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OMAGGIO A GEORGES LANTERI-LAURA

Semiologia e psichiatria. Riflessioni in margine a: Georges Lantéri-Laura, Introduction générale à La Sémiologie psychiatrique

[ pubblichiamo queste pagine in omaggio a un grande amico e maestro della psicopatologia da poco scomparso, Georges Lantéri-Laura. Seguiranno altri interventi e recensioni dedicati a suoi scritti recenti]

 

di Andrea Cavazzini

Questo testo di Georges Lantéri-Laura (1930-2004), pubblicato nel fascicolo a lui dedicato de L’évolution psychiatrique [70, 2 (2005), pp. 219-247] è il prologo ad un libro rimasto incompiuto che doveva intitolarsi La sémiologie psychiatrique. Recherches Historiques et critiques sur ses fondements. Si tratta dell’ultima manifestazione di una produzione scientifica impressionante per vastità e ricchezza, e di un percorso intellettuale di rara originalità e profondità. Dotato di doppia formazione, medica e filosofica, Georges Lantéri-Laura non è facilmente inquadrabile nemmeno all’interno della sola filosofia: di formazione fenomenologica (alla "fenomenologia della soggettività" e alla psichiatria fenomenologia dedicherà numerosi studi tra cui i volumi appunto intitolati Phénoménologie de la subjectivité, Paris, PUF, 1968 e La psychiatrie phénoménologique, Paris, PUF, 1963), è stato allievo di Georges Canguilhem, maestro dell’epistemologia storica francese, corrente in cui lui stesso può a buon diritto inserirsi. Da questa tradizione — che insegna a porre i problemi di principio a partire da studi paradigmatici su forme e mutamenti del sapere - Lantéri-Laura ha tratto ispirazione per i numerosi studi di storia della psichiatria, tra cui il volume Histoire de la phrénologie (Paris, PUF, 1970; 2ème éd. mise à jour 1993). Ma la storicità che l’epistemologia francese localizza nei saperi incorpora — per Canguilhem, e per autori esterni a tale corrente ma che molto le devono come Foucault e Althusser — le relazioni di potere: per Lantéri-Laura si tratterà di rapportare le svolte paradigmatiche agli effetti di potere dei cambiamenti istituzionali. Infine, la sua riflessione toccherà i temi propri dello strutturalismo, in particolare della linguistica post-saussuriana (Prieto, Hjelmslev) e, soprattutto, dell’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss (che gli farà ottenere un incarico all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales). Tuttavia, Lantéri-Laura si guarderà dal limitare l’interrogazione strutturale ai temi e ai nomi lanciati dalla koinè parigina: per lui "struttura" (definita con Hjelmslev "entità autonoma di dipendenze interne", e traducibile con i vocaboli tedeschi Aufbau, Struktur, Form e Gestalt), è un concetto operativo plurivoco che attraversa diversi tipi di pensiero tutti accomunati dal rifiuto dell’atomismo e dell’associazionismo, cioè della tendenza a ridurre le totalità a somme aritmetiche di elementi già dati. Gli elementi della struttura sono piuttosto virtualità che, combinandosi in diverse configurazioni attuali, producono oggetti differenti: per Lantéri-Laura questo stile di pensiero è rintracciabile in una "famiglia" molto complessa di pratiche teoriche — dalla morfologia proppiana della fiaba, nata dagli studi dei formalisti russi, alla "storia delle forme" dell’esegesi biblica protestante, e, più vicino ai temi psichiatrici, dalla neurologia globalista di Kurt Goldstein alla teoria della Gestalt di Koehler e Koffka, fino, da ultimo, alla linguistica generale di Saussure. La combinazione di tutte queste parentele filosofiche (fenomenologia, strutturalismo, epistemologia storica, archeologia dei nessi tra sapere/potere) non ha mai, in Georges Lantéri-Laura, prodotto un composto instabile ed eclettico: questi riferimenti sono tenuti insieme da un filo conduttore — la ricerca di un apriori materiale, di un principio di strutturazione dell’esperienza dato nell’esperienza stessa come logos immanente del fenomeno ostensibile (e questo principio, lo vedremo, servirà anche a discriminare gli strutturalismi "razionali" dalle generalizzazioni indiscriminate delle intuizioni totalizzanti). Questa ricerca filosofica è volta a fornire un operatore concreto all’analisi di oggetti che tentino di non sovrapporre a questi ultimi degli schemi estrinseci, delle razionalizzazioni proiettate sulle norme immanenti alle "cose stesse": un’esigenza che in qualche modo, lo vedremo, rinvia alla pratica stessa che sarà oggetto e modello delle ricerche di Georges Lantéri-Laura — la clinica (psichiatrica e non solo). Se la clinica impone infatti l’assunzione di un’apertura all’esperienza di cui il paziente (medico o psichiatrico) è irriducibilmente portatore, lo studio della "cosa stessa" in gioco nella psichiatria impone che sia quest’ultima - in quanto esperienza interna alla storia, alla cultura, alle pratiche — a fornire le norme ed i principi capaci di analizzarla.

Tutti questi temi ritornano nello scritto postumo in questione, peraltro difficilmente comprensibile senza le due opere di sintesi storica e sistematica che Lantéri-Laura ha dedicato alla storia della psichiatria: Essai sur les paradigmes de la psychiatrie moderne (Paris, Éditions du Temps, 1998) e Psychiatrie et connaissance (Paris, Sciences en Situation, 1991). A questi due lavori ci riferiremo per integrare e sviluppare i problemi sollevati dal testo postumo: in tutti questi tre lavori, la questione della semiologia (medica e psichiatrica) fornisce il criterio storico e sistematico che consente di situare la psichiatria nella cultura, di reperirne le svolte, di individuarla come sapere specifico. Nel testo postumo (di cui indicheremo le pagine tra parentesi senza specificazione del titolo; tr. nostra), Lantéri-Laura si proponeva di "chiarire il posto specifico che compete alla semiologia nella psichiatria contemporanea" (p. 220). Il punto di partenza della discussione è tuttavia la semiologia medica, e non quella specificamente psichiatrica. Fin da subito si pone dunque il problema del rapporto tra la psichiatria e la medicina. In linea di principio, nulla può essere deciso a priori sulla subordinazione logica ed epistemologica della psichiatria alla medicina; tuttavia, secondo l’autore, si può:

"constatare, de facto e a posteriori, che la medicina, in quanto insieme di saperi e di saper-fare, è apparsa nella storia delle conoscenze e delle pratiche umane ben prima che la patologia mentale vi si costituisse come specialità" (p. 221).

Il legame genealogico è sufficiente per iniziare la trattazione dello statuto della semiologia psichiatrica a partire da quella medica — vedremo infatti che è proprio seguendo il filo conduttore della semiologia che questo rapporto apparirà come tutt’altro che pacifico, ma anzi caratterizzato da un décalage tra le due discipline che segnerà le forme iniziali della più recente tra le due.

La semiologia medica è essa stessa ricondotta innanzitutto alla sua formazione agli inizi stessi della medicina:

"Richiameremo brevemente gli inizi della tradizione medica in cui ci situiamo tuttora, da più di due millenni: fonti greche, nel quinto secolo precedente alla nostra era, con la cesura (coupure) abbastanza netta che separa il rapporto magico al male capace di colpire il corpo e l’anima, concepiti nella loro unità sovrannaturale, dalla presa in conto, nel registro esclusivo della phusis, delle malattie che alterano questo corpo. E constateremo allora alcune caratteristiche formali che si affermano dagli inizi di questa tradizione e che si ritrovano ancora nei primi anni del XXI secolo: pluralità delle malattie, necessità di esaminare il paziente prima di trattarlo, e così di seguito. È questa preminenza della clinica sul trattamento che permette di situare la semiologia medica e di assegnarle un luogo preciso" (p. 224).

Dunque, la semiologia si situa in rapporto alla clinica:

"La semiologia costituisce una parte della clinica, quella che organizza la combinatoria dei segni, e (…) la clinica ingloba, per così dire, la semiologia" (p. 225).

