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Il Setting e la Funzione Paterna

Noi consideriamo la Comunità Terapeutica come un unico grande setting, in cui si svolgono numerose attività, individuali e gruppali, terapeutiche o riabilitative, strutturate a loro volta come sotto-settings, ognuno con precisi confini spazio-temporali e metodologici: luoghi, orari, regole, programmi e metodi di lavoro.
La vita comunitaria è estremamente complessa e rischia di essere caotica se non si strutturano tempi, modi, e metodiche delle varie attività che vi si svolgono.
Ogni attività ( cura personale, lavori di autogestione della casa, momenti conviviali e ludici, gruppi espressivi, spazi autonomi, attività psicoterapeutiche ) ha una specifica finalità che definisce sia il compito che deve svolgere il paziente, sia il lavoro dell'operatore che lo segue.
Un setting strutturato dà ordine, riferimenti precisi e prevedibilità agli eventi; ognuno sa quello che deve fare e ciò è molto rassicurante per tutti: operatori e assistiti.
I programmi e le attività servono ad impegnare costruttivamente le loro energie, a canalizzare l'aggressività e le azioni dei pazienti su obbiettivi concreti, da portare avanti quotidianamente.
I confini esterni aiutano il paziente a trovare dei confini interni, ad autodisciplinarsi, a strutturare in modo più sano il tempo, a contenere l'ansia del vuoto, tanto comune tra i nostri pazienti.
Il setting è protettivo anche per l'operatore che può così evitare di essere divorato dalle continue richieste del paziente, di essere trascinato in giochi di potere e in bracci di ferro che rischiano di compromettere la relazione col suo assistito.
A questo modello della Comunità come setting che realizza alcune funzioni tipicamente paterne, se ne contrappongono altri che si possono raggruppare in due tipi.
-Il primo modello, tipico delle strutture manicomiali ( ma non solo ), che potremmo definire Autoritario, è quello di un'organizzazione e di un potere che non è funzionale alla riabilitazione dei pazienti, ma al loro controllo, in funzione dei bisogni di psichiatri, infermieri, amministrativi, familiari e del contesto sociale.
La struttura, anche quando si chiama Comunità, è in effetti un'Istituzione in cui il ruolo dei pazienti è marginale; cosa per altro facile a verificarsi data la loro tendenza a isolarsi e a negare, con la malattia, anche i propri diritti.
-Il secondo modello, nato come reazione all'autoritarismo della struttura ospedaliera, consiste in una relativa mancanza di organizzazione delle attività, di definizione dei ruoli e del lavoro; alcune Comunità pretendono di creare una struttura “democratica” e partecipata con finalità socioterapeutiche; altre invece, radialmente ispirate ad una cultura gruppo-analitica, prevedono la massima libertà d'azione, nell'illusione che il paziente abbia così maggiori opportunità di espressione e che, se aiutato a divenire consapevole delle sue dinamiche, divenga il miglior medico di sé stesso e attivi spontaneamente un processo terapeutico; altre Comunità infine, rigidamente orientate verso la terapia analitica individuale intensiva, divengono semplicemente lo spazio dove i pazienti ristagnano tra una seduta e l'altra. Questi tipi di Comunità, che non hanno un setting ben definito sono, secondo noi, anti-terapeutiche; le definiremmo “comunità pascolo”, perché in esse i pazienti stazionano, ognuno per proprio conto, senza scopi precisi. La mancanza di programmi provoca ansia, precarietà e senso di vuoto e spinge i partecipanti ad evitare i rapporti, a fuggire da se stessi e ad allontanarsi dalla struttura.
Questa malintesa libertà non porta ad una vera spontaneità, ad un senso di responsabilità e neanche all'espressione dei propri bisogni, ma all'espressione della propria negatività, alla sola “libertà” di delirare e di restare nell'impotenza e nella disperazione.
La mancanza di programmi non porta nemmeno ad una maggiore elaborazione dei fantasmi interiori; al contrario porta ad una maggiore negazione della malattia e della realtà e di fatto collude con la tendenza del paziente a negare la realtà e il confronto necessario alla presa di coscienza dei propri fantasmi.
Bisogna distinguere una struttura autoritaria e patriarcale da una struttura paterna, funzionale alla comunicazione, al sostegno dei pazienti e allo sviluppo delle loro capacità lavorative, relazionali e introspettive.
Infatti, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, il setting non frammenta né ingessa i rapporti, ma può facilitare la circolarità della comunicazione e l'espressione dei vissuti. Per esempio, regole quali quella della sospensione del giudizio, che caratterizzano i setting dei gruppi terapeutici e dei gruppi espressivi, possono rassicurare i partecipanti contro il timore di rappresaglie, derisioni e giudizi negativi, e creare uno spazio protetto dove è possibile ricontattare parti di sé nascoste e spaventate.
Un effetto simile all'assenza di funzione paterna è quello rappresentato da una Comunità ipoteticamente strutturata e definita, ma dove in pratica gli assistiti non rispettano le regole e i programmi e dove gli operatori non rispettano i metodi di lavoro e sono invece tolleranti e permissivi con sé stessi prima che con gli assistiti. Quì la funzione paterna è prevista ma viene negata per attaccare il ruolo del padre e i principi che rappresenta: il principio della realtà, della responsabilità, del rispetto di sé e degli altri. In questo modello antiterapeutico di Comunità gli operatori oscillano da un atteggiamento colpevolizzante e rigido verso le regole, identificandosi con un SuperIo autoritario, ad un atteggiamento permissivo e collusivo con l'onnipotenza del paziente, per esempio facendo eccezioni e particolarismi.
Essere fermi sul rispetto delle regole, senza essere superegoici, è uno dei compiti fondamentali del lavoro dell'operatore, non solo per la salvaguardia del setting, che è uno strumento di lavoro, ma anche per il processo terapeutico dei pazienti che, sconfinando, agiscono la tendenza a negare la realtà e la resistenza ad elaborare i fantasmi.
In conclusione le Comunità che non prevedono un programma di attività entro precisi confini spazio-temporali e metodologici, a nostro parere, finiscono facilmente per divenire antiterapeutiche; e lo sono ancor di più le Comunità falsamente democratiche, dove gli operatori per primi non rispettano il setting e, per paura dei pazienti o per seduttività nei loro confronti, hanno un atteggiamento permissivo e collusivo verso gli sconfinamenti, incoraggiando così l'onnipotenza e la distruttività dei pazienti.

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