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François Ansermet - Maria-Grazia Sorrentino, Malaise dans l’institution. Le soignant et son désir, 2 édition, avec une Postface de Paul-Laurent Assoun, Anthropos, Paris, 2007

di Andrea Cavazzini

Riedizione di una ricerca condotta nel 1989, questo libro di uno psicanalista e di una psicoterapeuta (con postfazione di un analista e filosofo che ha dedicato numerosi studi alle implicazioni del testo e dei concetti di Freud) si segnala innanzitutto per il suo carattere composito. Al testo principale, infatti, segue in appendice il progetto di una ricerca empirica sul rapporto "dello psicotico all’istituzione psichiatrica, a partire dalle rappresentazioni prodotte da pazienti e "curanti" (soignants)" (p. 55) — in effetti, si tratta di indagare le relazioni transferenziali all’interno delle istituzioni di cura (soignantes, distinte da asilaires, in cui predomina la finalità reclusiva e securitaria) tra pazienti cronici affetti da psicosi e, appunto, soignants; il passaggio dal riferimento generico alle "rappresentazioni" alla relazione transferenziale — che ovviamente ha un preciso statuto psicanalitico, irriducibile ad ogni microsociologia delle interazioni — viene descritto nei termini di una conversione dello sguardo che sembra mimare un processo analitico: "è solo a partire dall’analisi del posto del desiderio del ricercatore stesso che abbiamo potuto abbandonare il nostro primo progetto, scegliendo di interrogarci (…) sui fenomeni transferenziali quali si dispiegano nelle istituzioni" (ibid.). In questa appendice è presentato un abbozzo di teoria delle istituzioni: seguendo Goffmann, l’istituzione è intesa come "ogni organizzazione che si crea e dura per la realizzazione di un’idea. Segnata da regole imperative e talvolta da rituali impliciti, codificata da un sistema simbolico specifico, l’istituzione si definisce anche attraverso una popolazione di utenti particolari, cui sono esplicitamente proposte certe modalità di vita" (pp. 55-56). Tuttavia, si afferma che quest’analisi "dall’alto" delle istituzioni deve essere ridimensionata rispetto ad un approccio che, restringendo il campo visivo, possa mettere al centro "i tipi di rapporto che possono istituirsi in esse, e soprattutto loro malgrado (…) noi consideriamo l’istituzione anche come risultante dell’insieme degli incontri singolari tra coloro che la costituiscono (…) L’istituzione non è separata dalla storia personale di colui che la utilizza, né dalla storia pubblica che l’ha prodotta. Essa si definisce tanto in base alla sua capacità di trattare l’evento che ha ad oggetto, quanto alle trasformazioni che quest’ultimo può introdurre in essa (…) L’istituzione, con le sue regole, i suoi rituali e le sue funzioni, entra direttamente in risonanza con i soggetti che riunisce" (p. 56). Il riferimento di questi passi è la fenomenologia merleau-pontiana, che dovrebbe opporsi a due concezioni erronee dell’istituzione: quella risalente a Durkheim, per cui l’istituzione è una cosa, "una costrizione esterna, o una norma obiettiva", e quella risalente a G. Tarde, per cui essa sarebbe costituita dalla "somma delle rappresentazioni immaginarie dei soggetti che la compongono", istanza "esclusivamente immaginaria, senza realtà oggettiva" (p. 57). Merleau-Ponty aprirebbe la via ad un "approccio interpretativo" in grado di comprendere "la condizione di emergenza del senso del fenomeno istituzionale" (ibid.). Tuttavia, vi è qui una strana dissonanza tra il riferimento merleaupontiano e quello psicanalitico, freudiano e lacaniano (sia Freud e Lacan sono citati tra due citazioni di Merleau-Ponty), al punto che il passo immediatamente precedente a quello in cui si fa riferimento all’emergenza del senso recita così: "Vorremmo piuttosto vedere l’istituzione come un’istanza in cui si annodano dei vincoli oggettivi ed immaginari. È così che il nostro interesse vuole rivolgersi al significato simbolico dell’istituzione, il cui contenuto oggettivabile si attualizza solo tramite un processo di