Ferragosto, di notte, minuto per minuto. Questa è già, di per sé, la ragione di una difficoltà, di una complessità, di una tensione, la ragione vuoi pure di un rischio che non ha confronto.
Mentre all'agente della Polizia di Stato, al Carabiniere o al Finanziere, lo Stato chiede -e si tratta di un incarico estremamente difficile, che ha a che fare principalmente con la sicurezza e la legalità- di catturare chi ha violato la legge e di rinchiuderlo in prigione, all'agente di Polizia penitenziaria -ecco la difficoltà e la specificità- affida compiti che talvolta sembrano tra loro in contraddizione. Egli deve, in quella frontiera esposta che è il carcere e, come dicevo, spesso isolato se non dimenticato, rappresentare la dignità e la legalità dello Stato. E' lì, ripeto, solo e spesso di giovane età, a simboleggiare la Legge di fronte al nemico dello Stato. Lo fa, ribadisco, da solo, con la sua divisa, con la sua coscienza professionale, con il suo coraggio, con il suo rischio. Il nostro Agente impersona, dunque, la Legge e la sicurezza della società, ma nello stesso tempo gli si chiede un'altra cosa: di far sì che il nemico diventi un amico. E' un po' la quadratura del cerchio. Non basta che egli rappresenti la sicurezza della società, deve esprimere anche la speranza, l'offerta di una possibilità di recedere dalla proprie scelte. Con una mano lo Stato rinchiude il detenuto e lo allontana dalla collettività, con l'altra lo invita a rientrarvi attraverso il recupero, la rieducazione, il reinserimento nella vita civile.
Questo Agente dunque, molte volte solo, incompreso, dimenticato, rappresenta la legge dello Stato e la speranza della società, la punizione del delitto commesso, ma anche qualcosa di molto alto, che è l'essenza della civiltà e lo spirito della nostra Costituzione: vale a dire la fiducia nel fatto che colui che ha violato la legge non la violi più. Sarebbe una meschina vittoria se lo Stato non dovesse fare altro che punire quanti continuamente violano la Legge senza riuscire a riaffermare, presso costoro, i valori civili e la speranza umana.
Si tratta di un compito che presenta difficoltà senza pari, un compito arduo e insieme straordinariamente nobile. Un compito che ci pone di fronte all'imperativo di fondo: l'essenza della Riforma del 1990, cioè la qualificazione professionale, l'innalzamento del livello di professionalità degli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria che non hanno altre armi da contrapporre al nemico, al detenuto, se non la ricchezza delle proprie acquisizioni culturali e la complessità della formazione professionale.
Si chiede alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria, a questi rappresentanti dello Stato, di fronteggiare il mafioso, il sequestratore di persone, il narcotrafficante, nei cui confronti dobbiamo rappresentare l'inflessibilità, la durezza, l'implacabilità della giustizia che si riafferma sul delitto. Allo stesso tempo ci viene domandato di avere a che fare con il tossicodipendente, di capire i drammi umani complessi, problematici, di intere generazioni di giovani che l'emarginazione e la disperazione hanno spinto sulla strada della droga. E i sieropositivi, i malati di mente... Quanti problemi umani, anche drammatici, dobbiamo ogni giorno affrontare!!!
E' un momento difficile per l'Amministrazione penitenziaria, ma anche esaltante, perché celebriamo l'emanazione del nuovo Regolamento di servizio del Corpo di Polizia Penitenziaria -che ha sostituito quello vetusto e ormai improponibile del 1937-, perché vediamo finalmente l'istituzione dei ruoli direttivo e dirigenziale della Polizia Penitenziaria quale necessario completamento di un percorso professionale che la Legge di Riforma ha lasciato monco.
Si celebra, insomma, l'avvio di un cammino sul quale la dignità, il livello professionale, il prestigio del Corpo devono essere riconosciuti sempre più ampiamente e interamente, nonostante Sassari.
Abbiamo avviato un cammino, ma altri passi vanno fatti su questa strada per arrivare ad avere ciò che tutti aspettiamo: un Corpo di Polizia Penitenziaria del quale si riconosca pienamente, senza nessuna riserva sul piano giuridico, economico, sul piano della formazione, dell'addestramento e dell'aggiornamento professionale, senza nessuna riserva sul piano dell'apprezzamento da parte della società civile, in maniera ampia, completa e incondizionata, si riconosca dunque non soltanto l'appartenenza totale alla famiglia dei Corpi di Polizia del Paese, ma soprattutto il ruolo irrinunciabile e più esteso nella lotta contro la criminalità e per la difesa della legalità del Paese.
Ne sono stati fatti di passi in avanti, nel senso che con la Riforma del 1990 il Corpo di Polizia Penitenziaria ha cominciato ad uscire dal perimetro del carcere, ha cominciato ad uscire dal muro di cinta entro cui secoli di emarginazione ci avevano segregati e abbandonati, per assolvere con notevole professionalità e alto senso del dovere ai compiti di traduzione e piantonamento dei detenuti.
Il nostro è stato un cammino spesso tragico, sempre impostato in difesa delle Istituzioni democratiche repubblicane ed al rispetto delle Leggi dello Stato, come dimostrano anni e anni di duro e spesso misconosciuto servizio e i tanti e tanti sacrifici di sangue. Quanti ne sono morti di appartenenti alla Polizia penitenziaria, quanti ne sono morti di quelli che allora venivano chiamati Agenti di Custodia e Vigilatrici! Così come innumerevoli sono stati i morti tra i Carabinieri, gli agenti della Polizia di Stato, i magistrati, i politici, i giornalisti, tutti accomunati nella stessa battaglia e nello stesso sacrificio in difesa della democrazia e delle Istituzioni.