Se la semiologia dipende dall’affermarsi di una clinica, quest’ultima dipende dal sorgere di un tipo di sguardo che, fin dagli inizi, caratterizza la medicina occidentale e che richiede precise condizioni. Si tratta innanzitutto di un sguardo naturalista:

"[La medicina] si rivolge unicamente alla natura — la phusis — ed esclude dal proprio campo di pertinenza il ricorso al sovrannaturale e agli dei (…) Possiamo dunque, almeno in prima istanza, distinguere radicalmente la medicina dalla magia e dall’arte del guaritore (…) essa riguarda essenzialmente la natura ed esclude dal proprio ambito di pertinenza tutto ciò che potrebbe rapportarsi (…) agli dei, al magico e al sovrannaturale, affidandosi solo all’osservazione empirica ed alla riflessione razionale sui dati di questa osservazione empirica" (pp. 227-228).

Dunque non solo il medico studia esclusivamente i fenomeni naturali; anche il suo sapere è determinato da forze naturali: dai sensi e dal ragionamento, ed esclude la pertinenza medica di una qualche comunicazione occulta con forze divine. Il medico è un essere naturale confrontato a realtà naturali cui accede tramite le sue proprie forze naturali. Da questo principio generale di ricorso ai soli fenomeni che costituiscono la natura è possibile ricavare come conseguenze alcuni caratteri formali della pratica medica, in particolar modo:

"La preoccupazione di separare le affezioni le une dalle altre e di adattare ciascuna terapia a ciascuna affezione (…) fin dai suoi inizi, la medicina (…) si rivolge alle malattie, al plurale, e non al male, al singolare (…) il patologico non è mai unitario ed esiste sempre più di una maniera di essere malato o di essere ferito. È, questa, una constatazione fondamentale e che conferma appunto come la medicina non abbia a che fare col male, perché il male resta unico, mentre le malattie sono diverse e costituiscono delle specie morbose naturali irriducibili le une alle altre. La patologia risulta quindi multipla e sempre conosciuta a posteriori" (pp. 227-228).

Il rifiuto del sovrannaturale mette fuori causa ogni pertinenza del male ontologico, unico e sostanziale, e, con unico movimento, apre il campo di una pluralità di "mali", ciascuno dei quali perde (inizialmente solo in parte) il proprio carattere di ipostasi, di principio essenziale intrinseco all’ordine cosmico, per venire "localizzato" nel corpo naturale del singolo uomo vivente. Lo sguardo naturalistico rende quindi il corpo semioforo, poiché, cadendo la pertinenza di un sapere ontologico sul Male che renda conto di ogni forma di mal-essere, l’unica fonte di conoscenza sulle malattie viene a coincidere con l’immanenza del corpo vivente il quale diventa perciò stesso portatore dei segni atti a fornire l’unica valida conoscenza del "male" da cui esso stesso, nella sua singolarità, è colpito. La semiologia in quanto fondata sull’autoimmanenza corporea del paziente deriva direttamente dallo sguardo naturalistico; indirettamente essa deriva invece da una conseguenza già citata di questo, e cioè dalla moltiplicazione delle malattie:

"L’esercizio di questa medicina opera senza eccezioni con un’esigenza imprescrittibile: risulta indispensabile iniziare esaminando il paziente, alfine di poter emettere una diagnosi, prima di iniziare il trattamento, e quest’obbligo si impone anche in caso di urgenza. Si tratta di una conseguenza della diversità irriducibile delle specie morbide naturali, della pluralità dei trattamenti possibili, dell’assenza di panacea legittima e del carattere inevitabilmente a posteriori di ogni medicina razionale ma empirica. Il medico non sa in anticipo da cosa il suo paziente si trovi colpito, e poiché non esiste terapia che valga in tutti i casi, non potrebbe trattarlo prima di aver determinato quale affezione precisa abbia colpito il suo organismo" (p. 228).

Per ricapitolare i complessi legami tra le condizioni della "nascita della semiologia" stabiliti da Lantéri-Laura, potremo dire questo: il naturalismo localizza i mali nel corpo rendendo pertanto quest’ultimo l’unica fonte legittima dei segni tramite cui la malattia diventa conoscibile — questa è la messa in atto del dispositivo clinico (perché si centra sull’esame del paziente l’acquisizione del sapere) e al tempo stesso la condizione di possibilità della semiologia medica. Ma il naturalismo sostituisce le singole malattie all’unico male: e ciò rende la semiologia non solo possibile in virtù della semiotizzazione del corpo, ma anche indispensabile, poiché è necessario riconoscere le malattie, distinguerle le une dalle altre, e ciò non può essere fatto senza dei segni distintivi che consentano un riconoscimento e una diagnosi. Se nel primo movimento la clinica, rendendo il corpo malato una fonte di conoscenze, apriva la possibilità della semiologia, nel secondo è la semiologia, elaborando i segni pertinenti, a rendere attuabile la clinica nelle sue dimensioni di diagnostica e terapeutica.

Questa in sostanza la struttura formale invariante che Lantéri-Laura riconosce nella pratica medica razionale nata in Grecia nel V secolo avanti Cristo, e giunta identica fino a noi. Si tratta a questo punto di analizzare altre due linee della ricerca dell’autore, che la morte gli ha impedito di esplicitare pienamente nello scritto in questione, ma che attraversano tutti i suoi lavori più recenti: la prima concerne la questione della semiologia psichiatrica, e della sua maggiore o minore adeguatezza alla struttura della semiologia medica testé enucleata; l’altra riguarda il funzionamento effettivo di queste due semiologie, cioè le modalità con cui i segni significano e producono conoscenze.

Dagli inizi ippocratici, una svolta decisiva nell’implementazione di una semiologia medica razional-empirica si produce tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo con la Scuola di Parigi, con cui si fa iniziare il metodo anatomo-clinico:

"Essa inaugura veramente la medicina moderna. Alle confidenze del paziente, essa preferisce sistematicamente i segni fisici: le loro combinazioni determinano le sindromi, caratterizzate da una correlazione stabile tra segni fisici e lesioni circoscritte (…) l’evoluzione regolare delle sindromi permetteva di definire le malattie sulla base di criteri anatomo-clinici" (Psychiatrie et connaissance, op. cit., pp. 44-45).

Il valore di questo metodo sta nella sua capacità di discriminare i segni, dunque di permettere la diagnosi differenziale delle malattie:

"[La Scuola di Parigi] fonda la semiologia medica moderna (…) ispirandosi ad alcuni principi rigorosi: esistono più modi di essere malati, bisogna identificare le specie morbose naturali irriducibili le une alle altre, bisogna cercare in modo obiettivo i segni, soprattutto i segni fisici, che soli permetteranno di affermare una diagnosi scartando le altre, e solo la diagnosi (sindromica o eziologica) permetterà di proporre un trattamento" (Essai sur les paradigmes de la psychiatrie moderne, op. cit., p. 64).

Ora, la psichiatria è, fin dalla nascita, adeguata nei suoi principi e ancor più nelle sue pratiche, a questo movimento? Per poter rispondere, è necessario localizzare appunto il luogo di nascita della psichiatria: luogo che non ha nulla della chiarezza e della sostanzialità di un’Origine, ma è distribuito, per parafrasare Canguilhem, in una pluralità di cominciamenti la cui sequenza non è necessitata da una logica interna. Un primo cominciamento del sapere psichiatrico è certamente contemporaneo a quello della medicina nei testi ippocratici, e dipende dallo sguardo naturalistico di cui abbiamo già detto:

"Questa tradizione medica (…) si farà carico di alcuni aspetti di ciò che la cultura dell’epoca intendeva da tempo con follia e che attribuiva all’azione ostile degli déi, e vi troverà alcune analogie puramente naturali con ciò che la medicina concepiva come malattia. È allora che la psichiatria fa il suo ingresso, intesa come ciò che la medicina può spiegare della follia grazie ai propri mezzi, indipendenti da ogni ricorso al sovrannaturale" (p. 224).

