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G. Charbonneau, La situation existentielle des personnes hystériques. Intensité, centralité et figuralité, Paris, Collection Phéno, 2007; tr. it. di A. Ballerini, La situazione esistenziale delle persone isteriche. Intensità, centralità e rappresentazioni figurative, Roma, Fioriti, 2007.

 

Nel corso della storia della psichiatria e soprattutto nei discorsi "archeologici", "genealogici", epistemologici, sociologici che a più riprese ne hanno ripercorso le tappe, l’isteria spicca quale oggetto di un’interrogazione ricorrente. Benché Charcot ne sottolineasse l’esistenza in ogni luogo e in ogni tempo, è a partire dal XIX secolo, l’epoca della medicina positivista e della messa a punto di nuovi criteri e strumenti d’ordine scientifico e clinico, che l’isteria diviene il punto focale di una querelle che si rivela essere la posta in gioco di indagini che, se da un lato si concretizzano nello sforzo di trovare per questa configurazione "patologica" una collocazione nell’ambito della medicina organica oppure della psicopatologia, dall’altra finiscono per superarla in quanto mera connotazione nosologica (cfr. P.-H. Castel La Querelle de l’hystérie, Paris, PUF, 1998). Alla stregua di quella psichiatria che con Janet e paradossalmente con lo stesso Babinski aveva finito per assumerne nel proprio ambito l’eterogeneità rispetto agli altri settori della medicina, l’isteria riflette, nel suo rimandare a qualcosa di "altro" rispetto al sostrato organico o al disturbo funzionale, l’esigenza di tracciare il contorno di una soggettività che tutt’oggi costituisce il motore di qualsiasi speculazione della e sulla psichiatria che non intenda limitarsi ad appiattire le prerogative di quest’ultima a una medicina intesa come scienza degli organi. Così, a prescindere dal paradigma freudiano al quale generalmente si rimanda come alla verità infine svelata dell’enigma delle isteriche di Charcot, l’isteria si rivela essere ancora una volta sì il luogo effimero di una manifestazione, ma di una manifestazione più radicale rispetto alla sua autentica o fasulla adeguazione all’ambito della patologia organica, una manifestazione di carattere epistemologico, culturale, politico…

Negli anni sessanta, Thomas Szasz attribuiva l’impossibilità di decretarne una volta per tutte lo statuto ad una psichiatria "più simile alla religione e alla politica che alla scienza" (cfr. The Myth of Mental Illness, New York, London, Harper & Row Publishers, 1961; nuova ed. 1976; tr. it. di F. Saba Sardi, Il mito della malattia mentale, Milano, Il Saggiatore, 1966; 19742; Spirali, 2003, l. I, cap. 6: Opinioni odierne su isteria e malattia mentale), e Foucault sembrava fargli eco dalle aule del Collège de France allorché la definiva come l’emblema dell’"anti-potere dei folli di fronte al potere psichiatrico" (Le pouvoir psychiatrique: Cours au Collège de France, 1973-1974, sotto la direzione di F. Ewald e A. Fontana, ed. a cura di J. Lagrange, Paris, Gallimard-Seuil, 2003; tr. it. di M. Bertani, Il potere psichiatrico, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 132).

Riletta nel quadro del programma dell’antipsichiatria o nell’ambito di un discorso genealogico teso a individuarla quale tassello emblematico della storia della costituzione dell’"individuo" moderno e della formazione delle "scienze umane", o ancora quale "malattia più indicata per mettere in evidenza le peculiarità pratiche e teoriche che segnalano, nel paesaggio intellettuale e sociale della fine del XIX secolo, l’emergenza di un nuovo paradigma della soggettività" (P.-H. Castel, cit., p. 277, tr. nostra), l’isteria conserva un motivo che ricorre costantemente nella molteplicità di tutte le chiavi di lettura che accompagnano il suo manifestarsi. Se di fronte alle classificazioni nosologiche essa presenta i tratti di un "enigma", è in virtù della sua "eccedenza" rispetto alla positività della medicina, rispetto alla "legalità della clinica" positivista (cfr A. Fontana, L’ultima scena, Prefazione a Tre storie d’isteria, Venezia, Marsilio, 1982; poi in Id., Il vizio occulto, Bologna, Transeuropa, 1989, p. 132). La cifra che emerge come determinante nei diversi tentativi di definire le prerogative di tale manifestazione sarà pertanto la messa in luce di un quesito che, prima ancora che all’isteria, mira al problema più che mai attuale della definizione delle competenze della psichiatria stessa come sapere e come pratica all’incrocio fra indagine storica e ricerca scientifica.

