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Broken Flowers: le nostre relazioni sentimentali sopravvivono a noi (ma ci fanno anche sopravvivere).

di Nicola Artico

In un recente libro intervista ad un regista dell’epoca d’oro del cinema americano, Billy Wilder racconta un episodio che riguarda uno dei suoi attori preferiti, Jack Lemmon. Alle prese con George Cukor sul set di "It should happen to you" (La ragazza del secolo — 1954) Jack va su di giri sparando a raffica una mezza pagina di dialogo. In quell’occasione Cukor gli si avvicina dicendo: "E’ stato magnifico! Lei diventerà una star, una grande star! Però…durante quella lunga tirata, per favore, faccia un po’ meno, mi raccomando!

Dopo circa dieci ciak, all’ennesima esortazione di Cukor a fare sempre meno, Jack sbotta: "Mr. Cukor, Dio Santo, ancora un po’ e non reciterò affatto!" E Cukor: "Ecco, appunto".

Osservando Bill Murray in questa pellicola di Jim Jarmush, non ho potuto fare a meno di pensare a questa vignetta del grande cinema degli anni cinquanta. La prima cosa che ti colpisce in questo film è la grande capacità del protagonista di lavorare di "sottrazione".

La faccia "enciclopedica" di Murray, (Claudio Moretti su www.film.it) ci dà un saggio di se fin dall’inizio quando, lasciato dall’ennesima fidanzata che gli ricorda quanto lui non sia adatto a rapporti di coppia, non prova nemmeno a fare una resistenza d’ufficio. E’ semplicemente rassegnato a sé stesso, imbelle, ma a suo modo, icona di una sorta di serenità raggiunta suo malgrado. Quel tipo di stato d’animo di chi, pur non apprezzando quel momento, non ha nessuna idea di come fare ad evitarlo.

Se il mondo si conosce per differenze e confronti il regista ci presenta subito un punto di vista. Da un lato la vita del bianco, quarantenne, esperto di informatica, single incallito e rassegnato. Nella casa accanto quello che appare come il suo migliore amico, nero, con quattro bambini ed una moglie rigorosamente dello stesso colore, lavoratore con la tuta: Winston (Jeffrey Wright), con la passione per le detective story.

Non sembra un caso che il protagonista si trovi a leggere la lettera tutta rosa e rigorosamente anonima in casa dell’amico. Nel cuore della famiglia americana che fa da contraltare al suo mononucleo. La missiva annuncia che c’è in giro per gli states un giovane diciannovenne, suo figlio, che forse lo sta cercando. Questo confronto sarà una delle semplici ma efficaci chiavi di lettura del film. Così come i diversi atteggiamenti dei due amici all’arrivo della notizia; riottoso, immobile e preoccupato il protagonista, entusiasta, attivo e dinamico l’amico. Insomma per il primo è un limite (un’ansia) e per il secondo un’opportunità (una gioia) e già qui si introduce un bel classico tema psicologico, centrale nella nostra vita di persone e non certo raro dentro i nostri spazi di psicoterapeuti.

Questo "incidente" nella vita di Don-Giovanni (B.Murray) lo costringe ad operare una scelta, ancorché fortemente sponsorizzata ed addirittura organizzata dall’amico Winston. Del resto si sa, gli amici servono anche e talvolta soprattutto a questo, farci fare quello che desideriamo ma non possiamo ammettere con noi stessi.

E’ così che il nostro eroe, dopo aver fatto una lista delle ex fidanzate che potrebbero essere corresponsabili del concepimento, inizia un viaggio nel suo paese ma ancor di più, nel suo passato sentimentale. Porta con se una sola regola principale, presentarsi con un mazzo di rose in mano.

Il lungometraggio da qui in poi prende una struttura ad episodi abbastanza tipica delle scelte di questo regista, ma non perde mai il suo filo che anzi, viene messo in mano allo spettatore con ironia e leggerezza.

Naturalmente quelle donne, da cui si intuisce i contatti siano interrotti da molti anni, hanno storie e vite avviate, singolari, proprie. Tuttavia colpisce un dato. Nessuna di questa storia nemmeno l’ultima, quella più conflittuale, sembrano essere totalmente chiuse. La faccia di Don insieme ai fiori che si presentano alla porta di queste ex, in qualche modo, riattivano sempre qualcosa. Sesso e/o sentimenti vari di cui il primo a meravigliarsi sembra proprio il protagonista. Forse con l’eccezione della "psicoterapeuta" degli animali che, nel frattempo, sembra aver cambiato radicalmente interesse di genere.

In ogni caso per cercare di incontrare la storia di un (presunto) figlio imprevisto, il nostro pigro eroe e’ disposto rimettersi in viaggio. Ma quello che si rimette in moto non e’ solo il motore delle auto (noleggiate per l’occasione) ma bensi’ il "motore" della sua esistenza. In questo senso, che ci sia di mezzo un figlio o meno non diventa più il focus del film. Quello che si è invitati a pensare e’ che noi siamo le nostre storie, di sesso come affettive. E che queste in qualche modo godono di una loro vita propria. Ma anche che il significato della nostra vita passa, non di rado, dalla saggia ed accorta riesplorazione di queste storie perché questo ci costringe a farci domande. A stupirci. Ma forse è proprio nel finale che attore e regista ci offrono lo spunto di riflessione più facilmente decifrabile. Per dare senso alle nostre vite dobbiamo avere sempre qualcosa di importante da cercare; non necessariamente da trovare.

COLLABORAZIONI

Il tema del rapporto tra Cinema e psiche è molto intrigante sia sul versante specifico della rappresentazione sia sul versante della interpretazione dell'arte cinematografica. Come redazione anche alla luce della sempre maggiore concentrazione dei media saremmo lieti che questa sezione si sviluppasse in maniera significativa e in questa logica contiamo sulla collaborazione dei lettori da cui ci aspettiamo suggerimenti ma soprattutto collaborazione.

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