Ma la sdivinizzazione della follia — con conseguente trasformazione in malattia — non è che una precondizione della costituzione di una psichiatria intesa come disciplina autonoma, dotata di un oggetto e di procedure specifiche per conoscerlo e trattarlo: si tratta ancora dell’inserimento di un fenomeno, in precedenza lasciato alla sfera sovrannaturale, in un campo naturalizzato ma generico, un "piano di immanenza" da cui però non è stato ancora ritagliato alcun oggetto. Questa situazione va tenuta a mente per comprendere quanto Lantéri-Laura dice del secondo cominciamento della psichiatria alla fine del XVIII secolo. Localizzare l’origine della psichiatria moderna e contemporanea in quanto oggetto riconoscibile in questo torno di tempo significa stabilire che, in tale congiuntura, si sono intrecciati:

"da una parte, un interesse nuovo per le cure agli alienati, d’altra parte una mutazione politica ed istituzionale che non si limita agli effetti diretti della Rivoluzione francese e, infine (…) un cambiamento notevole nella conoscenza medica" (Psychiatrie et connaissance, op. cit., pp. 40-41).

Queste condizioni sono così riassunte:

"In un periodo abbastanza ristretto vengono a coincidere cambiamenti notevoli in registri differenti ma che riguardano tutti lo studio medico della follia: interesse dei medici filantropi per l’alienazione vista nell’ottica della filosofia sensualista, laicizzazione e medicalizzazione delle istituzioni caritatevoli, restrizione all’ordine giudiziario delle misure privative della libertà individuale, fondazione della medicina anatomo-clinica ed inizi della conoscenza moderna della corteccia cerebrale" (Ibid., p. 46).

Questo elenco merita qualche commento. Innanzitutto, il clima di filantropismo medico e di garantismo "liberale" è lungi dall’essere univoco. Certo, i medici filantropi, imbevuti di filosofia empirista e condillaciana:

"Interessati all’Enciclopedia e alla dottrina dei Fisiocratici, amici del genere umano, favorevoli ai despoti illuminati e agli insorti d’America", non sono in grado di concretizzare la medicalizzazione della follia se non nel senso di una sua generica laicizzazione che si situa nella linea retta della sua naturalizzazione antica; essi "si fanno della follia un’idea medica, certo, ma molto generale (…) ritengono che i folli debbano essere ritenuti malati e non colpevoli e che debbano essere trattati, ma restano molto vaghi su tali trattamenti" (Ibid., p. 41).

Inoltre, si fa strada alla stessa epoca una protesta — argomentata in nome della libertà individuale — contro l’internamento preventivo per decisione amministrativa, processo che sfocia nella separazione rigorosa tra "la potenza amministrativa e l’ordine giudiziario" (Ibid., p. 44). Questi aspetti rilevano più dalla lotta contro la barbarie clericale e l’oscurantismo che da un’impresa scientifica: la posta in gioco è lo statuto dell’individuo di fronte ai poteri religiosi ed amministrativi, ciò che comporta una definizione differenziale dello spazio soggettivo in rapporto alle pratiche religiose (ed ai presunti interventi sovrannaturali nella condotta) ed alla discrezionalità della ragion di Stato. La componente scientifica (quella in qualche modo debitrice dell’opera della Scuola di Parigi) interverrà solo più tardi, cioè dopo che lo spazio psichiatrico sarà stato aperto e alimentato da condizioni ideologico-politiche che ne faranno, non già lo spazio di un sapere scientifico a pieno titolo, ma quello di un’estensione dell’antropologia e della politica filantropiche dei Lumi. Con ciò che di ambiguo vi è in tale filantropismo, sospeso tra universalismo laico ed emancipatore e razionalizzazione delle tecnologie governamentali. Ed è appunto questa ambiguità a segnare la psichiatria nel suo primo periodo, quello dell’alienismo fondato da Pinel, in tutte le componenti che per Lantéri-Laura definiscono una disciplina medica: la clinica, la semiologia, la diagnostica, la terapia. Ciò che importa al nostro discorso, è che sia la semiologia a costituire il sintomo più chiaro del fatto che la psichiatria è, nella sua fase aurorale alla fine del Secolo dei Lumi, un discorso che si richiama alla medicina per situarsi in uno spazio laico, razionale, umanitario e "illuminato", ma senza possedere i mezzi per darsi realmente un oggetto comparabile a quelli medici. È certo questa assenza di oggetto su cui insiste l’analisi di Lantéri-Laura a lasciare la psichiatria delle origini in preda alle aporie dell’ideologia filantropica che ne costituisce l’unica sostanza, senza che l’obiettivazione di una problematica propria possa opporre resistenza rispetto alla collocazione unicamente "politica" del neonato discorso alienista. Vediamo allora più davvicino come il nodo della semiologia riveli questa situazione aporetica.

Per Lantéri-Laura, l’aporia dell’alienismo è la seguente: senza dubbio Pinel e i suoi contemporanei intendevano evitare "confusioni che avrebbero nuociuto al riconoscimento esatto della collocazione della patologia mentale rispetto a tutte le singolarità comportamentali che non ne dipendono affatto" (Essai, op. cit., p. 61). Da cui la delimitazione del campo dell’alienazione mentale, ritenuto di esclusivo dominio della medicina:

"Questa alienazione mentale (…) rappresenta precisamente per Philippe Pinel ciò di cui la medicina è capace di rendere conto con le sue sole forze di quanto gli uomini chiamano follia" (Ibidem).

Poiché l’alienazione è una malattia, i folli devono cessare di essere imprigionati e condannati come delinquenti; Lantéri-Laura sottolinea come l’appartenenza medica:

"si trova affermata in modo radicale e solenne, perché bisogna pure che l’alienazione mentale riguardi intrinsecamente la medicina affinché gli alienati dipendano dai medici e sfuggano ai poliziotti, ai procuratori e ai giudici" (Ibid., p. 63).

Questo primo aspetto, che è di fatto quello filantropico dell’impresa pineliana, è, secondo Lantéri-Laura, quello più spesso ricordato; tuttavia, sempre secondo l’autore, la seconda conseguenza di tale impresa, spesso dimenticata, è almeno altrettanto importante. Si tratta della teoria dell’unità essenziale dell’alienazione, le cui manifestazioni quanto mai varie sarebbero perciò solo variazioni di un’unica specie morbosa, "apparenze che manifestano diversamente questa alienazione mentale e di cui bisogna identificare le varietà" (Ibid., p. 63).

Questa unità essenziale dell’alienazione pone immediatamente dei problemi alla medicalizzazione della psichiatria:

"Questa alienazione mentale, pur proclamando di situarsi all’interno della medicina, sfuggiva a gran parte della medicina stessa (…) lo studio dell’alienazione mentale diventa così — almeno de facto — estraneo al rinnovamento radicale delle discipline mediche intrapreso dalla Scuola di Parigi" (Ibid., p. 64).

Rinnovamento di cui già conosciamo il cardine: diagnosi differenziale per mezzo di una semiologia complessa ed elaborata. Ora, l’unità dell’alienazione mentale viene appunto a negare la pluralità delle specie morbose, rendendo impossibile ogni differenziazione semiologica: qualunque sia il sintomo, lo si riconduce ad una e ad una sola "patologia" soggiacente. Con una conseguenza: la ricostituzione di un’idea sostanzialistica della follia che, destabilizzando il primato dell’esame clinico del paziente in quanto semioforo, risale aldiquà dello sguardo naturalistico alla base della medicina razionale. Ad un’unica malattia corrisponde un’unica terapia, cioè il trattamento morale della follia:

"Questa parola, follia, che Pinel aveva voluto bandire dal vocabolario medico, si ritrova sotto la sua stessa penna" (Ibid., p. 65).