Se è vero che l’isteria come "forma" patologica non può essere separata dal "fondale" storico-politico e culturale nel quale essa "entra in scena" (cfr. A. Fontana, cit., pp. 116 ss. e 131), se è vero, come sottolineava Foucault, che il problema maggiore che l’isteria pone alla psichiatria del XIX secolo "non è un problema di concetti" (Il potere psichiatrico, cit., p. 130), che cosa resta allora da prendere in esame in una psichiatria che si vuole pura indagine scientifica, che ha ormai da tempo rinunciato a meravigliarsi di fronte all’"alone di mistero" di tutti quei "bizzarri e sconcertanti travestimenti"?

Nell’epilogo della sua Histoire de l’hystérie, Étienne Trillat risponde nel modo seguente: una volta "spogliato dei suoi sintomi, all’isterico rimane soltanto se stesso: una personalità isterica", una "sorta di ritratto-robot dell’isterico-tipo" elaborato a partire dalla raccolta di un "certo numero di tratti di personalità" confezionati "per mezzo degli strumenti a vocazione scientifica di cui si è dotata la psicologia attraverso il prisma della teoria psicoanalitica" (Paris, Seghers, 1986; Éditions Frison-Roche, 2006, pp. 212-213). Ma può soddisfarci una simile diagnosi? O non è forse ancora possibile in qualche modo rinvenire nel paradigma della "personalità" la traccia di quel fondo essenzialmente soggettivo nel quale Foucault individuava in ultima analisi quella resistenza che era la controparte necessaria e determinante dell’assoggettamento? Non è forse di quell’"x che si pone come obiezione all’oggettivazione (psicologica o fisiologica)", che "indica il resto ineliminabile dell’impresa trionfante che, dopo la fisica dei classici e la fisiologia di Claude Bernard, intendeva portare a termine la cattura universale del mondo nel progetto decisivo di una psicologia scientifica" (cfr. P.-H. Castel, cit., p. 128) che si tratta, allorché si sposta l’accento dall’enigmaticità dei bizzarri travestimenti dei sintomi somatici alla nozione di "personalità"?

Se abbiamo scelto di soffermarci su questo saggio di Georges Charbonneau è per cercare di rispondere a tale questione. Pur affrontando l’isteria in ottica psicopatologica infatti — e più precisamente nell’ambito di un’indagine generale sulla nevrosi — questa studio antropo-fenomenologico ci appare come un ulteriore volet della storia in gran parte francese di questo "oggetto" psichiatrico che ancora una volta non è analizzato di per se stesso, ma come occasione per una riflessione più ampia sulla psichiatria, sui suoi metodi, sui suoi fini e le sue poste in gioco. Questa che intende presentarsi quale "riconfigurazione radicale" del problema dell’isteria, infatti, non concerne soltanto la specificità concettuale e clinica di quest’ultima, i suoi "rapporti con la sessualità, con il corpo, con il desiderio e una generale rimessa in prospettiva delle relazioni possibili fra questi elementi" (p. 33). Ciò a cui tale riconfigurazione si volge è invece un’interrogazione che tocca il cuore della problematica metodologica che guida la corrente "esistenziale" della psichiatria. E in effetti, com’è d’uopo — binswangerianamente — nelle opere daseinsanalitiche, anche qui ad avere la precedenza è anzitutto un discorso sul metodo. Charbonneau si pone fin da subito secondo un punto di vista "pre-psicologico" che si prefigge di "riconfigurare", "decostruire", "detessere" (ibid.) in primo luogo quello che viene individuato come il paradigma Charcot-Freud, ovvero un modello esplicativo-causale che farebbe dell’isteria tanto la prerogativa esclusiva di una corporeità sessualizzata e declinata al femminile, quanto l’effetto puntuale e tematico di una storicità psicologica individuale e contingente.

