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Riceviamo da Riccardo Dalle Luche un commento su due film recenti, con l'intenzione di inaugurare con ciò una stabile collaborazione. L'autore, psichiatra da molto tempo impegnato in una ricerca su psicopatologia e cinema, ha prodotto diversi lavori su questo tema e tra le altre cose, insieme alla collega Alessandra Barontini , ha recentemente pubblicato un "saggio di psicopatologia dal cinema di Cronenberg "( R. Dalle Luche, A. Barontini, Transfusioni. Baroni Editore, Viareggio-Lucca 1997.) Lo spazio dedicato al cinema di POL.it, inaugurato da poco, è aperto a suggerimenti e contributi.
La funzione autobiografica al cinema. Recensione psicopatologica su W. Allen, "Harry a pezzi (Decostructing Harry)" (USA, 1997) e N. Moretti, "Aprile" (Ita, 1998) Due autori di culto escono con film gemelli nell'intenzione di mettere in scena se stessi nel corso di una crisi creativa, in un'apparentemente impietosa esibizione della propria psico(pato)logia: una ciclotimia con una sessualità compulsiva e un po' parafilica in Harry/Allen, un narcisismo fobico-ossesivo nel Nanni Moretti che si espone ormai in prima persona rinunciando alla sua controfigura cinematografica Michele Apicella. Allen e Moretti inscenano autoironicamente se stessi sfruttando l'effetto di verosimiglianza del cinema per far credere che stanno cercando di capirsi, di analizzarsi pubblicamente, di "mettersi a fuoco" (un personaggio delle fantasie di Harry, un attore, attraversa una crisi di identità perché, letteralmente, non viene messo a fuoco dalla macchina da presa). Il giuoco si fa sempre più intrigante alimentandosi di allusioni, rimandi e rivelazioni autobiografiche nel film di Allen, mentre Moretti adotta la soluzione estrema di propinarci i "filmini di famiglia" relativi alla nascita del suo primogenito, costringendo alla recitazione la propria madre, la moglie incinta e pefino il piccolo Pietro (quest'ultimo proclamando che gli impedirà di fare l'attore da grande). "Aprile" é praticamente il seguito di "Caro diario", che a tratti viene addirittura clonato, ed i due film sono una testimonianza degli esiti (piccolo)borghesi dei post-sessantottini ritratti nel film d'esordio "Io sono un autarchico". Moretti giuoca la scelta stilistica di appiattire la fiction ad un livello quasi documentario, ironizzandoci: nel film fa fatica a girare un documentario sulla realtà politica italiana di questi ultimi quattro anni, commissionatogli dal PDS, ma, riutilizzando in "Aprile" pezzi di vera televisione , introduce elementi involontariamente horror peggiori di quelli che platealmente dimostra di non tollerare nelle pellicole splatter che cita con disgusto. Allen, al contrario, ci fa entrare nell'inferno della sua interiorità (Harry fantastica di scendere in ascensore in bolge dantesche, rivisitate ed aggiornate), e dei riflessi che su di essa ha la realtà esterna, dovendo da un lato difendersi dalle accuse feroci delle ex mogli e compagne di lavare i panni sporchi in pubblico, e di dipendere dall'altro dalle necessità di attingere dalla propria vita per dare corpo a i propri romanzi, cioé per poter scrivere di ciò che conosce bene.Se Moretti ricerca disperatamente di fuggire nella realtà e nella normalità, Harry/Allen si compiace di fare della propria vita un continuo agito sospeso tra realtà e fantasia, pagando il prezzo di essere se stesso con la riprovazione sociale, la non- integrazione, la perenne instabilità: infatti sono i fantasmi che lo dominano seducendolo ed assillandolo a modulare il suo umore oscillante tra il trionfo narcisistico e una cupa e desolata depressione; che importano le convenzioni, le istituzioni, il giudizio sociale? Harry si decostruisce per poter ricostruirsi in continuazione (cioè per creare), Moretti soffoca nella normalità (nella stabilità) la pretesa di poter essere creativo, ignorando che non si può avere tutto dalla vita, almeno contemporaneamente. Entrambi i film, si é detto, sono dispositivi atti a far credere alle immagini con l'inganno di evidenze incontrovertibili (Moretti racconta in modo apparentemente letterale, Allen in modo appena più dislocato e tangenziale, la propria vita); tuttavia non c'é altro sistema di discriminare in queste immagini il vero dal falso, il reale dall'inventato, se non la partecipazione affettiva che inducono nello spettatore. Io che ho visto dal primo all'ultimo dei film dei due Autori, amandoli entrambi, sono uscito entusiasta dal film di Allen, irritato da quello di Moretti; deciso a studiare lo script alleniano e di proporlo come paradigma per lo studio dei rapporti tra un autore e i suoi personaggi (cioé della questione fondamentale e generale di come ci si racconta), altrettanto a non vedere più la pseudo-fiction auto-documentaristica del pur sempre intelligente e caustico regista romano. Alla ricchezza della ricerca inventiva formale e ai guizzi immaginativi talora genialmente neo-surrealisti e neo-marxiani (nel senso del giustamente idolatrato Groucho Marx) di Woody Allen, cioé all'esigenza di trascrivere e rasfigurare le proprie immagini interiori e di trovare così il modo di rivelare la propria realtà psichica nascondendola nell'indecifrabile ambiguità della fiction , si contrapone il sobrio tentativo morettiano di ridurre la fiction al personaggio se-stesso (forse a se stesso tout court). Lo scopo del giuoco, per entrambi, sembra essere quello di cercare attenzione, comprensione, approvazione, e forse, assoluzione (le due storie di crisi hanno un lieto fine: Moretti realizza il musical fantasticato da anni, Allen viene applaudito dalla folla dei personaggi "reali" o da lui inventati che compaiono nel film-tutti in realtà partoriti dalla mente di Allen; un finale che replica peraltro quello di"Stardust memories" , un altro suo film pseudoautobiografico di quasi vent'anni fa). Viene automatico parlare di narcisismo d'Autore, e , per film come questi, di narcisismo patologico (e recidivante), ma pare più interessante sottolineare che lo scopo e la ricompensa del gioco della finzione autobiografica dipende dalla capacità di suscitare affetti positivi in un interscambio empatico-seduttivo ed un po' terapeutico tra spettatore ed Autore. Per questo se non abbiamo dubbi sul nesso tra creatività e psico(pato)logia in Harry/Allen , che riesce sempre a farsi amare facendoci ridere, ne nutriamo molti sulla capacità di Moretti di creare e raccontare una storia, di fare un "film vero" (una critica che nel film Nanni si ripete in continuazione). Il giuoco autobiografico di Allen ci parla della stratificazione in proondità della vita psichica, di come essa si costituisce, di come la mobilizzano i fantasmi che la abitano e di come l'umorismo ne possa essere la sonda e l'espressione più essenziale e sintetica; quello di Moretti finisce per raccontarci soltanto di lui stesso e di noi, per quanto generazionalmente gli somigliamo. (Riccardo Dalle Luche)
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