Torneremo più avanti sul problema posto dallo statuto del trattamento morale. Prima bisogna ricordare come Lantéri-Laura ha ricostruito la critica all’unità dell’alienazione mentale, individuando un punto di rottura nell’articolo del 1854 di Jean-Pierre Falret, De l’inexistence de la monomanie. La critica di Falret è importante, per l’autore, in quanto si fonda interamente sulla costituzione di una semiologia adeguata, che fa corpo con un richiamo al primato della clinica:

"[Falret] parte dalla necessità di osservare attivamente i pazienti, senza attenersi alla lettera di ciò che essi raccontano e senza contentarsi di ricercare in essi una presunta alterazione di quelle facoltà individuate da una psicologia artificiale, ispirata dalla scuola scozzese" (Ibid., p. 96).

In altri termini:

"La pratica di una semiologia e di una clinica attente sia alla precisione nell’osservazione dei fenomeni in atto che alla costanza nel seguirne l’evoluzione, conduce [Falret] a identificare delle specie morbose irriducibili all’unità senza misconoscere la ricchezza dei dati osservativi. Così afferma chiaramente la propria posizione: "Si è voluto studiare la follia come una malattia unica, invece di cercare in questo gruppo così vasto e mal delimitato delle specie realmente distinte, caratterizzate da un insieme di sintomi e da un percorso determinato. Questo errore è stato, a nostro avviso, fatale all’avanzamento della scienza (…) Non lo si ripeterà mai abbastanza: la follia non è una malattia unica, capace di rivestire le forme più diverse, variabili all’infinito (…) Il progresso più serio che si potrà realizzare nella nostra specialità consisterà nella scoperta di specie veramente naturali, caratterizzate da un insieme di sintomi fisici e morali, e da un percorso particolare"" (Ibid., pp. 96-97. Cit. da J.-P. Falret, Des maladies mentales et des asiles d’aliénés, Paris, Baillère, 1864; nouvelle éd., Paris, Sciences en Situation, 1994, t. I, pp. XXX-XXXI).

Le condizioni di questo cambiamento di paradigma operato da Falret sono molteplici; ne ricordiamo due: la prima è legata alla terapeutica — le tecniche di educazione dei ritardati, sperimentate in parallelo al trattamento morale, non avevano pressoché nulla in comune con quest’ultimo (così come le manifestazioni dell’idiozia e dell’epilessia mal si inquadravano nelle varietà dell’alienazione); la seconda riguarda la semiologia elaborata dalla Scuola di Parigi nel suo pieno rigoglio, associato ai nomi di Corvisart, Bouillaud e Laënnec:

"Tutti ritengono che la patologia costituisca un ambito in cui conviene separare le malattie le une dalle altre, poiché esse sono entità morbose autonome e irriducibili (…) Per raggiungere una diagnosi, che diverrà positiva grazie ad un procedimento differenziale, bisogna mettere in opera una semiologia che ricerchi dei segni fisici, per mezzo di pratiche ben codificate: ispezione, palpazione, percussione, auscultazione ed eventualmente punzione, pratiche che esigono un apprendistato alfine di padroneggiare un saper-fare, e che ridurranno progressivamente il ruolo delle confidenze del paziente sull’esperienza intima della propria malattia" (Ibid., pp. 99-100).

Da cui un contrasto irriducibile tra la medicina scientifica e l’alienismo pineliano:

"La Scuola di Parigi affermava la pluralità fondamentale e irriducibile delle malattie, laddove Pinel sosteneva la natura unica dell’alienazione; l’esame cercava, attraverso una semiologia attiva, dei segni differenti gli uni dagli altri e già repertoriati, all’opposto di un esame che si limitava a registrare le parole del paziente e a descrivere la sua condotta, senza elementi semiotici discreti, ricorrenti e stabiliti preliminarmente; e soprattutto si trattava di differenziare le specie morbose, mentre nell’alienazione mentale, essenzialmente unitaria, non vi era con ogni evidenza nulla da differenziare. Pertanto, non ci si poteva attenere al paradigma dell’alienazione mentale senza voltare le spalle alla medicina nel momento in cui questa compiva dei progressi decisivi" (Ibid., p. 100).

Le motivazioni del cambio di paradigma da parte di Falret sono quindi interne all’aspirazione ad una scientificità della psichiatria: si tratta di fornire a quest’ultima un oggetto determinato e delle procedure affidabili per conoscerlo. Naturalmente, vi è anche l’esigenza di fedeltà ai dati clinici e di efficacia razionale nel trattamento. I valori epistemologici e clinici convergono verso una contestazione dell’alienismo e, implicitamente, del suo unico modello terapeutico: il traitement moral. Ora, il trattamento morale può essere criticato — e lo è stato — da altri punti di vista più lontani dagli ideali della positività scientifica e di una clinica razionale e obiettiva. Ci sembra tuttavia importante sottolineare come le critiche al trattamento in chiave di tecnica disciplinare (cioè quelle di Michel Foucault e dei suoi continuatori) siano convergenti con quelle, emesse da Falret e riprese da Lantéri-Laura, centrate sulle sue carenze cliniche e scientifiche. Che il trattamento abbia un labile rapporto con la medicina scientifica e con l’esperienza clinica è infatti sostenuto esplicitamente da Foucault, non già nella Histoire de la Folie, ma nel Corso al Collège de France del 1973-1974 dedicato a Le pouvoir psychiatrique (M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, édition établie sous la direction d’Alessandro Fontana et François Ewald par Jacques Lagrange, Paris, Gallimard-Seuil, 2003; tr. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico, Milano, Feltrinelli, 2004). Foucault insiste sul rapporto peculiare della psichiatria al sapere medico. Da un lato, le pratiche psichiatriche — cioè quelle direttamente implementate nell’organizzazione dell’asile — sono "marcate medicalmente", cioè si legittimano attraverso il ricorso all’autorità del sapere medico. D’altra parte, non sembra esserci alcun sapere medico alla base delle tecniche di gestione dei malati all’interno dello spazio asilaire:

"Non è mai accaduto che la pratica psichiatrica, quale si è venuta sviluppando nel corso del XIX secolo, abbia effettivamente messo in opera il sapere o il quasi-sapere che si stava accumulando, tanto nella grande nosologia psichiatrica, quanto nelle ricerche anatomo-patologiche. Le distribuzioni all’interno del manicomio, il modo in cui venivano classificati i malati, il modo in cui venivano suddivisi, il modo in cui veniva loro assegnato un determinato regime, il modo in cui erano affidati loro dei compiti, il modo in cui si dichiarava che erano guariti o malati, curabili o incurabili, non teneva conto, in fondo, di questi due tipi di discorso. La funzione di questi discorsi era semplicemente quella di fungere da garanzie di verità rispetto a una pratica psichiatrica che pretendeva che la verità fosse data una volta per tutte, senza mai essere rimessa in questione. È vero che sullo sfondo si stagliavano le due grandi ombre della nosologia e dell’eziologia, della nosografia medica e dell’anatomia patologica, ma con l’unico scopo di costituire, prima di ogni pratica psichiatrica, la garanzia definitiva di una verità che, in quanto tale, non sarebbe poi mai stata messa in gioco nella pratica della cura" (Ibid., tr. it. cit. pp. 129-130).

Foucault mette quindi il dito sul "lato oscuro" del richiamo psichiatrico alla razionalità medica: un richiamo che, come ha messo in luce Lantéri-Laura, ha innanzitutto un valore di presa di posizione ideologica — ideologia filantropico-illuminista, certo, ma che inizia con l’autoattribuzione di un’autorità scientifica a discorsi senza oggetto proprio e, soprattutto, a pratiche che nessun sapere clinico viene a sorreggere. A cosa serve questa assunzione di autorità medica, nel contesto dell’organizzazione asilare?

"Il manicomio, in ultima analisi, veniva considerato terapeutico perché obbligava le persone a sottostare a un regolamento, a un impiego determinato del tempo, le costringeva a obbedire a degli ordini, a stare al proprio posto, a sottomettersi alla regolarità di un certo numero di gesti e di abitudini, a piegarsi a un lavoro" (Ibid., p. 145).

