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Bioetica e antidepressivi

Recensione all’ultimo numero della rivista

"Transcultural Psychiatry", vol. 39, n.3, settembre 2002 (pp.267-415)

L’ultimo numero della rivista canadese Transcultural Psychiatry (Caporedattore L.J. Kirmayer, McGill University, Montréal, tc.psych@mcgill.ca (della quale esiste anche una versione elettronica: www.sagepublications.com/ejournals ) è dedicata al tema: bioetica e antidepressivi.

L’ articolo di apertura (From Vastation to Prozac Nation) è di Alice Bullard, professore associato di "Storia Intellettuale" Presso il Georgia Institute of Technology di Atalanta (Georgia, USA).

Traduco il riassunto:

"Le vittime dei disturbi depressivi maggiori trovano spesso che questa malattia modella il loro senso del sé in modo profondo e duraturo. Come esattamente gli individui sperimentino e diano un significato alla loro depressione, tuttavia, varia attraverso la storia e le culture. Questo articolo considera due rivoluzioni nella concettualizzazione della depressione: quella moderna della fine dell’800 che produsse il passaggio da una prospettiva religiosa a quella psicologica; e quella postmoderna, che sostituisce la prospettiva psicologica con quella biochimica.

Nella storia, la cultura occidentale ha valorizzato la malinconia per le sue virtù poetiche, artistiche e filosofiche. La coscienza depressa è stata spesso vista come sorgente di genio o di verità ispirata.

Ma che accade, nei fatti, se essa esprime prima di tutto un’instabilità biochimica? Cosa può o cosa dovrebbe fare il depresso della sua coscienza biochimicamente instabile? Che tipo di sé emerge dalla lettura biochimica della depressione?

Questo articolo sostiene che il sé psicologico conservava dei legami significativi con l’anima divina, e che per questo la depressione occupava un posto centrale nel senso e nella vivacità culturale. La rivoluzione biochimica isola il sé dalle narrative della depressione. Questa libertà radicale sbocca in aree inesplorate per l’elaborazione del sé. Resta da vedere se gli individui faranno propria questa libertà per creare nuove narrative e in cosa eventualmente esse consistano."

L’articolo percorre i vari significati che storicamente sono stati dati all’esperienza depressiva. Fino all’inizio del ‘900 era considerata soprattutto in relazione a Dio (peccato e colpa), ciò che faceva fiorire interpretazioni mistiche e spirituali dei sintomi; oppure, poiché gli individui si identificavano prima di tutto attraverso le relazioni piuttosto che come individui autonomi, spesso si riteneva che la depressione fosse causata da un intervento esterno (stregoneria o malocchio).

Non molto diversamente, dopo la II Guerra Mondiale in USA le narrazioni di rapporti con madri persecutorie, frequenti nella cultura psicoanalitica, spostavano la responsabilità fuori dal sé.

"Si potrebbe quindi supporre che le spiegazioni psicoanalitiche siano in generale un’altra forma di spiegazioni ‘sociali’, nelle quali le forze sociali sono interiorizzate e la fede o il sentimento di essere un individuo autonomo veniva indebolito e rimosso dalla centralità del sé" (p. 270).

Ciò costringeva a produrre narrative, e cioè a fare un lavoro che rimetteva in causa la propria relazione con Dio, oppure con altri, o con le relazioni parentali significative.

L’Autrice dà numerosi esempi di queste figure prendendoli dalla letteratura specialistica e non, e descrive nei dettagli i passaggi dal sé teologico a quello psicologico e poi a quello biochimico, proprio dei "sé postmoderni".