L’"inconscio" a cui rimanda questa "forma della presenza" che riconosciamo come "isterica" — secondo Charbonneau — non emerge dunque da uno sfondo eminentemente fisico e pulsionale, ma si rivela essere quel "fondo" fenomenologico che si manifesta paradossalmente nella forma dell’evidenza, e "il cui lavoro non affiora alla coscienza che attraverso i suoi cedimenti, i suoi accenni di dislocazione e più ancora nei suoi fallimenti" (p. 16). Si tratta, in ultima analisi, di una particolare "direzione di senso" del "nostro essere-al-mondo, come lo si avverte quale relazione prepsicologica, aprioristica, a questa totalità che noi siamo" (p. 56). Per questo, in tale prospettiva, la questione dell""autenticità" dell’isteria e dei suoi sintomi, delle sue simulazioni, ovvero quella che il XIX secolo aveva lasciato in eredità ai contemporanei nella foma della querelle, si trova ad essere abolita (p. 6), giacché l’isterico non è nulla di più che la modalità tutta esteriore della sua presenza. "Bisogna guardarsi" — scrive Charbonneau — "dal far dire all’isteria troppe cose" (p. 128) e soffermarsi invece su quelle modalità evidenti e vistose che ne caratterizzano la forma secondo gli assi della spazialità, della temporalità e della relazione intersoggettiva, perché queste sono in ultima analisi le direzioni, le dimensioni essenziali del nostro esistere nel mondo, del nostro abitare in esso.

Questa particolare forma di esistenza, pertanto, e di conseguenza anche la sua analisi, non differiranno nella sostanza da un’indagine antropo-fenomenologica del nostro essere nel mondo in generale: "L’isteria non manifesta niente di ciò che ciascuno è. [...] Chi ciascuno è, non è la sua isteria che ce lo dirà. Noi lo sapremo allorquando questo ciascuno che noi siamo avrà ripreso la guida della sua esistenza" (ibid.). La forma isterica dell’esistere si caratterizzerà allora nei termini di una "sproporzione antropologica" rispetto alla "continuità classica dell’esperienza" (p. 6) — caratteristica discriminante, per Charbonneau, della nevrosi rispetto alla psicosi (cfr. il primo capitolo: Esiste una vera fenomenologia delle nevrosi?) — per analizzare la quale sarà necessario lasciarsi guidare dalle direzioni di senso che è essa stessa a mostrarci. Si tratterà quindi di operare quella che lo psichiatra francese indica come la "riduzione fenomenologica al fenomeno dell’isteria" (p. 39) o "sistematica delle direzioni di senso" (p. 57), ovvero portare alla luce quei parametri che, al di là delle manifestazioni psicologiche contingenti, ci consentano di evidenziare il "fenomeno centrale", la "struttura" di tale modalità esistenziale. Ed è appunto di questi parametri che la parte centrale del saggio tratta.

Essi si riassumono nelle tre figure di un’esperienza del mondo essenzialmente estetica, che l’autore esprime attraverso una "formula topografica": "l’isteria si comprende nella sua presenza troppo vicina al centro, troppo vicina alla intensità, troppo vicina alle rappresentazioni figurative" (p. 45). La "forma di esistenza" isterica andrà pertanto "diagnosticata" secondo questi tre assi: intensità, centralità e figuralità. Il tema dell’intensità si presta particolarmente bene a mettere in evidenza il carattere eminentemente strutturale della prospettiva antropologico-fenomenologica. Nel momento in cui Charbonneau mostra come l’isterico "è saturato di intensità ma si protegge da un sicuro impegno emotivo" (p. 112), egli mostra infatti come l’analisi esistenziale sposti il proprio centro d’interesse dal paradigma psicoanalitico dell’emozione e del suo contenuto a quello della "relazione con le emozioni". Ciò che conta, egli spiega, non è l’emozione in sé, ma la sproporzione, la disorganizzazione che si manifesta nell’esperienza isterica dell’emotività, esperienza che si traduce in un’"intenzione ermeneutica del lirico" votata non alla comprensione ma all’aumento di un’intensità affettiva (cfr. p. 121) che altro non è che il polo "emozionale" di una situazione esistenziale, di una direzione di senso votata alla centralità.