È un’idea coerente con le basi psicologiche dell’alienismo (la psicologia metafisica denunciata da Falret): l’alienazione è un eccesso della volontà, un abuso della libertà di giudizio che arriva a negare il peso della realtà esterna. La terapia, il trattamento morale, non sarà allora null’altro che una tecnica di soggiogamento di questa volontà ribelle e immoderata, al fine di ricondurla a sottomettersi alla realtà. È chiara allora l’inutilità di un sapere medico organizzato, di una semiologia razional-empirica e di una clinica effettiva. Il richiamo al Sapere e alla Scienza servono solo in chiave performativa, cioè in virtù dell’efficacia di tale richiamo nel legittimare una pratica che si trovi perciò stesso investita dei crismi della razionalità moderna — si è vista operare questa performatività nel senso del filantropismo; Foucault la mostra all’opera nell’instaurazione di un regime di sottomissione della volontà. La pretesa di scientificità fa parte dei

"supplementi di potere per mezzo dei quali la realtà, grazie al manicomio e al ruolo che hanno i suoi stessi meccanismi di funzionamento, potrà imporre la sua presa alla follia. (…) Adattarsi al reale, volere uscire dallo stato di follia, significa appunto accettare un potere che si riconosce come insormontabile e rinunciare all’onnipotenza della follia. Cessare di essere folle, significa accettare di essere obbediente, significa guadagnarsi da vivere, significa riconoscersi nell’identità biografica che è stata forgiata per noi (Ibid., p. 160).

Il sapere medico ha in questo schema il solo ruolo performativo di stabilire e rafforzare la dissimmetria delle volontà, di cui quella eccessiva del folle deve cedere all’altra:

"Il manicomio è la realtà nel suo potere nudo, la realtà intensificata da un punto di vista medico, è la stessa azione medica, il potere-sapere medico che a sua volta ha come unica funzione quella di essere l’agente della realtà stessa" (Ibidem).

Se tutto il trattamento morale si riduce a sottomettere la volontà del folle a quella altrui, e poi alla realtà di cui il medico è agente, ed infine all’ordine sociale che si manifesta come realtà attraverso il disciplinamento dei gesti e delle condotte, è chiaro che ogni discorso sulla semiologia, la diagnosi differenziale e la clinica diventa ipso facto fuori luogo: perché il trattamento morale, e l’alienismo che su esso si fonda, non hanno nulla di medico, se non il peso performativo che, in un’epoca illuminata, spetta al medico in quanto autorità cui si può e si deve sottomettere la propria volontà senza timore di ricadere nella barbarie:

"Perché il medico? La risposta sarà: perché lui sa. Ma che cosa sa, se è vero che il suo sapere psichiatrico non è quello che viene di fatto messo in atto nel regime manicomiale, se è vero che non è quel sapere a essere effettivamente utilizzato dal medico quando dirige il regime degli alienati? (…) In verità, credo che a esser ritenuto necessario al buon funzionamento del manicomio e a far sì, pertanto, che il manicomio debba essere necessariamente contrassegnato da un punto di vista medico, sia l’effetto di potere supplementare che viene garantito, però, non dal contenuto di un determinato sapere, bensì dal suggello fornito da quel sapere unicamente in virtù del suo statuto. In altri termini, è solo grazie ai contrassegni che servono a designare la presenza in esso di un determinato sapere — ovvero unicamente in virtù del gioco di tali contrassegni , e del tutto indipendentemente dal contenuto effettivo di tale sapere — che il potere medico potrà funzionare, come potere necessariamente medico, all’interno del manicomio" (Ibid., p. 173; corsivo nostro).

Da cui il ruolo carismatico del medico psichiatra, alla cui personalità eccezionale è demandata l’efficacia della "terapia". Anche in questo il distacco dalla medicina dai suoi sviluppi nel XIX secolo — è patente:

"All’interno dell’ospedale pasteuriano, la funzione di "produrre la verità" della malattia si è progressivamente attenuata; il medico produttore di verità scompare entro una struttura di conoscenza. Al contrario, nell’ospedale di Esquirol (…) la funzione di "produzione di verità" diventa ipertrofica, si esalta attorno al personaggio del medico. E questo all’interno di un gioco in cui a essere in questione è il sovra-potere (surpouvoir) del medico" (Ibid., p. 290).

Il medico non come portatore di un sapere obiettivo e di una tecnica razionale (ancorché individualizzata dall’esperienza clinica), ma come figura di autorità (qualcosa di simile al "nuovo sacerdozio" che i seguaci di Auguste Comte preconizzavano per il medico nell’età positiva…) cui è opportuno sottomettersi. Senza voler in alcun modo far coincidere le due prospettive, non si può non sottolineare la convergenza tra le posizioni di Foucault e le analisi di Lantéri-Laura (il quale ha sempre ricordato, senza enfasi ma con determinazione, come il mitico traitement servisse, in pratica, perlopiù a far lavorare gli alienati per garantire la prosperità dell’asilo), soprattutto se confrontate con il tentativo di mis à mort dell’opera foucaultiana che Marcel Gauchet va proponendo dagli anni ’80, oggi ri-proposto nella nuova prefazione a M. Gauchet-G. Swain, La pratique de l’esprit humain (Paris, Gallimard, 1980; rééd. 2007). Gauchet dà una valutazione tutto sommato positiva del trattamento morale e del regime asilare, ravvisandovi una strategia di inclusione del folle nella sfera della normalità umana (in ossequio a quella che il filosofo giudica la specificità del mondo moderno: l’estensione dell’uguaglianza). Nell’impossibilità di ricostruire e valutare il quadro storico e teorico delle tesi gauchettiane — strettamente connesse ad un progetto di egemonia liberal-conservatrice sull’intellettualità francese — ci limiteremo ad attirare l’attenzione su una certa sommarietà delle sue critiche a Foucault, e della sua idea in merito al trattamento morale. Gauchet rifiuta di interpretare quest’ultimo in termini di esclusione, nozione che in verità ha bensì un senso nell’Histoire de la folie (sola fonte foucaultiana che Gauchet pare conoscere…), ma che dovrebbe essere quantomeno specificata per adattarsi al corso del 1973-74, in cui il trattamento morale è analizzato sotto l’aspetto del potere disciplinare, il quale non agisce escludendo, ma attraverso una normalizzazione positiva dei comportamenti — e quindi in realtà includendo, riducendo i margini della devianza dall’ordine sociale e dai suoi compiti (è tutto qui il problema della sottomissione di una volontà sregolata). In realtà, Gauchet pone un altro problema (poiché ignora del tutto lo scarto tra le diverse ottiche con cui Foucault critica il trattamento morale): egli sostiene che l’attacco di Foucault all’alienismo è del tutto aprioristico, perché postulerebbe un occultamento della realtà della follia di cui invece solo il sapere psichiatrico e l’esperienza clinica restituirebbero una conoscenza critica (Marcel Gauchet, "Préface" in M. Gauchet-G. Swain, La pratique de l’esprit humain, op. cit., pp. VIII-IX). Gauchet afferma dunque che solo la clinica può darci a conoscere qualcosa della follia. Ma l’alienismo e il trattamento morale sono o non sono adeguati alle norme del sapere razionale e della pratica clinica della loro epoca? Se Foucault, anche quello non citato da Gauchet, è un testimone sospetto, si può ricorrere al giudizio di Lantéri-Laura per dare una prima risposta: la teoria dell’alienazione mentale e il trattamento morale non funzionano realmente come saperi e pratiche mediche, nel senso ad un tempo razionale e clinico costituitosi tra Ippocrate e la Scuola di Parigi. E un aspetto — che è anche un sintomo — di questa estraneità relativa al campo medico è l’impossibilità, nel loro quadro, di articolare la nosologia e la terapeutica ad una semiologia differenziale, come richiesto invece da Falret. È rispetto alla semiologia medica in quanto paradigma empirico-razionale che l’alienismo opera un occultamento: esso infatti non può che presupporre la diagnosi e la terapia all’esame dei segni singolari recati dal paziente, giungendo quindi ad un "occultamento" — non già della follia, ma della malattia mentale, divisa in specie morbose irriducibili e singolarizzate nell’esperienza del paziente offerto allo sguardo clinico. Una critica analoga può essere rivolta alla tesi gauchettiana per cui il trattamento morale riposerebbe univocamente e nettamente su una strategia di comunicazione con l’alienato, finalmente ricondotto nel cerchio egualitario dell’umanità. Ciò significa, non solo trascurare tutte le analisi foucaultiane sul rapporto dissimmetrico tra il medico e il folle, intrinseco all’esigenza di piegare la volontà scatenata di quest’ultimo, ma anche dimenticare — dopo l’omaggio formale alla "conoscenza clinica" — che l’alienismo può fare a meno dell’unica "comunicazione" appropriata alla situazione clinica: l’esame del paziente. Senza questa concretizzazione indispensabile, sventolare la paroletta "comunicazione", aldifuori della specifica relazione tra medico e paziente, non significa nulla più che agitare allusivamente un gradevole clima democratico di conversazioni e transazioni di cui c’è motivo di sospettare che avesse poco a che fare con la pratica di Esquirol, di Leuret o di A.A. Royer-Collard. Se invece si vuole dare un significato clinico alla "comunicazione" col paziente, bisogna dire che a quest’ultimo, in quanto interno ad una relazione medica, non vi è accessibilità senza una pratica regolata della decifrazione semiologica: l’alienismo non dispone dei segni e dei codici che costituiscono l’unica fonte attraverso cui qualcosa può venir "comunicato", uscendo effettivamente dall’incomprensibile alterità assoluta — come parlare di "comunicazione" col malato in assenza dello spazio teorico e pratico in cui si accumulano per definizione i problemi relativi ai codici e ai messaggi? Come evitare, in assenza di una riflessione sui segni e la loro intelligibilità, che l’inclusione del folle non sia un’anticipazione abusiva sui modi in cui la malattia si offre ad una decifrazione irriducibile ad una disposizione d’animo "inclusiva"? Da cui l’importanza assolutamente strategica, e non puramente specialistica, della riflessione sulla semiologia medica e psichiatrica condotta da Lantéri-Laura. La semiologia è infatti il veicolo attraverso cui le malattie diventano accessibili all’esperienza; ed è anche il mezzo attraverso cui l’esperienza clinica può informare di sé, e quindi trasformare, la razionalità medica e psichiatrica. I valori scientifici e clinici si organizzano attorno alla semiologia per fornire alla medicina ed alla psichiatria un oggetto, un principio di determinatezza che imponga esigenze proprie ai procedimenti e ai saperi, e senza il quale questi ultimi resterebbero determinati unicamente dalle strategie di potere. Più che a Foucault, bisognerà rifarsi a Canguilhem e ad Althusser per cogliere in filigrana alle analisi di Lantéri-Laura la convinzione che le scienze senza oggetto siano in realtà veicoli di tecniche di dominio, laddove queste ultime sono quantomeno arginate nei saperi in cui esiste una problematica autonomamente normativa. La semiologia è la condizione alla quale medicina e psichiatria possono essere guidate dalle norme cliniche, mentre le fondamenta teoriche e terapeutiche del paradigma dell’alienazione mentale sono troppo rassomiglianti ad una psicologia immaginaria per non richiamare la definizione che Canguilhem dava di quest’ultima: "scienza senza rigore, etica senza esigenza". Se dunque la semiologia è il vettore che orienta l’apertura della medicina e della psichiatria all’esperienza dei loro oggetti, resta da vedere come essa è caratterizzata in quest’ottica da Lantéri-Laura.