Citando la letteratura (soprattutto quella in cui sono raccontate esperienze soggettive da parte di profani) cerca di descrivere come i nuovi pazienti sistemino, nella loro storia e nella loro cosmovisione, gli effetti di sostanze come il Prozac. E anche, a quale tipo di strategia antropopoietica e terapeutica l’uso di queste sostanze rinvii: "Grazie all’influenza del Prozac, è divenuto possibile o più probabilmente cosigliabile costituire il sé non attraverso il ricordare, ma attraverso il dimenticare, attraverso l’omissione sistematica del vuoto, dell’abisso, dell’oscurità delle ombre della depressione." (p. 278)

Citando il best-seller Listening to Prozac di P. Kramer (1993), l’Autrice prende in considerazione le apparenti dimostrazioni che il Prozac porta a un regolamento fine dell’umore e del temperamento, producendo in effetti una "alternanza biochimica" della personalità.

"Un paziente, prima eccessivamente serio, divenne flessibile in modo inedito e spensierato; un altro paziente, cronicamente distimico, divenne vivace e socialmente vincente; una donna, madre compulsiva e moglie brontolona, improvvisamente sviluppò nuova energia, fiducia e coraggio durante l’assunzione del farmaco." (p. 179)

Ma ciò comporta qualche interrogativo "sulle implicazioni inquietanti di una industria farmaceutica che ora confeziona su misura personalità di successo nel mondo americano degli affari. Brillante, energico, non troppo serio, non incline a profondi pensieri; queste qualità sono valorizzate nella nostra era di capitalismo altamente tecnologico e questi farmaci sembrano in grado di produrre un maggior numero di persone di questo modello" (p. 281).

Allora, continua l’Autrice, il sé che emerge dalla depressione attraverso l’uso del Prozac è un sé mistificato al posto di quello mistico che emergeva da altri approcci.

"Per uscire dalla trappola della depressione è necessario un punto su cui far leva. Ieri, questo punto era offerto dalle religioni e dalle narrative [come quelle psicodinamiche o psicoanalitiche, NdT]. Oggi è offerto dai nuovi farmaci antidepressivi.

Ma vi sono differenze cruciali in ciò che risulta da processi che usano leve così diverse. Le narrative forniscono senso. Le religioni offrono spiegazioni. Esse danno inspirazione, sostegno morale e conforto. Ci confermano che questo è un mondo abitato dal divino e che la vita umana e la sofferenza trovano il loro senso in relazione ad esso.

Il farmaco offre un’isoletta nell’abisso; un pezzetto di terra nel baratro profondo in cui sta scomparendo la nostra anima. Adagio adagio, questo pezzetto di terra cresce fino a che ricopre l’abisso: lo copre o lo colma? Che succede dell’abisso? E’ semplicemente nascosto dietro una facciata? Questa terra cresciuta grazie a un farmaco, può essere realtà? E’ un mondo reale capace si ispirarci e che noi rispettiamo?

Il Prozac non ci dà risposte. Sommerge questi interrogativi nella semplice lotta che è la vita quotidiana. Per chi prende il Prozac la vita in un certo senso è nuova e innocente: né buona, né cattiva: semplicemente "è". Posto di fronte alla spiegazione causale chimica, il depresso improvvisamente perde la rete narrativa nella quale il suo sé lacerato è sospeso. Questa perdita può essere enorme" (p. 282).

L’Autrice continua citando degli esempi delle narrative proprie alla depressione biochimica, e conclude con alcune domande circa ciò che diviene la coscienza del sé nella depressione postmoderna.

Ritengo questo articolo interessante tanto da segnalarlo perché analizza in una prospettiva storica i complessi rapporti tra modelli esplicativi, tecniche terapeutiche e ideali di salute in rapporto con le specifiche visioni del mondo ("culture") che hanno caratterizzato l’epoca premoderna, quella moderna e quella postmoderna. Anche questa è ricerca in etnopsichiatria.

Nello stesso numero della rivista, poi, tra altri importanti contributi su questo e altri temi, segnalerei in particolare quello di L. J. Kirmayer (Psychopharmacology in a

Globalizing World: The Use of Antidepressants in Japan), che a partire dalle difficoltà incontrate dalle industrie nell’introdurre gli SSRI in Giappone, mette in luce gli aspetti sociali e culturali di questa resistenza e il modo in qui in quella cultura viene vissuto il sentimento depressivo.

Piero Coppo

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