In quest’ottica, l’isteria viene dunque concepita come una patologia dello spazio intersoggettivo o, per usare la terminologia dello psichiatra francese, come una "patologia del rapporto alla cosa collettiva" (p. 53) consistente in un precipitoso "rovesciamento verso il centro" (p. 55) nel quale viene "mancata" l’"abitazione nel mondo" "in tutte le sue possibilità, i suoi contrasti, i suoi molteplici centri possibili" (p. 62). A partire da tale "precipitare "al di qua"" (p. 55) o centralità si chiarisce anche il terzo dei parametri fenomenologici caratteristici dell’isteria, il manierismo, che Charbonneau traduce con il termine figuralità. L’abbandono isterico del mondo comune, cioè del "presente vivo" (p. 78) e delle mutevoli situazioni da esso offerte si manifesta infatti nell’attitudine di chi pretende di "incarnare una totalità in modo figurativo" (p. 46), ovvero la "tipificazione". Essa consiste precisamente nell’incapacità di concepire l’immagine come spazio aperto al riconoscimento delle diverse forme del mondo e della nostra presenza in esso e si traduce nella "determinazione di uno stile e la sua fissazione in una discreta immobilità" (p. 46). Il soggetto manierista è colui che fissa la propria identità in una mera identità di stile, che limita il proprio "investimento da parte dell’ipse" a un’esperienza di ruolo, che "centralizza all’estremo tutte le rappresentazioni, abolendo la possibilità di rappresentazioni non centrali, non archetipiche" (p. 47).

L’isteria di cui parla Charbonneau non ha insomma più nulla in comune con l’enigmaticità neurologica dei sintomi delle malate di Charcot, e nemmeno con la verità sessuale latente nelle manifestazioni psicosomatiche delle pazienti di Freud. Ma soprattutto, essa non rimanda più a un paradigma clinico-ermeneutico teso a leggere nei sintomi manifesti il segno di un altrove d’altra natura rispetto ad essi. L’"isteria generale, quella che si esprime in mille altri aspetti della vita" (p. 37), va ricondotta in ultima analisi a quel fenomeno centrale che è la sproporzione antropologica, sorta di filo conduttore strutturale del quale le manifestazioni singolari, individuali dei sintomi sono soltanto le espressioni contingenti.

Il nucleo epistemologico della lettura proposta dallo psichiatra francese sta tutto qui e si tratta in fondo del nucleo teorico della psichiatria fenomenologica in generale, ovvero di un discorso clinico che coincide in ultima analisi con quegli stessi fondamenti teorici a partire dai quali esso intende affrontare le diverse forme patologiche della presenza. A ben vedere, in effetti, gli elementi che caratterizzano l’isteria in questo saggio sono gli stessi che guidano anche l’analisi di questa forma di esistenza come analisi strutturale della posizione antropologica, ed è per questa ragione che, leggendo i diversi saggi che si richiamano a tale corrente del pensiero psichiatrico — anche qualora essi si presentano come analisi di casi clinici — si ha quasi sempre l’impressione di essere alle prese inequivocabilmente con dei discorsi sul metodo. È quanto emerge anche dalla posizione di Charbonneau, laddove viene detto che "l’analisi dello spazio vissuto ha il merito di proporre delle simmetrie la cui declinazione equivale a un metodo [tient lieu de méthode]" (p. 54; corsivo nostro), ed è questo precisamente che l’autore sottolinea nel momento in cui incita lo psichiatra a superare il paradigma della causalità psicologica mostrando innanzitutto la necessità di cercare un "punto d’appoggio" (p. 4) che lo possa guidare all’"esplicitazione" di quei "fenomeni" che, in fin dei conti, egli ha davanti gli occhi.

Non si tratterà più allora di rapportarsi al vissuto psicopatologico in qualità di ermeneuti intenti a portare alla luce un’eziologia latente ad un tempo generale e puntuale, ma più semplicemente di descrivere quel vissuto secondo le direzioni che è esso stesso a indicare, nel modo più "semplice, meno isterico, meno sofisticato, meno manierato, meno pretenzioso possibile. Vale a dire più misurato, più decentrato, più discreto, più contenuto che possa essere" (p. 6).

