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Rod Coleman, Guarire dal male mentale, Manifestolibri,

maggio 2001

Ci sono libri che maltrattano le nostre certezze. Libri che talvolta passano inosservati perché è più facile smettere di leggerli che accettare di scoprire, attraverso essi, la miopia del nostro modo consueto di guardare il mondo e di orientarci in esso. Guarire dal male mentale (manifestolibri) di Rod Coleman appartiene a questo genere di letture. Due le ragioni: la prima riguarda il tema di cui tratta, la guarigione dalla schizofrenia, un tema scottante e spesso eluso nella ricognizione critica che la psichiatria fa di se stessa e dei propri dispositivi di intervento, nonostante le conquiste della farmacoterapia e la rivoluzionaria trasformazione delle pratiche psichiatriche che è andata imponendosi, a partire dal nostro paese, negli ultimi trent'anni. La seconda concerne la natura in parte autobiografica in parte teorica del testo. Il suo autore, infatti, oggi formatore di operatori di salute mentale, conduttore di gruppi di auto-mutuo aiuto, autore di alcune importanti pubblicazioni sulla deistituzionalizzazione della sofferenza mentale, per oltre un decennio è stato preda di quel male di vivere che la psichiatria chiama "schizofrenia" e che spesso, nei paesi in cui ancora esistono, costringe all'internamento in Ospedale Psichiatrico.Durante quel periodo, ricorda Coleman, "subii circa quaranta sedute di elettroshock, provai quasi tutti i neurolettici sul mercato e mi fu negato qualsiasi intervento psicologico, in numerose occasioni. Malgrado questo regime di trattamento, il "più vigoroso", le voci che sentivo rimanevano virulente come sempre, i farmaci non mi davano alcun sollievo e alla fine la quantità che ne prendevo era così elevata che divenni poco più di uno zombie, uno che vedeva la vita attraverso lo smog indotto da droghe legalizzate... Dovevano passare dieci anni prima che trovassi una via d'uscita dal sistema". Una via d'uscita che è diventata anche la sua possibilità di guarigione, nonostante lo scetticismo che suscita l'anomalo epilogo della sua carriera di malato di mente. Coleman oggi è un testimone straordinario e per nulla indulgente di ciò che accade quando si viene immessi nel circuito psichiatrico, delle inerzie di questo sistema, della sua cecità e del suo accanimento nel precludere la guarigione, anziché renderla possibile. Almeno nel senso del termine inglese"recovery" che il corrispettivo italiano "guarigione" fatica a tradurre. Recovery significa "riaversi", "riprendersi", ripristinare una condizione di appartenenza a se stessi che contraddice drasticamente un semplice "pazientare" farsi "paziente", attendendo passivamente che qualcuno,dall'esterno, dispensi per noi la salute. Un "concetto alieno" in psichiatria, secondo Coleman. Troppo spesso ancora, nel campo delle malattie mentali, la parola guarigione equivale infatti al mantenimento della persona in una "condizione stabilizzata", congelamento dell'aggressività, trattamento farmacologico a tempo indeterminato, permanenza irriducibile nel ruolo di paziente psichiatrico. La guarigione come processo che emancipi progressivamente l'individuo dalla dipendenza dai farmaci e da quella, subdola e capillare quanto la prima, dal sistema di sapere e di potere che la psichiatria incarna, rimane per molti psichiatri del tutto inconcepibile. Ben lontani dal leggere questo esito come prova di un "fallimento della psichiatria", commenta Coleman, i professionisti della salute mentale sono più propensi a ravvisarvi un un limite intrinseco alla patologia di cui si occupano. Ovvero: vi sarebbe una biologia del male mentale, responsabile della sua resistenza al trattamento, della sua vocazione alla cronicità, analogamente a quanto accade per talune patologie fisiche irreversibili che, tuttalpiù, possono essere tenute a bada chimicamente perché non si riacutizzino o non degenerino drasticamente. Poco importa se vere e proprie cause organiche della sofferenza mentale appaiano a tutt'oggi irreperibili, e se un pensiero naturalistico in psichiatria che intenda l'esperienza psicotica come "unità naturale di malattia" non riesca minimamente a dar conto di come " anche i sintomi più radicali e significativi come quelli allucinatori e deliranti, siano così modificabili e camaleonticamente trasformabili, nei contesti ambientali in cui i pazienti vivono e agiscono", come ricorda Eugenio Borgna. Poco importa se gli stessi farmaci, in un trattamento a lungo termine, producano tossicità, dipendenza, spersonalizzazione passando dall'essere strumenti di