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BRUNO CALLIERI

Presentazione

 

Un’introduzione di venti pagine fitte, dense, in rapida successione di idee ininterrottamente incatenate fra loro, succedentisi in una logica narrativa ed emotiva, dove i fatti si incontrano e si scontrano.

Nell’hinterland a nord di Napoli, impossibile eppur concreto, questo Centro "Giano": nato per far fronte, unico o primo in Italia, all’emergenza ubiquitaria e sempre più terribile della doppia diagnosi. Al medico psichiatra Gilberto Di Petta tutto il merito di aver condotto un manipolo di operatori, meno di una ventina, e un corposo battaglione di utenti, a vivere da tre anni, quasi all’unisono, un’esperienza che, "se non ha modificato la storia degli approcci alle dipendenze patologiche e alla loro problematica, ha cambiato significativamente il corso della loro vita".

Il volume, a molte voci, si articola con timbro squisitamente fenomenologico (proprio secondo i nostri saperi e i nostri intenti co-esistenziali) sulla convergenza patodiagnostica e terapeutica, frutto dell’attuale cultura liquida di un "noi senza patria" (così introduce Di Petta); e cattura il lettore, ogni lettore forse, senza concedergli requie.

Questo mirabile contributo corale, così ben diretto e amalgamato, mi ripropone subito il ricco e perentorio capitolo costituito dalla nuova psicopatologia del giovane d’oggi, patologia che si addensa e si propone nelle strutture della tossicodipendenza, della depressione, della violenza, della promiscuità sessuale, della anomia schizoide e/o borderline.

Si tratta, e ben lo sa il coraggioso gruppetto di questi operatori (virtuosi e/o temerari?) di psicopatologie che rientrano nel novero di quelli emergenti e che vengono incrementate dalle mutate condizioni socioculturali. E’ qui che la tossicodipendenza giovanile emerge realmente come fenomeno nuovo, cui si potrebbe ben applicare la qualifica di "post-moderno". Ed é qui che si configura il preoccupante scoppio di conflittualità fra gli adolescenti e gli adulti, e che si configura un’autentica rottura fra le generazioni, che induce molti giovani e giovanissimi all’abbandono precoce della famiglia, a darsi "anima e corpo" alle subculture adolescenziali, delle droghe clandestine e dei farmaci selvaggi (penso a Lolita, efficientemente tratteggiata a pag. 404-10.11, e al Marziano 10.16 a pag. 416, davvero inquietante).

Di Petta e i suoi "ragazzi" ben sanno che i ritmi di maturazione affettiva e sociale hanno avuto un rallentamento nell’attuale "disagio giovanile", ricordandomi quella "crisi normativa dello sviluppo" cui Erik Erikson alludeva, già nel lontano 1968, parlando di "confusione d’identità". E oggi ciò che è ancor più condizionato dalle variabili culturali, per es. immigrazione, per cui è diffusa la difficoltà di distinguere fra adolescenza protratta, breakdown evolutivo, distonia socio-culturale (come diceva Foulques dieci anni fa).

Certamente, il perdurare del processo adolescenziale rimanda a costellazioni dinamiche eterogenee, comunque sotto il segno della patologia narcisistica e del massiccio stravolgimento delle dinamiche familiari, in primis la "carenza paterna".

Con questi presupposti di base si dispiegano, in un lento continuo crescendo, coinvolgente e drammatico, le quattrocento ? pagine co-esistenziali di cui si tesse la trama di questa epopea, che si dispiega sul magico sottofondo di urli silenziosi che Gilberto propone: qui la presenza perplessa, là i sintomi-base, ora la "doppia diagnosi", prima lo sballo, poi il desiderio, qua la coscienza crepuscolare, lì la corporeità dell’esserci, dove "corpo, esistenze e mondi" si toccano, si scontrano, si allontanano, in una vicenda di "curare" e "prendersi-cura", di responsabilità esistenziale e disavventure duali.

E mi sovviene il mondo sospeso di Gilberto, il suo faccia-a-faccia col delirio, il mondo vissuto e quello delle "eroiniche vite", l’urto tra esistenza e senso, e ancora il suo "mondo tossicomane", in un’inesorabile arrampicata verso questa terra di nessuno, costellata di giovani presenze (a pag. 4.. ne conto ben 18), e puntellata da note (per es. "fenomenologia è psicoterapia", a pag. 49).

L’esserci nell’immondizia, l’ingaggio a Giano, lo spazio e il tempo del quotidiano, il cerchio del mattino (pag. ), Enzo in cucina (delineato a tutto tondo da Luigi De Gregorio (77-79); e poi Andrea Valdevit e Giorgio Trojano, nel cineforum e a domicilio; indimenticabili le pag. 93-95 di Andrea nella visita domiciliare a G… e ancora e ancora, nell’esserci-a-doppio-fondo, nei confini ambigui e sfuggenti della doppia diagnosi. Ma non c’è tempo per dilungarsi. Incalza la ricerca della correlazione fra sostanze e psicosi, del gioco, impossibile e pur presente, fra umore, sostanze e delirio nella doppia diagnosi (pag. 112), con l’acutissima notazione (schneideriana!) del sentimento della mancanza di nostalgia della sostanza, e con l’acuta proposizione non di "doppia diagnosi", ma di "nuova diagnosi" (pag.128), in attesa di un nuovo, fortunato termine, di un nuovo Bleuler.

