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Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2001, pp. 651, Lire 60000

Benedetta Craveri insegna Storia della cultura francese all’Università della Tuscia (Viterbo). E’ francesista dunque, appassionata cultrice di un periodo storico (la Francia dell’Ancien régime) di cui indaga aspetti legati al gusto, al costume, ai sentimenti, agli stili di vita, servendosi, con grande padronanza, di fonti come la corrispondenze o i mémoires, da cui fa emergere i tratti nitidi di personaggi rappresentati nelle situazioni più significative — ma anche marginali a volte — che hanno percorso la loro esistenza: molti i personaggi femminili, con una forte presenza nel mondo; femminili, non femministi, a conferma che l’approccio storico al tema dell’identità sessuale porta da sé a valorizzare, senza bisogno di lamenti, la differenza di genere. Di lei si conosce Madame du Deffand e il suo mondo (Adelphi, 1982); di lei è bello leggere le interviste, stralci di lunghe conversazioni (con Marc Fumaroli ad esempio, su temi che entrambi prediligono), che appaiono talvolta nei quotidiani nazionali.

Benedetta Craveri, è difficile dimenticarlo, è anche la nipote di Benedetto Croce. Nella sua esperienza di vita, lo dichiara lei stessa in un'intervista rilasciata poco dopo l'uscita del suo libro, c'è il ricordo del salotto della madre, Elena, luogo d'incontro internazionale, punto di ritrovo di persone con formazione culturale diversa, ma unite da comuni interessi. La madre amava "mettere insieme le persone": per favorire lo scambio intellettuale e la circolazione delle idee, per soddisfare quella "curiosità culturale" che ritroviamo, tratto comune, in personaggi femminili di epoche (ma anche di indole) molto diverse tra loro.

Benedetta Craveri, moglie di un diplomatico, è la "femme savante" di cui si lamenta, sinceramente, la mancanza alla Mostra dell'editoria italiana di Parigi (cfr. Il Sole 24 ore del 10 febbraio, "Italiani a Parigi": nota, sarcastica, sulla lista degli autori scelti per rappresentare l'Italia al Salone parigino del libro).

Forse il piacere che la lettura di questo libro di Benedetta Craveri ci regala, è legato all'affermazione, quasi conclusiva della Premessa, con cui l'autrice ci lascia, garbatamente, sulla soglia dei mondi che ha ricostruito per noi. "Questo ideale di conversazione - divenuto luogo di memoria - non ha mai smesso di attrarci e quanto più la realtà ce ne allontana tanto più ne sentiamo la mancanza." Esso "conduce ormai un'esistenza clandestina, ed è appannaggio di pochissimi; eppure niente ci dice che un giorno non possa tornare a renderci felici".

Questo "ideale" di felicità - felicità che si immagina condivisibile - è presente, sempre, nella varietà di situazioni particolari, da cui non è assente il dolore, che vengono presentate nel lungo testo che concentra studio ed erudizione, insieme a riflessioni e ad osservazioni, facili da seguire come in una storia raccontata.

Ma - è uno dei primi pensieri che sorgono leggendo la premessa dell’autrice - questo ideale "di tutta una società" si radica in una struttura definita da concetti "intraducibili" quali esprit (mente, intelligenza, spirito; La Rochefoucauld ne spiega i molti significati accostando il termine a svariati aggettivi), honnêteté (dimensione umana, etica ed estetica insieme), politesse (educazione, termine entrato in uso dopo courtoisie), bienséances (buone maniere). Questi concetti nella nostra realtà pare non possano essere detti; è un'assenza di parola che segnala mancanze reali: spariscono i concetti, sparisce la realtà, si modifica la scena del vissuto, ora più povera o, comunque, profondamente diversa, certamente poco inondata da quella dimensione di felicità che l'autrice riesce così bene a descrivere.

Questo testo è quindi certamente legato al nostro presente, alle domande che esso pone, alle assenze che si fanno notare. Leggendolo, viene da chiedersi cosa è rimasto di quella civiltà e cosa invece è andato perduto; viene da chiedersi se le perdite siano temporanee o definitive. Viene da chiedersi inoltre, quando si parla, con orgoglio, della nostra civiltà occidentale, quanto di tutto questo venga ritenuto essenziale per la formulazione di un così positivo giudizio o se non si preferisca invece mettere in atto un qualche tipo di sommaria rimozione.