La semiologia stabilisce e decifra un corpus di segni: questa è la positività alla base della clinica, di cui la semiologia stessa è parte. Immediatamente, si pone un problema: come sapere che un segno sia effettivamente tale? (Psychiatrie et connaissance, op. cit., p. 191). Questo problema si può formulare anche nei termini del rapporto tra i segni nella loro singolarità reperibile nel caso singolare e il sapere generale elaborato dalla psicopatologia: "La discussione diagnostica rappresenta il luogo in cui le singolarità del paziente si ritrovano nell’universalità del sapere della patologia psichiatrica e in cui l’unico del soggetto può coordinarsi alla generalità delle conoscenze" (Ibid., p. 192). C’è quindi una circolarità tra il "messaggio" — i segni singolarizzati — e il "codice" ermeneutico che li rende visibili e interpretabili — il sapere psicopatologico: una circolarità in effetti fonte di aporie. Non si può infatti attribuire un primato assoluto alla clinica, perché senza un sapere in grado di obiettivare e distinguere i segni essa non si fonderebbe su nulla; ma d’altra parte "la semiotica per il momento non deriva dalla patologia per pura e semplice deduzione", anche perché il sapere generalizzante è un composto di "registri di conoscenza" spesso più giustapposti che effettivamente organizzati (Ibid., p. 193). La deduzione dalla psicopatologia — essa stessa fondata su di un’antropologia generale che stabilisca normalità e patologia della condotta umana — pretenderebbe di dedurre da conoscenze universali semiologia, diagnosi e trattamento, cioè clinica e terapeutica. Il "messaggio" è riassorbito senza residui nel "codice":

"Quando si conosca dall’interno e per così dire in anticipo la natura stessa del processo eziopatogenetico, va da sé che se ne deduca la clinica e che si garantiscano i segni provenienti direttamente da questo processo: ad ogni eziopatogenesi il suo (piccolo) gruppo di segni che ne deriva in modo esatto, e ad ogni segno il suo gruppo, riferibile ad una solo eziopatogenesi (…) un segno non può appartenere che ad un solo gruppo di segni e non può corrispondere che ad una sola eziopatogenesi (…) Se l’eziopatogenesi domina, essa comanda la clinica e la clinica non contiene altro che i suoi prodotti" (Ibid., p. 198).

Ora, questa linearità nella deduzione non è giustificata dalla pratica effettiva:

"Da un lato, i fondamenti della patologia mentale mancano di chiarezza, poiché ciò che permette di incriminare nella schizofrenia un disturbo dei neurotrasmettitori o la forclusione del nome-del-padre rinvia alla semiologia, alla clinica ed alla terapeutica (…) Da un altro lato, nella clinica psichiatrica che ha effettivamente corso (…) la maggior parte dei segni in uso si ritrovano in più di una sindrome ed ogni sindrome si riferisce spesso a più di un tipo clinico" (Ibid., p. 199).

Quindi, l’interpretazione dei segni non può essere univoca: soprattutto perché la semiologia e la clinica in genere retroagiscono sulla maggiore o minore accettabilità delle costruzioni teoriche da cui dovrebbero essere dedotte, ma che in effetti mancano di un fondamento extraclinico autonomo. Una tale riduzione della semiologia alla psicopatologia è stata tentata in psichiatria nell’ambito del paradigma delle strutture psicopatologiche, cui appartenevano diversi maestri diretti ed indiretti di Lantéri-Laura come Henri Ey e Eugène Minkowski:

"La patologia mentale (…) sembrava una fonte della conoscenza sull’uomo preso nella sua totalità e (…) si inseriva così in un’antropologia generale" (Essai sur les paradigmes, op. cit., p. 177).

Questo paradigma cerca, non già il riconoscimento differenziale delle malattie mentali, ma l’individuazione delle strutture totali in cui l’uomo esprime un rapporto complessivo con l’esistenza, e tale ricerca ha delle conseguenze dirette sul ruolo della semiologia:

"Minkowski critica una semiologia fondata sulla giustapposizione di segni disparati (…) Egli propone di rimpiazzare questa enumerazione disorganica con un segno assolutamente differente (…) denomina perdita di contatto con la realtà (…) Si tratta certo di un segno, ma appartiene ad una nuova concezione della semiologia (…) Da un lato, è un segno unico, globale e totalizzante (…) Da un altro lato, si presenta, in pari tempo, come un segno e come la manifestazione del processo morboso, e perciò dipende tanto dalla semiologia che dalla psicopatologia" (Ibid., pp. 178-179).