In questo modo, se da una parte è innegabile che tale caratterizzazione fenomenologica della "presenza" isterica — ma in fin dei conti di qualsiasi altra patologia letta secondo l’ottica daseinsanalitica — consente a Charbonneau di superare il rischio di quella catalogazione pseudo-psicoanalitica dei "tratti della personalità" a cui alludeva Trillat, dall’altra non possiamo fare a meno di chiederci in che modo il fattore "psicologico", ovvero quella che Binswanger definiva la "storia della vita" individuale possa trovare il proprio spazio in tale quadro. Detto in altri termini: fino a che punto un’analisi della "situazione esistenziale della persona" può permettersi di prescindere da quella "contingenza" che è la storia del soggetto singolo? Se è vero che l’esigenza di "ripensare ciascun contenuto a partire dalle messe in forma globali" si giustifica con la critica che Charbonneau muove a quello che egli definsce il "punto di vista psicologico puro" e l’"interpretativismo elementare che ne consegue" (cfr. nota 1, p. 34), non possiamo evitare tuttavia di restare in un certo modo insoddisfatti di fronte a questa sorta di "tipificazione" fenomenologica nella quale la soggettività storica individuale concreta risulta in ultima analisi pressoché del tutto assente.

Insomma, più che trattare delle "persone isteriche", ci sembra che questo saggio affronti il problema dell’isteria come occasione per un discorso più ampio su alcuni dei "paradigmi" della psichiatria — per dirla con Lantéri-Laura — e più in particolare sul paradigma fenomenologico-strutturale. Ma in questo modo non ritroviamo forse la questione che avevamo abbozzato in apertura circa il legame fra isteria e psichiatria e quindi fra psichiatria e medicina? Nuovamente analizzata come l’emblema di una "sproporzione", di un’eccedenza — "esistenziale" questa volta — rispetto a qualsiasi tentativo di ipostatizzazione determinista di carattere neurologico o psicologico dell’esistere umano, in questa sua veste nuova e ulteriore l’isteria pone l’indice ancora una volta sullo statuto della psichiatria rispetto al resto delle discipline mediche. In virtù dell’enigmatica eccedenza del sintomo isterico, eccedenza di volta in volta risolta in questa o quella teoria — come viene mostrato in modo particolarmente incisivo da P.-H. Castel — la querelle dell’isteria in fin dei conti illustra, sin dal XIX secolo, "uno di quei casi rarissimi in cui si può vedere l’osservabile al momento del suo sorgere" (La Querelle de l’hystérie, cit., p. 9). E non si può forse dire altrettanto della psichiatria, di questa scienza che, volente o nolente, nel corso di tutta la sua storia e ancora oggi mostra "la fragilità di fondo di qualsiasi presa di posizione"? (ibid.). Come già per l’isteria, pertanto, l’epistemologo e lo "storico della scienza" dovranno guardare foucaultianamente alla psichiatria non come all’evolvere dello studio e dell’analisi di un "quadro di fatti", ma "isolare piuttosto una mutazione dello sguardo", giacché in essa "vedere e creare l’oggetto coincidono" (ibid.).

Anche attraverso la fenomenologia dunque, quello psichiatra che nel corso foucaultiano del ’73-74, attraverso l’isteria, scopriva l’eterogeneità della propria disciplina rispetto al discorso nosografico e anatomopatologico della medicina, si trova nuovamente a confronto con il "problema della verità" (Il potere psichiatrico, cit., p. 132), una verità che non è più quella della patologia organica oppure psichica, ma della psichiatria stessa. Forse allora non è vero, come scrive Trillat, che "l’isteria è morta" e "ha portato con sé i propri enigmi nella tomba" (Histoire de l’hystérie, cit., p. 214), giacché questi continuano ad esistere attraverso l’enigma più ampio che è in fin dei conti quello di una "scienza", la psichiatria, impossibilitata a oggettivare una volta per tutte quell’"x" che che le compete, ovvero la soggettività.

 

Elisabetta Basso

elisabetta.basso@free.fr

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