L'autrice pare molto consapevole della operazione implicita nel suo lavoro di storica: si tratta di preservare dall'oblio, mettendola al sicuro in un "luogo di memoria", una parte della nostra civiltà cui non possiamo rinunciare. E non è certamente solo il fascino della bellezza, dell'agiatezza, dell'ozio operoso, della possibilità di godere - il plaisir, concesso ad un numero tutto sommato irrilevante di privilegiati - che sollecita questo salvataggio. Nel ripercorrere le tappe dello sviluppo e dell'affermarsi della "civiltà della conversazione" troviamo, uniti da questo filo comune, mondi molto diversi tra loro.

Se il primo salon descritto, il salotto di Madame de Rambouillet, l'azzurro luogo "incantato", dove la giovane marchesa riceve già dal 1613, è forse il "salotto aristocratico" per antonomasia — espressione di quel "Grand Monde" capace di contrapporsi alla corte e di esercitare un prestigio ed un potere che dureranno nel tempo ( Proust li rappresenta in modo ineguagliabile ) — troviamo in seguito salotti che si caratterizzano per aspetti che riflettono in modo diverso la "cultura" ( intesa in senso antropologico ) del tempo nel quale sono collocati. Un salotto come quello della Marchesa di Sablé viene definito "il salotto nel convento", e la marchesa stessa, "protagonista di primo piano della vita sociale intellettuale e morale della sua epoca", viene collocata tra "le fondatrici del Giansenismo". Il salotto di Mademoiselle de Scudéry ci riporta all'interno delle interessanti, sempre attuali, polemiche sulle "preziose"; Madame de Sévigné e Madame de la Fayette ci fanno rivivere la raffinata sapienza sui "moti dell'animo" che cresceva e si alimentava delle conversazioni di interlocutori come La Rochefoucault.

Il salotto di Madame de Geoffrin (siamo ormai nella seconda metà del '700) è il salotto di una borghese, che accoglie anche gli artisti (ma riceve solo uomini), che favorisce la crescita mondana di Mademoiselle de Lespinasse, la nipote ripudiata di Madame du Deffand, legata a d'Alembert e da lui molto amata. Tutte queste situazioni, e molte altre, ricostruite con grande maestria da Benedetta Craveri, nelle quali si ritrova la grande civiltà della conversazione, ci fanno capire — e l'autrice ci aiuta in questo, confrontando in continuazione tra loro i diversi salotti, le protagoniste ed i protagonisti di questi spaccati di mondo — che la civiltà di cui si parla è una civiltà che non è relegata in uno spazio aristocratico angusto: che la civiltà della conversazione si accompagna alla civiltà della "relazione", patrimonio di tutti, sapere accessibile, prima dell'affermarsi, nel corso dell'800, dei saperi che investono e catturano il soggetto. La sua nascita avviene certamente, in ogni caso, nei primi salotti aristocratici. La Camera azzurra ha la suggestione dell'origine: là sorgono e si sviluppano quelle modalità che caratterizzeranno questa civiltà e non a caso il richiamo all'Hotel de Rambouillet percorre tutto il testo.

All'inizio vi sono gli scherzi, vi sono i giochi, c'è la cooptazione di un poeta come il piccolo Vincent Voiture, figlio di un mercante di vini, ma incarnazione, quasi, di quel brillante esprit cui egli deve ascesa sociale, successo, onori e fama. C'è il grande amore per il teatro, irrinunciabile, essenziale loisir e l'intreccio con la letteratura, che suggerisce modelli di comportamento etici ed estetici, ma nello stesso tempo non potrà non attingere, come preziosa fonte di ispirazione, al mondo dei salons, permeato di eleganti regole che dureranno nel tempo.

Di uno degli ultimi prestigiosi salotti della Parigi del secondo '700, il salotto di Madame Necker, si mette in risalto la "fedeltà a modelli di comportamento elaborati 150 anni prima ai tempi lontani dell'hôtel de Rambouillet." Tutto questo nonostante i cambiamenti esterni incalzassero con grande velocità. Tutto questo nonostante il fatto che per Madame Necker, svizzera, non aristocratica, il "governo" della conversazione fosse così complicato da essere paragonato al "governo dello Stato", di cui si delinea un'autorità di cui "bisogna ci si accorga appena".