interiorizzazione" (ibid.). Questo strano mélange di fenomenologia del mondo-della-vita e di concettualità psicanalitica si fonda su di un tratto comune dei due approcci: entrambi cercano di evitare di abbracciare il punto di vista dell’istituzione su se stessa, della totalizzazione che essa vorrebbe essere, per collocarsi nei punti in cui essa, rifrangendosi in un soggetto singolare, mostra la propria contingenza. Ma nei due casi si tratta di un gesto ben differente: in un’ottica psicanalitica, non si tratta certo di ricondurre il non-senso dell’istituzione al senso vivente dell’interazione intersoggettiva, da cui essa "emerge" per poi sclerotizzarsi in un automatismo mortifero — al contrario, la psicanalisi non può vedere nell’istituzione, nei suoi automatismi e nella sua "totalità", altro che un troppo-di-senso, una pienezza eccessiva (ed illusoria — nel preciso senso per cui Freud ritiene la religione illusoria) che tende a distogliere dalle défaillances del senso che si manifestano nei soggetti, in particolare in quelli psicotici, i quali divengono perciò stesso il perno su cui l’istituzione costruisce la propria economia libidinale e, al tempo stesso, lo scoglio che di questa rivela la fragilità. La manifestazione, nei soggetti, dell’estrema derelizione, della follia, del delirio, dell’assenza del senso - di tutto ciò che il discorso freudiano riconduce all’ostinato lavorìo del Todestrieb — è quindi il luogo da cui il discorso dell’istituzione può venir "preso alle spalle" e smascherato come fondato su altro da ciò che dice o vorrebbe dire; ma questo luogo non ha nulla in comune con la Vita intersoggettiva in cui il senso circolerebbe allo stato puro, non è un più-di-Vita rispetto all’autonomizzazione delle strutture istituzionali, ma appunto lo spazio di una finitudine essenziale, di un vuoto del soggetto, di un’esposizione alla morte che proprio l’istituzione cerca di occultare con una valorizzazione iperbolica della vita, o della vitalità, quindi della buona vita e del benessere, da preservare attraverso la cura — in senso medico (soigner), ma anche nel senso di prendersi-cura (se soucier), di badare ad un soggetto concepito come il bersaglio di un perpetuo ed onnicomprensivo maternage. È questo aspetto che emerge dai capitoli del libro — i quali in effetti sostituiscono interamente la ricerca progettata con un discorso psicanalitico sulle istituzioni — ed è esplicitato dal testo di Assoun. Prima di passare a quest’ultimo, però, dobbiamo chiederci la ragione dell’instabile amalgama tra fenomenologia intersoggettiva e discorso freudiano nel testo di Ansermet-Sorrentino. In realtà, la sovrapposizione tra psicanalisi e forme di teoria della soggettività "concreta" è un’"ideologia spontanea" estremamente diffusa tra gli psicanalisti, e gli psichiatri o psicoterapeuti di formazione analitica, che partecipano del recente e massiccio investimento della psicanalisi nel campo politico e nella critica social-culturale: di fronte alla tendenza a marginalizzare la psicanalisi, le psicoterapie, la psichiatria "classica" e la psicologia clinica (tutte le pratiche e i saperi clinici che Elisabeth Roudinesco ascrive alla famiglia della "psichiatria dinamica" — rimandiamo al nostro articolo Il Campo Psy e la Francia nella sezione "Epistemologia e Storia" di questa stessa rivista), in favore di approcci cognitivo-comportamentali, o bio-farmacologici, che a malapena nascondono la loro diretta funzionalità rieducativa, adattativi e repressiva, la reazione spontanea di molti "resistenti" a questo asservimento delle pratiche psy sostenuto da tutto l’apparato di Stato francese è di rivolgersi a filosofie dell’azione, dell’intersoggettività, o del senso vissuto, senza accorgersi di quanto il discorso psicanalitico destabilizzi le categorie portanti di questi discorsi più rassicuranti (e più spendibili ideologicamente tra intellettuali e operatori sociali). Prova di ciò è la prefazione all’edizione del 2007, che fa riferimento esplicito alla "rivolta" degli psy contro le politiche governamentali