Se nel paradigma delle malattie mentali "la diagnosi permetteva di affermare l’esistenza in un soggetto dato di tale malattia precisa e di scartare le altre", il paradigma delle strutture cerca "un segno unico e centrale" (Ibid., pp. 182-183) in cui si riserva tutto intero un rapporto totale al mondo, una figura dell’esistenza umana. In tal senso, la semiologia viene fagocitata dall’ermeneutica, non solo perché il messaggio segnico tende a coincidere con il codice ermeneutico dato dalla struttura psicopatologica, ma anche perché la psicopatologia diviene un’ermeneutica della condizione umana, volta a restituirne le possibilità di donazione di senso. La semiologia perde di autonomia in quanto i segni esprimono il Tutto della struttura di senso, divengono non già una positività da decifrare, ma la manifestazione diretta del Tutto dell’uomo. Lantéri-Laura, che riconosce di essersi formato in questo paradigma, ne dà una valutazione assai sobria, per non dire scettica; innanzitutto, ricorda che il pathos del coglimento immediato delle posizioni di senso a scapito dell’esercizio di decifrazione dei segni mutila irrevocabilmente la psichiatria in quanto clinica:

"La psichiatria (…) deve essere appresa teoricamente e praticamente; questo apprendimento non può iniziare che in situazioni concrete, in cui si colgano, ad esempio, le differenze tra la fuga delle idee ed i disturbi del corso del pensiero. La posizione strutturale (…) non favorisce la formazione clinica, che non può evitare di passare per una familiarizzazione progressiva con i segni, le sindromi e le malattie" (Ibid., p. 193).

Ancora una volta, è la semiologia in quanto composta da relazioni differenziali tra un numero finito di elementi a fornire un criterio positivo di razionalità ed empiricità (ed anche di trasmissibilità nel corso della formazione) alla pratica clinica. Al contrario, il "tutto dell’uomo" è un modello di totalità indifferenziata, cui corrisponde una modalità semiologia di espressività generalizzata incapace di distinzioni. E questa espressività dipende da un postulato che si sarebbe detto un tempo umanistico (in senso derogatorio):

"Nessuna prova indiscutibile ci garantisce che il tutto dell’uomo sia presente nel minimo dettaglio del suo comportamento (…) l’uso di questa locuzione il tutto dell’uomo presuppone un’antropologia (…) per poter godere della quale dovremo aspettare la discesa della Gerusalemme celeste sulla terra" (Ibid., pp. 195-196).

Il paradigma delle strutture conduce quindi ad un discorso incontrollabile sulla destinazione e l’autenticità dell’uomo, il cui esito è un personalismo a sfondo sempre più o meno religioso. Una volta di più, è la semiologia ad opporre un argine a questo movimento nella misura in cui impedisce di intuire, trascurando la pluralità e l’opacità dei segni, l’espressione di una totalità indifferenziata (in cui proverbialmente tutte le vacche sono nere).

Ripartiamo dunque dalla semiologia in quanto unico principio finora in grado di poter reggere la razionalità della conoscenza e della pratica psichiatrica:

"Non vi è nulla nella patologia mentale che non fosse prima nella semiologia" (Psychiatrie et connaissance, op. cit., p. 200).

Come si legittima questo primato?

 

"I segni sembrano esistere indubitabilmente e tutto il resto rimane nascosto, senza manifestarsi direttamente (…) è facile vedere e ascoltare la manifestazione dei segni, ma nessuno ha mai visto, né udito e nemmeno intravisto, le sindromi, le malattie mentali, le strutture e tutto il resto (…) La semiotica ha dalla sua i privilegi dell’immanenza e tutto ciò che la psichiatria potrà proporre deve trovare in essa il proprio fondamento, senza di che si parlerà nel vuoto; il trascendente può sembrare prestigioso, ma tutto ciò che ne sappiamo proviene da ciò che se ne mostra nell’immanenza" (Ibid., pp. 200-201).

Fondazione propriamente fenomenologica del primato della clinica, secondo una fenomenologia distante dall’infatuazione per il vissuto e in cui il concreto è immediatamente quello di un’obiettività positiva. La patologia è quindi una razionalizzazione, e la terapeutica un correlativo saper-fare, entrambe radicate in ciò che si mostra nell’immanenza: i segni stessi. Ma ciò non risolve il problema di come sapere cosa sia un segno. Quale codice potrà discriminare, nelle datità positive, tra ciò che è segno di malattia e ciò che non lo è? Lantéri-Laura risponde cercando di ricondurre il codice stesso che permette di obiettivare i segni ad una positività in qualche modo data:

"La semiologia, in psichiatria come altrove in tutta la medicina, si costituisce per buona parte a titolo di eredità e di sapere cumulativo" (Ibid., p. 202),

cosicché la fuga delle idee è ritenuta un segno perché è stata descritta da clinici come V. Magnan e L. Binswanger, di cui la comunità scientifica ha confermato, conservato, tramandato e sviluppato le osservazioni. Se il messaggio è dato nell’immanenza della clinica in atto, il codice che permette di riconoscerlo come messaggio è dato nell’immanenza della storia della clinica, cioè da un corpus di positività analogo a quello costituito dai segni mostrati dalla presenza del malato allo sguardo del medico: è il corpus fissato e trasmesso dalle osservazioni e da tutta la struttura istituzionale del sapere medico. Non possiamo qui sviluppare le implicazioni delle tesi di Lantéri-Laura, che ci sembrano andare in direzione di una "Origine della semiologia" del tutto analoga alla husserliana "Origine della geometria". Basti qui attirare l’attenzione sul tema. Secondo Lantéri-Laura:

"Non esiste semiologia psichiatrica se non si enucleano delle invarianti, identiche, quali che siano le condizioni del contesto e le singolarità del contatto (…) La semiologia psichiatrica non può realizzarsi come tale senza disporre di segni che si ritrovano identici, malgrado le variazioni del contesto in cui essi appaiono e le particolarità del contatto stabilito" (Ibid., p. 207).

Torniamo al problema del codice, cioè della decisione su cosa è segno e cosa non lo è. Risulta valere come segno solo ciò che è invariante: distinguere un segno significa quindi riconoscerlo come unità ideale nella molteplicità delle circostanze e dei contesti. Ma questo riconoscimento non è forse reso possibile come da un apriori dai dispositivi di conservazione, accumulazione e trasmissione del lavoro clinico pregresso? Non sono forse la ratifica storica e la correlativa traslatio a "fissare" l’identità di un segno e quindi a costituirlo come specie ideale riconoscibile? Una descrizione clinica viene fissata e archiviata, e diventa perciò stesso disponibile come un paradigma (in un senso più platonico che kuhniano): cioè può essere riferita, mediante un lavoro di variazioni analogiche, a nuovi casi concreti in contesti differenti. La sua conservazione istituzionale ne fa una riserva virtuale in grado di illuminare per analogia il proseguimento indefinito del lavoro clinico. Sarebbe allora forse possibile scrivere tutta una storia della produzione di queste specie semiologiche.

Come che si possano sviluppare queste suggestioni, vi è ancora un altro carattere della "logica" dei segni clinici elaborata da Lantéri-Laura:

"Nell’insieme della semiologia psichiatrica, ogni segno, malgrado la propria individualità, non resta rigorosamente isolato (…) L’ossessione viene là dove avrebbero potuto arrivare la fobia, l’idea prevalente, l’allucinazione uditiva o l’impulso; tra questi termini vi è un rapporto del tipo a al posto di b, che si può (…) utilmente accostare ai rapporti che i linguisti dopo F. de Saussure chiamano associativi o paradigmatici (…) Ma l’ossessione viene anche con il rituale e forse con certi tratti caratteriali; tra questi termini vi è un rapporto del tipo a con b, che si può (…) utilmente accostare ai rapporti che gli stessi linguisti chiamano sintagmatici" (Ibid., p. 211).