guarigione all'essere qualcosa da cui si deve guarire. A tutt'oggi anche a fronte di ragguardevoli trasformazioni sintomatiche- quando mutano la qualità del contesto e degli interventi- la riduzione e sospensione del trattamento farmacologico per molti medici rappresentano una strada troppo rischiosa anche se talvolta soltanto alla luce di esperimenti frettolosi in cui prevale l'equivoco tra crisi di astinenza da farmaci e ricaduta nella patologia acuta. Sebbene la ricerca dimostri, come sottolinea Coleman, che soltanto un 33% di persone ottiene grandi benefici dal trattamento farmacologico e, grazie ad esso, la possibilità di fare a meno dell'assistenza psichiatrica, mentre circa il 66% delle persone ne trae benefici limitati o non ne trae alcuno, quasi nessun medico è disposto a considerarli dispositivi transitori della cura. Lo conferma il fatto che la persistenza di un gran numero di individui in una condizione attivamente psicotica, a dispetto di massicce e prolungate terapie farmacologiche, non è comunque sufficiente a ridimensionarne il ricorso; appare perciò lecito chiedersi se che la vera posta in gioco di questa intransigenza non sia il torpore accomodante e rassegnato che caratterizza ogni buon paziente psichiatrico. Più che un proposito terapeutico, dunque, una strategia di controllo sociale, un'antidoto alla paura e allo sgomento che "il male mentale", con i suoi continui oltraggi alla comunicazione e al comune buon senso, suscita in coloro che la osservano. Accettando di integrare punti di vista estranei al naturalismo medico (relazionale, sociale, antropologico, fenomenologico), soltanto a patto di non venirne in alcun modo contaminato, lo sguardo che medicalizza la follia, soppianta la possibilità di incontrare chi vi si trova imprigionato. Quello che Coleman racconta della sua drammatica storia psichiatrica è una catena ininterrotta di evitamenti, un gioco al massacro in cui lo stordimento di un dolore che travolge la trama e il senso della propria presenza al mondo si commuta in definitiva perdita del mondo, deriva estrema di una soggettività che transita nel mondo delle cose, trasformandosi in errore biologico, cieca e ineluttabile ipoteca alla padronanza di sé, alla possibilità di scelta, al diritto di rappresentare se stessi. Soltanto la graniticità di quella riserva concettuale, dunque, giustifica la reticenza della psichiatria a sbarazzarsi dei farmaci, anche quando non riescono a portare alcun giovamento alla sofferenza. Per questo l'accompagnamento alla disassuefazione è una via raramente intrapresa e il più delle volte, prematuramente abbandonata. Nel suo Toxic Psychiatry (St.Martin's Press, New York 1991), Breggin , citato da Coleman, afferma: "A causa dei problemi di astinenza, i pazienti dovrebbero cercare di smettere con i farmaci mentre ricevono supporto emotivo e sociale da altri e con la supervisione di qualcuno a conoscenza del processo. Si dovrebbe comprendere che i sintomi di astinenza possono incoraggiare il medico e il paziente a riprendere il farmaco prematuramente, mentre ciò di cui il paziente ha realmente bisogno è il tempo di guarire dal farmaco". "Quanto è frequente", si chiede Coleman " che i dottori spieghino ai loro pazienti che gli effetti che provano, quando sospendono i farmaci, non sono dovuti a una ricaduta ma all'astinenza da farmaco? Al peggio, questo è un altro esempio della cattiva informazione che i professional danno a utenti e parenti; al meglio , dimostra quanto siano mal informati essi stessi". La testimonianza di Coleman sulla propria battaglia per disassuefarsi dalla dipendenza farmacologica ( resa tanto più drammatica per il rifiuto del suo psichiatra di sostenerlo in una sospensione graduale) non potrebbe essere più eloquente a questo proposito. "A parte il sudore e i brividi, il malessere e l'insonnia, sentivo ancora più voci del solito. Avevo anche visioni (esperienza mai provata prima), allucinazioni centrate sul corpo (un'altra cosa nuova) e i miei pensieri divennero disordinati e confusi. Aggiungete una paranoia crescente e potete ben vedere che- durante tutto il processo di astinenza-ero un perfetto candidato per un ricovero motivato da "ricaduta dovuta a non -compliance. Dopo quattro settimane le mie condizioni velocemente migliorarono, ed entro tre settimane ero tornato più o meno ad essere quello di prima( il malato di prima)". In un dedalo di percorsi sbarrati, di pratiche organizzate intorno alla paura e al bisogno di rispondere al mandato d'ordine che la società continua ad assegnare al sistema psichiatrico, la psichiatria, dice Coleman, continua