di cui sopra: in essa, si parla, a giusto titolo, di un’istituzione psichiatrica in preda a norme standardizzate, retta dalle tecniche della santé publique, in cui il dramma soggettivo si trova occultato "dietro categorie prestabilite, mediche o economiche, a partire da cui si localizzano i disturbi presentati dal paziente e si decide del suo destino"; in cui, quindi, la "gestione razionalizzata (…) non lascia più spazio alla singolarità" (p. VII). Questa diagnosi, espressa nei toni della Kulturkritik post-heideggeriana che sembra esser divenuta il mood della politicizzazione della psicanalisi francese, permette sicuramente di cogliere degli aspetti importanti delle mutazioni attuali dell’istituzione psichiatrica: la perdita delle "funzioni terapeutiche dell’istituzione" in favore di una logica riadattativa (alle esigenze economiche e sociali) o peggio punitiva e segregativa; l’eclissi del "sapere classico della psichiatria" in favore di tecniche empiriche di reclusione, controllo e riadattamento, senza impegno concettuale né impianto sistematico (vera e propria regressione ai lati più oscuri del traitement moral esaltato da teorici neo-liberali e poi neo-conservatori come Marcel Gauchet); oblio della "clinica come metodo di pensiero" (ibid.), per cui lo sguardo che cerca di risalire alle strutture psicopatologiche partendo dai casi, illuminando così il normale a partire dal patologico, è sostituito da un approccio che classifica le anomalie partendo da una definizione a priori dello psichismo "normale" (in genere sulla base di una psicologia cognitiva immaginaria in cui i comportamenti normali, e normativi, sono definiti socialdarwinisticamente in base al loro "adattamento" alle condizioni di vita). Nondimeno, contro tutto ciò, non è un po’ troppo facile invocare l’implicazione del "soggetto nell’istituzione" (ibid.), secondo la più vieta retorica di un umanesimo liberale nutrito di una relazione immaginaria alla pienezza del senso di cui il soggetto sarebbe portatore? Non è un caso — ed è anzi un sintomo di una congiuntura storica — che questa prefazione si spinga fino a ritrovare i valori positivi della prise en charge dell’istituzione di cura che il libro, anni prima, analizzava criticamente, arrivando a lamentare la scomparsa dell’"oblatività", la componente pulsionale di devozione gratuita e disinteressata che l’introduzione della psicanalisi in Francia (operata da cattolici non lontani dal pétainismo e dall’Action française) aveva elevato a stadio definitivo della maturazione dell’Io (e che Lacan stigmatizzava come somma deformazione ideologica di una psicanalisi sottomessa ad esigenze di ordine sociale e morale). Nei capitoli che formano il corpo centrale del libro, infatti, l’oblatività, in quanto materiale pulsionale alla base della "cura" come atteggiamento soggettivo è appunto ricondotta alla cancellazione della pulsione di morte operata dall’istituzione, e messa in crisi dall’insistenza traumatica del sintomo psicotico. Ci si deve intendere infatti sulla nozione di "singolarità" clinica. Essa non rimanda all’idea di una pienezza dell’individualità, di un’armonia della personalità nel suo libero dispiegamento. La psicosi infatti attinge il suo potere traumatico al fatto di manifestare uno strato dell’essere precedente, e restio, all’individuazione; nella formulazione lacaniana — momento cruciale dello spostamento dell’asse psicanalitico dalle nevrosi alle psicosi, e quindi massimo punto di avvicinamento, e in pari tempo di distanza, dell’analisi alla psichiatria classica, e attraverso di essa ai temi della cronicità, della reclusione e dell’istituzione — lo psicotico si trova in qualche modo all’esterno dell’ordine simbolico in cui si compie l’individuazione: egli porta le ferite di un processo individuante che in qualche modo è "andato storto". Nessun umanesimo della Lebenswelt, dell’azione o della persona può quindi essere idoneo a cogliere questo genere di singolarità che conserva in sé l’eco di una dimensione posta aldilà delle frontiere dell’ominazione.