E' in quel salotto che cresce, piccola spettatrice, silenziosa ai pranzi, ma arguta interlocutrice degli illustri ospiti nei giorni di ricevimento, Madame de Staël, personaggio troppo noto per insistere sull'importanza che può avere per noi la conoscenza delle sue opere e della sua vita. Essa rappresenta in modo emblematico questo mondo: ne è l’esito felice ( anche se lei stessa fu anche terribilmente infelice ) e ne è al tempo stesso così dipendente da dichiarare che senza i suoi amici e senza "un’animata e intelligente conversazione" non può vivere. Essa rappresenta, forse — ma la forza e lo spessore della sua personalità impongono di affermarlo con cautela — un eccellente risultato "pedagogico".

Si parla infatti, in questo saggio, anche di "Pedagogia". Viene da soffermarsi un attimo per riflettere su quello che viene descritto come un "ambiente pedagogico", che non ha, tuttavia, il problema di non raggiungere i risultati che si prefigge. Leggere ora la descrizione di quelle pratiche pedagogiche — ora, in un'epoca in cui il dominio della pedagogia come disciplina si lega strettamente alla scolarizzazione, si arricchisce di riflessioni e di tecniche legate ad altri saperi (la psicologia), ma è quasi inesorabilmente votato al fallimento e registra, sul piano dei risultati, scacchi brucianti (si vedano le recenti indagini internazionali sugli apprendimenti) — può far dubitare del fatto che la strutturazione disciplinare di un sapere ne garantisca, di per sé, l’efficacia. Questo, anche al di là delle ironiche prese di distanza che studiosi di grande rilevanza culturale, operanti in ambiti diversi, si sono permessi di esplicitare con chiarezza (la pedagogia è un "sapere risibile" secondo Michel Foucault; una scienza da "cargo cult", dove "la procedura seguita è perfetta: ma la cosa non funziona", come ebbe a dire il grande fisico Richard Feynman).

Il libro della Craveri rispetta le analisi del piano sincronico e dell'asse diacronico che delle vicende storiche ci restituiscono lo spessore. A differenza del precedente e già ricordato lavoro su Madame du Deffand, circoscritto al tempo di vita della protagonista, questo saggio dà conto dell’origine e dello sviluppo, nel corso di due secoli, di questa particolare forma di civiltà, la civiltà legata al conversare. La temporalità più lunga permette confronti, approfondimenti, rilievi di differenze, di caratteristiche… Permette di decretare la fine (è una ben giustificata, ma precisa scelta interpretativa) di un qualcosa che non è certamente presentato solo come fenomeno di costume, ma che si rivela comunque come uno strumento di conoscenza più carico di "informazione" di quanto possa far pensare una valutazione superficiale. Attraverso le osservazioni che riguardano quel preciso contesto, si coglie infatti la portata di cambiamenti epocali, anche se siamo lontani dai grandi eventi.

Siamo arrivati alle ultime pagine. Viene descritta la Parigi degli anni ’80, e le trasformazioni della "socievolezza", così come le racconta un amico di Madame de Staël, Jacques de Norvins. I salotti non sono più isole felici. Si sono trasformati in una vera e propria agorà: centri d’opinione, centri di potere non ancora formalizzato politicamente, più vicini ormai alla socievolezza rissosa della politica che allo stile misurato dei primi salotti aristocratici, dove ancora gli individui e la loro" privata felicità" sono strettamente intrecciati alle forme e ai contenuti veicolati dalla "civile conversazione". E' un mondo che di lì a poco si dissolverà, ma di cui sarà possibile cogliere tratti caratterizzanti in altri ben più confusi e ben più angoscianti contesti. Il libro si conclude infatti con la citazione di una famosa pagina di Ippolito Taine, che racconta il "comportamento" aristocratico negli anni della rivoluzione. La descrizione di Taine, che la Craveri riporta, esalta gli aspetti formali del mondo che intorno alla conversazione prendeva vita: aspetti formali, tanto più appariscenti in quanto collocati nell’ambiente disordinato e torvo delle prigioni parigine brulicanti di esseri umani strappati al loro ambiente, privati della loro piena identità.

Dignità, sorriso, eleganza, serenità: l’aristocrazia pare vincere il confronto con la durezza spietata del cambiamento. Per questo il loro saper vivere, la loro particolare "felicità" ci sembra forse qualcosa che non si deve, a tutt’oggi, rassegnarsi a perdere.

Vannina Fonte Basso

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