a produrre istituzione, anche fuori dal manicomio. Perché l'istituzione "non è mai stata un edificio, l'istituzione è il potere della psichiatria", come ben videro Basaglia e Foucault. Un potere che traguarda i muri dell'Ospedale Psichiatrico, che riesce a riprodursi attraverso la psichiatria "territoriale" articolando evidenze e automatismi, finendo per disporre della vita del "malato di mente" al punto da carpirne la compiacenza e la rinuncia alla scelta. Un potere che si autoconvalida generando i parametri di legittimità che dovrebbero sostenerlo. "Le istituzioni in quanto forze stabilizzanti che rendono quasi automatici pensieri, decisioni e azioni, delimitano l'insicuro. Questa è la loro natura. Loro compito è domesticare la paura, renderne possibile la metamorfosi e, con essa, la trasformazione del disordine in ordine.", ricorda Roberto Escobar. La paura finisce sempre per rieditare confini; per legittimare persecuzioni. In fondo, anche fuori dai manicomi, il "paziente psichiatrico"è pur sempre l'oggetto di un sapere / potere che non ha bisogno di incontrarlo né di interpellarlo per trovare ragione e senso al proprio operare. Un'incontro mancato di cui non sembrano accorgersi la maggior parte di coloro che si occupano di salute mentale. Come se una comune deformazione percettiva oscurasse la distanza che separa chi guarda la sofferenza da chi la vive, rendendo inavvertito questo stesso oscuramento. Ci si dovrebbe chiedere, allora, se ciò che impedisce l'accesso al dolore dell'altro non sia proprio quella mutilazione programmatica del registro emotivo che il nostro mondo continua a prescriverci e che la psichiatria raramente avverte come ipoteca strutturale al proprio operato. Ci si dovrebbe interrogare su che cosa spinga a perseguire la cancellazione della maggior parte dei segni e delle figure della sofferenza psicotica e cosa produca la consegna, fatta al paziente, di rinunciarvi comunque. Si dovrebbe riflettere sul bisogno di misconoscere le implicazioni emotive del contatto con il male mentale: la lettura di questo libro ci impone queste questioni. Rammentandoci, anche, che su questa scena non si da guarigione, a meno che guarigione e cronicità non si attribuiscano ad aree di significato tanto prossime da confondersi a vicenda. La guarigione comincia dove l'istituzione può concedersi di cancellarsi, cancellando presunzioni e preclusioni, diffondendo informazione, ricucendo, insieme agli utenti, il senso e la realtà del dolore, il senso e la realtà della guarigione. La guarigione è un viaggio, dice Coleman. Un viaggio che non può essere intrapreso da soli, né, tantomeno, con qualcuno che preordini il percorso, tracciando mappe e passaggi obbligati. La guarigione è un costrutto assolutamente personale che però implica la presenza degli altri, la loro testimonianza, la loro comprensione, la loro consuetudine ad una analoga esperienza del dolore. Ad essere in gioco in questa vicenda, infatti, non è un sé eroico, interamente autosufficiente, ma quel sé emotivo e psicologico che non può esistere in isolamento: "il sé è fatto di una serie di relazioni complesse con gli altri e lo si può misurare solo attraverso l'impatto che abbiamo sugli altri in termini di emozioni, e attraverso l'effetto che gli altri hanno, di ritorno, sulle nostre emozioni". Per l'autore,non a caso, la recovery comincia con la sua partecipazione a un gruppo di "uditori di voci". Un gruppo di persone che imparano ad aprire la scena del proprio mondo interno senza rischiare di vedersela tacciata di irrealtà ( le voci sono reali qui, presenze a cui è necessario prestare ascolto, presenze da fronteggiare non qualcosa di cui sbarazzarsi in fretta e incondizionatamente), che possono metterla in comune rompendo il muro di una solitudine che saccheggia l'esperienza svuotandola fino ad annientarla. Un gruppo in cui il ruolo dell'operatore e quello dell'utente si cancellano per ridefinirsi a vicenda: non più dispensatore di salute l'uno, paziente l'altro, ma compagni di strada in un processo che restituisce il mondo e la comunità alla storia delle persone, e questa storia a quel mondo. Ridistribuendo tra di essi responsabilità e opportunità, senza per questo negare al dolore il diritto di cittadinanza che gli è proprio, nelle nostre vite e nel nostro mondo. "Tra gli aborigeni", ricorda Coleman, "quando qualcuno dà segni di follia, l'intera tribù si riunisce per discutere che cosa essa ha fatto perché quella persona sia diventata folle. Potete immaginare che ciò accada nelle nostre culture?"

Anna Poma

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