Questo equivoco, in cui la congiuntura storica e politica sovradetermina la crisi teorica di autodefinizione dell’analisi e di tutta la psichiatria dinamica, è, nello stesso libro, discretamente congedato dalla postfazione di Paul-Laurent Assoun, che prende le mosse dal rapporto di Freud alle istituzioni di cura, e quindi degli psicotici. Assoun constata che "questa coppia dell’istituzione e della psicosi (…) brilla, nel fondatore della psicanalisi, per la sua assenza" (p. 73). Freud sembra interessato ad un soggetto, il nevrotico, che si presenta allo stato isolato, immerso in una quotidianità difficile ma ordinaria, non facendo parte il nevrotico di una "popolazione psichiatrica" stabilmente identificabile come tale (e come tale isolata nella quotidianità costruita da istituzioni specifiche). Nel Disagio della civiltà avremmo quindi un "disagio" diffuso e non fissato in istituzioni determinate; al contrario, in Psicologia delle masse e analisi dell’io, si avrebbe "uno studio delle istituzioni sociali che tace sulle istituzioni propriamente terapeutiche" (p. 75). In compenso, Freud tratta delle istituzioni di cura negli scritti sul trattamento analitico, in particolar modo sul transfert — e una delle acquisizioni più interessanti di questa congiuntura di politicizzazione del mondo psy francese è appunto la "riscoperta" del rapporto problematico che l’invenzione freudiana intrattiene con le istituzioni, quelle psichiatriche, mediche, universitarie, certo, ma anche con quelle che essa stessa ha in qualche modo prodotto. Si tratta comunque per Freud di analizzare le istituzioni di cura — considerate rivali della psicanalisi — come fondate su di una dinamica "economica", pulsionale, che comporta una maniera specifica, e potenzialmente perversa, di gestire il transfert. Ciò che vuol dire ancora straniarsi dal punto di vista dell’istituzione su se stessa, ma in modo molto diverso dalla dialettica merleaupontiana dell’istituzione e dell’intersoggettività, cioè riconducendo l’istituzione al dispositivo pulsionale che la regge. Ora, questo dispositivo si fonda su di una contraddizione agente al livello del transfert, in modo tale da renderlo al tempo stesso incompiuto, se non impensabile e indicibile, e, proprio perciò, selvaggio e incontrollabile. In altri termini, la meccanica degli établissements de soin oscilla tra lo "scopo terapeutico — che la obbliga a trattenere il paziente, quindi a limitare gli ostacoli che potrebbero provocare, assieme ad una reazione negativa, la fuga del paziente o il fallimento della terapia — e la sua grande continuità con la vita sociale, che esige l’occultamento della componente transferenziale nel suo valore troppo erotico" (p. 76). Dunque, l’istituzione isola il paziente dalla vita sociale, legandolo a sé con un transfert positivo dell’ordine della Verliebtheit che dovrebbe trattenerlo in uno spazio autonomo e conchiuso, ma, al tempo stesso, in questo spazio estraniato si riproduce la rimozione della dinamica pulsionale che caratterizza i rapporti sociali ordinari. Il paziente è tenuto lontano dalla vita ordinaria, ma non alfine di affrontare e liquidare i propri conflitti, bensì per trovarsi proiettato in un attutimento ancora maggiore di essi. Donde il duplice contrasto dell’istituzione con la clinica analitica: "Il transfert deve essere positivante per legare il soggetto all’istituzione — donde la sua diffidenza verso qualsiasi negatività transferenziale — e deve produrre un effetto di occultamento sulla realtà degli affetti del paziente, riproducendo l’effetto di repressione inerente al sociale. Lo spazio analitico in compenso permetterebbe di conferire tutto il suo vigore alla negatività transferenziale (…) Esso andrebbe radicalmente aldilà di questa esigenza di occultamento inerente al sociale e ai suoi modi di riproduzione istituzionali" (p. 77). Questa logica della suggestione, della seduzione, che l’istituzione mette in opera risponde, secondo Freud, allo scopo — con cui la psicanalisi ha rotto — di ottenere successi rapidi e rapidamente verificabili: "lo scopo della rinormalizzazione sociale esige un compromesso con l’esigenza di verità" (ibid.). in altri termini, l’istituzione ammicca al principio di piacere del paziente, tende a "viziarlo" "al contrario della psicanalisi che dovrebbe farlo rotto all’insoddisfazione (l’endurcir à l’insatisfaction)" (ibid.). In breve, l’istituzione di cura — anche quelle analitiche o influenzate dall’analisi, secondo Freud, qualora dovessero anteporre l’evidenza dei risultati al confronto con la verità (e Freud suggerisce che appunto ciò è la tendenza spontanea di ogni istituzione…) — impedisce al paziente di passare per la castrazione e per la conseguente iscrizione nel simbolico da cui il soggetto ottiene la propria autonomia. Assoun parla di una "tendenza anaclitica che struttura il rapporto del paziente all’istituzione", una spinta a bersagliare il soggetto con un costante maternage: "È come se, tra l’istituzione e lo psicotico, prendesse forma la Madre (…) Vi sarebbe (…) un tentativo fondamentale dell’istituzione per essere di nuovo la Madre (…) essa inserisce certo un cuneo tra il paziente e questa relazione materna originaria, ma, quel