Il Corpo di Polizia Penitenziaria ha dimostrato, con questo, non soltanto di costituire un grande baluardo in difesa della società contro la criminalità, ma anche di avere in sé tutti i numeri, le capacità, le risorse, gli strumenti per impegnarsi ancora di più nella lotta contro la criminalità, per impegnarsi non soltanto dentro il carcere, ma anche fuori del carcere.
Rivendichiamo con forza, perché siamo convinti di essere sulla strada giusta, una presenza attiva e significativa della Polizia Penitenziaria nei nuclei di Polizia Giudiziaria istituiti presso le Procure della Repubblica e presso gli organismi di lotta contro la criminalità che sono stati giustamente elaborati in questi anni, come la Divisione Investigativa Antimafia; in definitiva, in tutti i momenti più importanti nei quali lo Stato è impegnato totalmente contro la criminalità. Diciamo, con forza e convinzione, che laddove, all'interno o fuori del carcere, lo Stato, di cui noi siamo servitori, è impegnato nella lotta contro la criminalità, organizzata e non, lì noi vogliamo essere presenti per fare la nostra parte, per fare per intero il nostro dovere.
Vogliamo essere presenti al fianco della Polizia di Stato, al fianco dei Carabinieri, al fianco della Guardia di Finanza, nell'ottica di un effettivo coordinamento tra le Forze di Polizia, al fianco dei Magistrati e di quanti altri lottano per questi ideali di civiltà e di giustizia, contro chi li offende e li aggredisce mettendo così in discussione e in pericolo le basi stesse della nostra civile convivenza.
L'idea, l'immagine lontana nei tempi, offensiva e inaccettabile, di un ragazzo che senza qualificazione professionale e con una chiave in mano passeggiava solo e triste in una sezione per aprire e chiudere una porta, è un'immagine che non ci appartiene più; semmai ci è appartenuta: è l'immagine di un passato che abbiamo superato.
Certo, ha avuto luogo senza dubbio una crescita della coscienza, non solo culturale, nel Corpo di Polizia penitenziaria, dovuta all'inevitabile ricambio generazionale e all'assunzione di nuovo e più qualificato personale. A questa elevazione culturale non ha però corrisposto un adeguato orientamento dell'attività formativa.
Il S.A.P.Pe.-Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, l'Organizzazione maggiormente rappresentativa della categoria, si batte per un aumento degli organici, per una sottolineatura forte delle occasioni di formazione professionale nei molteplici campi che vedono gli agenti di Polizia Penitenziaria impegnati. Non ci sfugge che l'organico influisce sulla formazione professionale perché quanto minore è questo, tanto più difficile diviene perseguire momenti di formazione professionale senza incidere pesantemente sui servizi irrinunciabili degli istituti.
Momenti di formazione professionale che vanno dall'insegnamento dell'attività di Polizia Giudiziaria, che deve essere impartito agli Allievi Agenti giunti nelle Scuole e costituire la docenza cardine del Corso di formazione, all'attivazione concreta dei corsi di specializzazione del Corpo, per preparare conduttori di unità cinofile, elicotteristi, sommozzatori, corsi previsti dal vecchio Contratto di Lavoro, recepito con il D.P.R. 395 del 1995, ma non ancora realizzati.
Vogliamo essere impegnati, almeno per i dodici giorni l'anno stabiliti dalla richiamata normativa, in corsi di addestramento e aggiornamento professionale, a vantaggio esclusivo della sicurezza delle strutture penitenziarie.
Su questo piano è possibile un utile lavoro di riflessione, così come trovare insieme le soluzioni più adatte all'interesse del Corpo, all'interesse dell'Amministrazione, nell'ottica di uno sviluppo della Riforma che rappresenti realmente un progresso per l'Amministrazione.
Noi, donne e uomini che indossiamo la divisa della Polizia penitenziaria con professionalità, spirito di sacrificio e un senso del dovere -consentitemelo- davvero non comune, rappresentiamo, nonostante tali carenze, fieri di farlo, lo Stato e le sue leggi nel complesso universo delle carceri.
Come Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria-S.A.P.Pe., interverremo in tutte le sedi per il rispetto dei diritti inviolabili degli appartenenti al Corpo e per l'accrescimento professionale dei nostri compiti istituzionali, che non sono più solamente quelli -se mai lo sono stati, peraltro- di aprire e chiudere i cancelli o le celle, anche se qualcuno, per ignoranza o in malafede, non vuole capirlo...
Riteniamo che sia un obbligo intervenire, nel rispetto del mandato dei nostri iscritti e dello Statuto del Sindacato, a garanzia e tutela dei diritti e dell'incolumità delle persone e dei lavoratori.
Questo perché il S.A.P.Pe. è realmente convinto che il ruolo sociale che un sindacato tradizionalmente occupa, possa oggi essere svolto in maniera adeguata solo attraverso la riaffermazione di interessi particolari intorno a un progetto globale e funzionale, che coniughi una serie multiforme di attese e debite pretese, salvaguardando la dignità intrinseca nei ruoli e la necessità di una interdipendenza funzionale. Che sappia convogliare la sua settorialità all'interno del più vasto e complesso mondo della giustizia italiana. Che si faccia carico, insomma, della globalità degli aspetti e dei contesti in cui si è immersi per ricostituire, in qualche modo, una civiltà del vivere, partendo proprio da un ambiente -il carcere- che tale condizione ha drammaticamente smarrito.