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Bruno Callieri, Quando vince l'ombra. Problemi di psicopatologia clinica - EUR, Roma 2001
di Federico Leoni

È uscita la seconda edizione di uno dei grandi libri della psichiatria italiana: Quando vince l'ombra, di Bruno Callieri. Quasi vent'anni la separano dalla prima edizione (apparsa nel 1982), talvolta alcuni decenni sono trascorsi dalla prima stesura o dalla prima formulazione di un caso clinico, di un'idea, di una prospettiva presentata in queste pagine, ora accompagnate da un illuminante saggio introduttivo di Mauro Maldonato. Pagine che raccolgono, dunque, e rifondono in un panorama unitario ma anche composito, policromo, saggi e studi stesi nel corso del tempo intorno ad una grande varietà di temi. Lo spazio e il tempo vissuti, le loro metamorfosi nel delirio, l'esperienza della schizofrenia e della melanconia — dunque, i grandi orizzonti e le grandi articolazioni tematiche della psicopatologia — si alternano e fanno da contrappunto ad affondi e schizzi che ritraggono quadri clinici più peculiari, vicini a quella concretezza irripetibile di una vita o di una sofferenza cui, come pochi altri clinici, Callieri ha insegnato a guardare. Rivivono così, in chi legge, gli incontri con i pazienti, il racconto delle storie di vita di ciascuno di loro, le domande, le ipotesi, gli slanci di uno studioso dell'uomo che, fedele alla vocazione di Ippocrate e Galeno, è insieme medico, filosofo, antropologo.

Bruno Callieri è uno degli esponenti più autorevoli ed originali della psichiatria che in genere si dice fenomenologica: di quel modo di fare psichiatria e psicopatologia, cioè, che ha attinto parte cospicua del proprio bagaglio culturale, metodologico, linguistico alla grande stagione della ricerca husserliana, jaspersiana, heideggeriana, senza trascurare i contributi delle filosofie successive, da Sartre a Ricoeur, da Merleau-Ponty a Gadamer, né l'insegnamento, spesso incontrato sul campo, in presa diretta, dei protagonisti della prima grande fioritura della psichiatria fenomenologica tedesca e francese: Binswanger, Von Gebsattel, Straus, Schneider, Tellenbach, ma anche Minkowski, Tatossian, Ey. È anche a questa personale esperienza di formazione e frequentazione europea che si deve la sprovincializzazione della psichiatria italiana, la rinascita (oggi forse meno vivace e rigogliosa di venti o trenta anni fa) di una disciplina rimasta sino agli anni Cinquanta isolata dalla vita culturale circostante. Ridotta ad una semplice e marginale appendice della neurologia, essa è stata a lungo governata, come quest'ultima, sin nel profondo delle proprie fibre, dalle strategie e dagli angusti percorsi di un positivismo sordo ai contributi non solo della filosofia, ma anche di quelle scienze dell'uomo (dalla sociologia all'antropologia ai saperi della storia, della politica, della religione e del mito) che oggi sono invece, o dovrebbero essere, comunemente riconosciute come parte essenziale dell'orizzonte teorico e pratico della psichiatria.

Sarebbe facile, allora, documentare la fecondità di tali approcci multidisciplinari, come oggi si ama dire, a partire dalla vicenda intellettuale di Bruno Callieri: dai ripetuti contatti e collaborazioni con Ernesto de Martino, negli anni Sessanta, ai numerosi contributi successivi, che spaziano dalle radici culturali-religiose dell'anoressia all'indagine narratologica dei vissuti, al recentissimo volume che quest'anno Callieri ha dato alle stampe con l'antropologa Laura Faranda, Lo sguardo di Medusa. Maschere tra psicopatologia e antropologia. Sono altrettante occasioni di un dialogo in cui lo psicopatologo, in uno scambio incessante, in uno sforzo di sintesi che non conosce pregiudizi né smagliature di sorta, assorbe gli strumenti e i risultati delle altrui discipline, facendo del proprio sapere qualcosa di mirabilmente indisciplinato e rigoroso, tanto mobile e curioso del mondo quanto fedele a se stesso e alla propria inconfondibile tonalità. Ma più interessante è chiedersi, di fronte allo sterminato patrimonio empirico che questi saggi offrono al lettore, che cosa la filosofia abbia da imparare: che cosa la fenomenologia stessa, ad esempio, che tanto ha insegnato alle scienze umane e alla psichiatria in particolare, possa ora apprendere. Si scopre allora che ciò che la fenomenologia ha messo in questione nella psichiatria fa ritorno alla fenomenologia, e che la psichiatria, tornando alla fenomenologia e restituendo il dono ricevuto, la mette in questione a sua volta.