I segni fanno dunque sistema in quanto specie ideali. E qui si ritrova per Lantéri-Laura il tema strutturalista, ma secondo uno strutturalismo razionale — lontano dalle totalità intuitive e indiscriminate della sua versione romantica — capace di distinguere i segni e ricostruirne le combinazioni possibili:

"Lo strutturalismo (…) conosce una versione razionale, in cui gli elementi presi in considerazione sono sempre numerabili e valgono per i loro rapporti diacritici, opposizionali e pertinenti" (Essai sur le paradigmes, op. cit., p. 198).

È a questo strutturalismo che il testo postumo (cui ritorniamo dopo un lungo détour che speriamo l’abbia reso intelligibile) affida il compito di analizzare la semiologia medica e psichiatrica. Lantéri-Laura vi riprende (pp. 238-239) la questione già trattata dei rapporti paradigmatici (sostituzione tra segni) e sintagmatici (attrazione tra segni), che riguarda la manifestazione necessariamente sistematica dei segni stessi, e la articola ad altri principi che, dall’ambito della linguistica strutturale, possono essere trasferiti alla semiologia medico-psichiatrica; ad esempio l’opposizione langue/parole:

"Nella semiologia, l’equivalente della langue è l’insieme del sapere e del saper fare semiotici, in un certo momento delle conoscenze mediche" (p. 237),

quindi l’insieme delle codificazioni che rendono leggibili i segni. Questo insieme è eteroclito: certe parti sono meno sistematizzate di altre, e in generale non si tratta di un insieme organico, da cui l’idea, su cui Lantéri-Laura insiste molto, di epistemologie regionali. L’equivalente della parole è invece "la pratica singolare dell’esame di un paziente particolare", ove si articolano la "parte estrinseca" determinata dalla "situazione rispettiva delle due persone in causa e dalle condizioni stesse di questo esame" e quelle "intrinseca" che è "la messa in opera del sapere e del saper-fare semiotico, l’arte di cercare i segni e di precisarne il valore diagnostico" (Ibidem). Anche l’opposizione tra sincronia e diacronia è ripresa, in quanto l’esame del malato conosce un tempo diagnostico non istantaneo (sincronia), ma dotato di "una certa durata (..) necessaria a fondare la diagnosi positiva e differenziale e precisare il trattamento", un tempo quindi determinato dalle peculiarità già note della conoscenza semiologica; mentre la diacronia corrisponde alla "continuazione dell’impresa terapeutica" (Ibidem) in cui il medico sottopone il malato ad altri esami internamente sincronici. Queste indicazioni in effetti non fanno che riprendere e sistematizzare la fenomenologia dell’atto clinico elaborata da Lantéri-Laura, distinguendovi analiticamente i vari aspetti (sistematicamente coordinati) della semiologia. Più originale è il paragrafo dedicato ad un altro caposaldo della linguistica strutturale, l’arbitraire du signe. Questo principio stabilisce che solo il sistema dei significati e dei significanti decide dell’associazione di un’idea ad una serie sonora o grafica, e che, di per sé, non c’è nessun motivo intrinseco ai termini della relazione per cui all’idea di "cavallo" debba corrispondere la sequenza fonico-grafica c-a-v-a-l-l-o. Una relazione analoga è presente nella semiologia medico-psichatrica? Lantéri-Laura ricorda come in essa si distinguano i segni patognomici o cardinali, che costituiscono a sé soli dei significanti capaci di attestare la presenza di una malattia come loro "significato", da quelli che, polisemici se presenti isolatamente, attestano però una malattia determinata come "significato unico e certo" qualora si presentino congiuntamente (p. 241). Si dà quindi il caso che, in certe semiologie particolarmente sistematiche, come quelle pleuropolmonari e cardiache elaborate dalla Scuola di Parigi,

"ogni significante, isolato o congiunto ad un altro, per passare dalla polisemia alla monosemia, rinvia ad una lesione macroscopica abbastanza semplice (…) che può costituire una sindrome da cui, grazie all’aggiunta di altri significanti (…), potremo passare all’affermazione diagnostica di una malattia (…) il rapporto del significante al significato non è, in questo contesto, affatto arbitrario, ma bensì motivato" (p. 242);

anche nelle semiologie meno sistematiche, come quella delle febbri eruttive — ove "l’insieme dei significanti rinvia ad un significato, e questo significato costituisce allora un’affermazione diagnostica differenziale, come il morbillo piuttosto che la scarlattina, senza che nessuno dei tratti semiotici, preso isolatamente, goda seriamente di una patogenesi propria" (pp. 242-243), la motivazione dei segni resta costante, sebbene i modi di analizzarli siano molteplici e complessi. In altri termini, l’analisi strutturale permette di comprendere in modo fine l’articolazione dei tratti semiologici, ma questi, in medicina, restano sempre non arbitrari: per questo il segno medico non è mai simbolo, ma sempre sintomo, se si accetta la distinzione proposta da Enzo Melandri, per cui è infatti possibile considerare tutte le possibili modalità di rapporto tra segno e designato come casi intermedi tra due modalità estreme:

"La "sintomatologica", in cui il segno è causalmente connesso con il suo designato; e la "simbolica", in cui ciò non avviene affatto" (E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Bologna, Il Mulino, 1968; Macerata, Quodlibet, 2002, p. 57).

Il sintomo medico rientra ovviamente in questa definizione teorica di sintomo. D’altronde, il radicamento in una realtà primaria e irriducibile è appunto tutto il valore che Lantéri-Laura trova nella semiologia come nucleo della clinica. L’analisi strutturale deve servire a distinguere e decifrare meglio questa realtà, non a dissolverla in un Sistema di rinvii simbolici autofondantisi. Se lo strutturalismo permette di discernere delle totalità articolate di distinzioni, l’approccio fenomenologico deve ricordare che non tutto è semiotizzabile, o non lo è allo stesso modo, e che i dati fattuali conoscono delle zone di indeterminatezza o di opacità tra cui non è possibile gettare i ponti del rinvio simbolico all’interno di un sistema, che non si articolano in una totalità interamente razionalizzata pur continuando ad imporsi nella pratica di decifrazione e distinzione dei segni:

"Abbiamo compreso che non è affatto ragionevole trattare l’insieme della semiologia medica alla stregua di un gruppo completamente sistematizzato di elementi la cui somma costituirebbe la totalità dei segni impiegati in medicina, dimodoché se ne possa stilare il catalogo esaustivo. Siffatto censimento ci pare possibile in ciascuna delle principali specialità, a patto di riconoscere che alcune di esse possono sovrapporsi parzialmente, senza che una sorta di somma delle somme possa venire effettivamente elaborata (…) è per questo che abbiamo dovuto a più riprese impiegare la locuzione di epistemologia regionale, per indicare che se certe parti della medicina possiedono un’organizzazione teorica solida, questa organizzazione resta specifica e non si estende alle organizzazioni delle discipline confinanti" (p. 243).

Questa conclusione non è l’ultima parola di Georges Lantéri-Laura. Il prologo al libro che non vedrà mai la luce si conclude infatti con una professione di fede empirista direttamente ispirata dall’interpretazione husserliana di Hume:

"Il nostro lavoro non può essere condotto che per mezzo di ricerche a posteriori e attraverso un procedimento empirico. Per la verità il nostro empirismo s’ispira meno a F. Bacon, a Th. Hobbes e a J. Locke che a D. Hume (…). Si tratta per noi di riconoscere che né la semiologia, né la medicina, né la psichiatria, potrebbero essere dedotte more geometrico da qualche disciplina a priori, ma da ciò che ci insegna la storia e, in particolare, la storia delle scienze e delle discipline scientifiche, teoriche o applicate" (p. 244).

Un’esigenza di rigore sobria e apparentemente priva di pathos; crediamo tuttavia di aver mostrato che ad essa non è estranea una posizione di resistenza alle tecnologie del potere che si celano dietro le "scienze senza rigore".

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