Né il cap. 5, sull’incontro psicoterapeutico, ci consente un respiro di riposo. Ecco infatti la cura oltre il setting, la cura dell’incontro autentico, e, soprattutto, la reciprocità dell’aggancio (Valdevit-199), l’être-à-deux, il se tenir-par-les-yeux. Gli apporti del dr. Bruno e della d.ssa Di Cintio, "danzare nel tempo" (pag.189) e il caso di Enzo (195) hanno saputo scandire momenti delicati e fugaci di ogni incontro, eppur sempre adombramenti essenziali.

Come sopra accennato e come ben dice la psicoterapeuta Concetta Padricelli, il passaggio, teoretico e pratico, dall’io-qui-ora, all’ être-à-deux, dal "se tenir par les yeux" agli "occhi impigliati", di P. Scurti (pag.216-228), costituisce un vero e proprio giro di boa, che a suo tempo, fu mirabilmente intuito e svelato da persone come Minkowski, Merleau-Ponty, Azorìn, Charbonneau, Borgna e, ultimo ma non ultimo, Di Petta.

Ho spesso pensato che dall’incontro alla gruppalità non c’è evidente soluzione di continuo. E qui le articolazioni del gruppo daseinsanalitico lo colgono esemplarmente, in quella navigazione a vista, in quell’alzo-zero, in quel corpo a corpo fatto di reciprocità, in pagine ricche di enzimi che inducono l’imperioso formarsi della dimensione gruppale nei Ser.T., l’esperienza condivisa come emerge nella esemplare pag. 244, chiave di capitolo che è forse, rispetto agli altri, il più pregno della presenza di Ludwig Binswanger, delle sue "Grundformen" che cominciai a leggere nel 1953 e che Di Petta ha saputo richiamare dal denso fondale della mia memoria patica.

E’ qui, alle pag. 266 e 267, che si colloca a pieno titolo e in termini vibranti di autenticità e di coinvolgimento, la portata essenziale di "questi ragazzi" (Antonina, Giorgio, Andrea, Elena, Assia, Sabrina, Stefania, Vanessa) che a guisa di meteora hanno illuminato anche me, sorprendendomi in un mio sabato di campagna e lasciandomi colmo di risonanze.

Ricchezza di sensi vissuti e di elaborazioni psico-affettive, (ad es. della "psiconauta" Cangiano e dell’improbabile Sabrina Di Giovanni), intelligenti apporti critici e sfumatamente narrativi (Padricelli, Guerri, Curciotti) vanno ad orchestrare il capitolo dedicato all’esperienza effettuata dal gruppo Ninive nel meeting residenziale nella cittadina ciociara di Alvito, rievocata plenis manibus da Giorgio Trojano (291-304), il quale, poco oltre, non esita a definirsi utente fra gli utenti, con un ardito e fecondo passaggio concettuale sulla transizione della coppia terapeutica da analizzante-analizzato a dialoganti in reciprocità.

Il contributo dell’infermiera Maria Di Pasquale (313) e quello di Luigi De Gregorio (316), a parte la loro densità concettuale e affettiva, sottolineano l’autenticità di Gilberto, unica nel suo genere, anche a mia sessantennale memoria, nel proporsi-con, nel mettersi tutto fra parentesi salvo nella sua originaria noità, nel suo darsi e coniugarsi in alterità, pur con l’ "alienus". Io davvero posso, come testimone dell’età di mezzo, constatare la realizzazione, in Di Petta (2001), di quella dialettica "alterità e alienazione", che aveva trovato in Danilo Cargnello (1964) il suo giustificante teoretico, e poi, in me, il suo convinto modulatore: tutta la pag. 320 del 38enne Enzo lo proclama come fa, anche lo psicologo Colavero nel suo viaggio da Napoli a Figline.

E’ questa, del viaggio, la tematica che emerge da tutto il cap. 8°: l’homo viator, di Gabriel Marcel, di Amado, di Machado, di Octavio Paz, di Fernando Pessoa, di poeti absburgici e messicani, cileni e guatemaltechi, danesi e carioca, di tutti coloro che sanno amare anche gli scarti della vita. Questo ottavo capitolo, che narra il viaggio della nave dei folli, in un racconto real-fantastico che Luigi De Gregorio sa farci accettare, anzi fa imbarcare anche noi, vecchi o principianti, scaltriti o ingenuotti, per questa sua innata capacità di suonare l’arpa eolia anche di fronte alle sorde sirene di Kafka.

Il plurisegnato Luigi mi sembra qui il Parsifal del Graal, e la lettera di Gilberto del 25 settembre (pag. 347) me lo confermano. Le ultime frasi di questa missiva hanno un valore general-umano: si addicono ad ognuno di noi, ci inducono ad imbarcarci in questa nave, ci insegnano a capire queste lingue (cfr. la mirabile nota 152 a pag. 337). Voglio ripetermela spesso e ricordarmi che, come dice Giorgio Trojano, è la cura dell’oltre contatto.

Non so se questo mio dire, forse troppo articolato possa essere adatto per una introduzione o prefazione, come mi era stato richiesto. Penso che sarebbe più esatto indicarla più modestamente come post-fazione, come possibile commento puntuale all’esperienza dell’esserci-nella-clinica (il capitolo conclusivo), scritto non a quattro ma sedici mani, e intessuto di "storie, casi, destini": di corpi, esistenze, mondi (per ricordare il titolo di un mio recentissimo libro, che vorrebbe esser l’iter del mio lascito umano al giovane Gilberto e ai suoi magici "brutti anatroccoli". Dei tanti casi, che meriterebbero essere indicati uno ad uno, basti qui ricordare un nome, uno per tutti: l’instabile e vulnerabile quattordicenne ? Lolita. Il suo probabile comporsi e situarsi si accorda alla speranza di questo Centro Giano, alla luminosità dei suoi animatori e all’umanissimo significato della loro diuturna e preziosa fatica.

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