Mi limito a citare due dei numerosi saggi raccolti in Quando vince l'ombra, due saggi che rappresentano altrettanti momenti decisivi nell'itinerario di ricerca di Callieri. Si intitolano La personalizzazione dell'occhio e L'animale nel vissuto corporeo, ed è immediata la risonanza che entrambe queste analisi cliniche possono avere rispetto alla grande tematica husserliana della Leiblichkeit, della corporeità: si pensi alle celeberrime analisi di Ideen II, ad esempio, dedicate alla costituzione del corpo proprio, della sensazione tattile, del limite del proprio corpo esperito nel suo stagliarsi di contro ad altri corpi oggetto, ad altri corpi propri o ad altre parti del medesimo corpo, del medesimo sé incarnato: la mano contro la mano, una mia mano che tocca un'altra mia mano che è toccata, l'incrocio e la reciprocità del sentire e del percepire… In uno dei casi trattati da Callieri l'occhio viene vissuto da un paziente come un organismo a sé stante, qualcosa di estraneo rispetto all'insieme dell'organismo in cui è inserito, un'entità dotata di propria vita, di propria intenzionalità, di propria autonomia. Nell'altro dei casi ricordati questa alterità del corpo proprio, questa intenzionalità nell'intenzionalità, questo sdoppiarsi e rendersi estraneo di sé a sé si spinge al parossismo, assumendo le tonalità dell'ostilità aperta, situandosi entro il registro dell'assedio e della minaccia. Un corpo dentro al corpo, un animale selvatico abiterebbe le membra del paziente descritto: un gatto che si muove attraversando il ventre, stanziandosi nelle gambe, muovendosi e minacciando dall'interno ciò che dal punto di vista medico è un corpo privo di qualsiasi disturbo "organico".

Che cosa mostrano, ora, queste esperienze limite, che hanno la forza allucinata dell'apologo, la pregnanza visionaria della novella, l'incurante l'audacia dell'experimentum mentis? Ciò che esse mostrano è, precisamente, una sorta di radicalizzazione della questione della proprietà del corpo, un suo rovesciamento, una sua messa in discussione per più versi oggi irrinunciabile in fenomenologia. Ciò che esse mostrano è, in altri termini, l'esperienza di un corpo improprio più antico del corpo proprio, è lo strato archeologico di un corpo che si ribella al mio tentativo di riconoscervi e di ritrovarvi "me" stesso, lo strumento della "mia" volontà o il sostrato della "mia" sensibilità. Questa alterità non si gioca tuttavia sul piano dello psichico, del mentale. Ciò che è altro dal mio corpo non è, qui, come la tradizione ha insegnato a pensare, qualcosa come la "mia" anima, la "mia" psiche, la "mia" mente, la "mia" coscienza. Le coppie concettuali entro il cui gioco di opposizioni un'intera metafisica e un'intera antropologia hanno irreggimentato l'esperienza non tengono più. Ma anche quelle che erano sorte dalle ceneri di quell'edificio venerabile come altrettante vie di fuga sembrano, ora, disarmate e impotenti. Ciò che la fenomenologia aveva chiamato corpo proprio per differenza dal corpo oggetto del cartesianismo è messo in questione dal suo interno; ciò che la fenomenologia ha pensato come intenzionalità, a sua volta, appare rovesciato e incomprensibile. I mille volti della schizofrenia sembrano alludere a questa esperienza, a questa domanda silenziosa e ineludibilmente metafisica che ancora in massima parte attende una filosofia o una fenomenologia che vogliano fare i conti con lei, che vogliano farsi carico di ciò che la clinica instancabilmente raccoglie e offre ai loro sguardi impreparati.

È stato detto che la psicopatologia appartiene alla gamma delle possibilità dell'umano, alla cui realizzazione procede in modo unilaterale, esclusivo, replicando sempre e comunque quell'unica possibilità, quell'unico modo d'essere, quell'unico modo di incontrare il mondo su cui la follia ha posto l'accento. È questa la posizione di Jaspers, di Binswanger. La psicopatologia sarebbe allora una patologia della libertà, della varietà molteplice e irriducibile che ogni esistenza dovrebbe poter dispiegare. È stato detto, al contrario, che la psicopatologia appartiene alla gamma delle possibilità dell'umano in quanto realizza integralmente e simultaneamente tutte quelle possibilità. Chi ne sia colpito viene distrutto non per difetto ma per eccesso, schiacciato dall'insostenibile coesistenza di tutto ciò che l'umano può essere: memorie che divengono incapaci di dimenticare, percezioni che non sanno più abbandonarsi a quella parziale e funzionale cecità, sordità, insensibilità che l'esistenza quotidiana richiede per la propria ovvia, inapparente, indolore funzionalità. È questa la posizione di Bergson. Ma ciò che nella psicopatologia seduce ogni volta da capo la filosofia — sia che essa riconosca nella follia una malattia della libertà, sia che in essa veda, per dire così, una malattia della necessità: sia che essa sposi la posizione jaspersiana sia che essa opti per quella bergsoniana — è sempre la radicalità impietosa, dolorosamente imprevedibile di uno sguardo impregiudicato. È la radicalità di uno sguardo che dai margini, dalla periferia — dall'ombra cui Bruno Callieri ha intitolato il suo libro — mette in questione il centro, la tranquilla ovvietà delle categorie antropologiche, la rassicurante, luminosa, ignara pedagogia umanistica, che è talvolta la più subdola nemica della humanitas.

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