cuneo, forse essa stessa aspira a toglierlo per realizzarsi in quanto Madre" (p. 80). E poiché l’ambivalenza dell’istituzione si articola alla contraddittorietà ingovernabile di un transfert al tempo stesso esaltato e reso invisibile, essa deve incontrare — traumaticamente — lo psicotico: "La vocazione dello psicotico è di mettere in crisi il transfert. Il crollo del riferimento paterno (per i lacaniani si tratta della "metafora paterna" che introduce il soggetto nel simbolico, e non va confusa con la figura sociologica patriarcale. A. C.) si accompagna ad un’impossibilità di fissare un’ambivaleza all’istanza transferenziale (…) è in questo punto che si incontrano, misteriosamente, l’istituzione e lo psicotico: quello di un transfert ad un tempo positivato e ostacolato, esacerbato e frammentato. Lo psicotico direbbe quindi la verità dell’istituzione, quella di un legame materno onnipotente che tiene stretto il soggetto, significandolo eccessivamente, quindi impedendogli (…) di significarsi" (p. 81). Donde la componente narcisistica dell’istituzione, e dell’atto di cura in quanto tale, sottolineato dai due autori principali: "La lotta contro la sofferenza umana si accompagna ad una soddisfazione narcisistica primaria" (p. 36). Essa è quindi un’illusione umana, come la religione, destinata a velare la realtà di miseria e rinuncia dell’umanità: "L’istituzione di cura (…) è un tentativo tra altri di sfuggire agli assalti della realtà, del tempo e della morte. Essa trova la propria origine in un grande trauma, quello del confronto con la castrazione della madre. Curare, significa cercare di restituire un corpo alla propria completezza immaginaria. Attraverso la cura prodigata, ci si crogiola nell’illusione di poter restaurare un corpo nella propria integrità (…) Questo fantasma può essere quindi ricondotto alla negazione della castrazione. Così, il curante, oltre la regressione narcisistica, potrebbe esser tentato dalla perversione" (p. 37). Forse è appunto questa "perversione" come rischio immanente all’atto di cura a poter illuminare le azioni — apparentemente antitetiche all’ippocratismo — di quei "curanti" (tra cui un ruolo centrale giocarono gli psichiatri) che non hanno indietreggiato di fronte allo sterminio dei malati mentali e delle razze inferiori in nome di un progetto di risanamento, di restituzione all’integrità, del corpo immaginario del Popolo minato dalla degenerescenza — grande fantasma igienista ed eugenista fondato sul legame materno al grande grembo biologico della stirpe e della comunità di sangue. Gli atti di genocidio medicalizzato potrebbero quindi articolarsi ad una "passione della cura", ad una volontà di rendere il corpo collettivo integro e sano: "La passione della cura, che si spinge talvolta fino al furor sanandi, come dice Freud" (p. 36). Questo furor, che si è manifestato nello sterminio delle minacce al grande Corpo ferito, è forse all’opera anche in quelle forme di accanimento terapeutico che consistono nel sequestrare, ad opera dell’istituzione medica, un paziente inerte, talvolta letteralmente tenuto in vita solo dalle cure prodigategli, che proprio perciò risponde perfettamente all’oggetto ideale del maternage assoluto di cui si alimenta il narcisismo del curante — non è un caso se, in queste pratiche, le istituzioni di cura tendano a confondere il proprio punto di vista valoriale e le proprie competenze con quelli di istituzioni religiosi (le quali, in primis la Chiesa cattolica, che non a caso si vuole "Santa Madre", sono specialiste di seduzione e illusione in senso freudiano). Il potere pastorale di "cura" (nel senso di souci) delle anime e dei corpi si innesterebbe quindi su di una matrice pulsionale immanente alle pratiche di cura, e non estranea alle stesse politiche sterminatrici. Se queste sono estrapolazioni che proponiamo al lettore, vogliamo citare ancora Assoun allorché tratta delle articolazioni tra la dialettica freudiana della cura e le strutture sociali: "Il sistema di cura si è trasformato in modo tale da accogliere una vera e propria popolazione — dimodoché la funzione di accoglienza si è dotata di un vero e proprio organo e di regole di standardizzazione. È la conseguenza socioterapeutica di una mutazione dello Stato che è significativamente descritto come curante, Welfare state", attraversato dai movimento pulsionali degli "officianti di un ideale pastorale new look" (p. 79). Dopo la crisi del Welfare state, le trasformazioni in senso autoritario dello Stato (in Francia e altrove) non hanno d’altronde restaurato una funzione paterna e castratrice dell’Autorità — al contrario, ricentrando le strategie di governo sulla funzione (e la retorica) della sicurezza, gli Stati contemporanei sembrano voler sempre più distogliere i loro sujets dall’incontro traumatico con il reale. Da questo punto di vista, la standardizzazione normativa, "mercatista" e adattativa (quando non direttamente segregante) delle pratiche psy sembra essere, più che una rottura con le antiche pratiche dell’accogliemento e della dedizione al paziente, un riaggiustamento di queste che ne conservi i fini adeguandone i mezzi ai rapporti sociali contemporanei.

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