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-Teorie sull'origine della pena detentiva-

 

DIMEL

Dipartimento di Medicina legale, del Lavoro, Psicologia Medica e Criminologia

Sezione di Criminologia e Psichiatria forense

 

 

L’8 Marzo 2007, in occasione della cerimonia di conferimento del premio Filippo Gramatica, il professor Realino Marra, presidente del Consiglio del corso di laurea in Servizio sociale, ha tenuto una conferenza sulle teorie sull’origine della pena detentiva.

Nel 2006 il premio, istituito per incentivare gli studi nel campo della Difesa sociale, è stato assegnato alla dott.ssa Chiara Guardamagna.

 

Il professor Marra, sociologo del diritto, illustra teorie sociologiche selezionando fra visioni globali della società che inquadrano in vario modo la sanzione privativa della libertà personale.

Il primo orientamento considerato è quello funzionalistico di Durkheim, secondo il quale il deviante, pur essendo destabilizzante per la società, avrebbe la funzione di aumentare la coesione collettiva, rafforzando la linea di demarcazione fra normale e "patologico". La punizione è quindi necessaria, perché ha la funzione di mantenere intatta la consapevolezza della società della propria adesione alle norme, e svolge pertanto una funzione preventiva. La prevenzione è generale, rivolta a tutta la collettività e non solo ai potenziali trasgressori; la sanzione serve a restaurare la validità della norma violata.

Durkheim sostiene che l’intensità della pena sia inversamente proporzionale all’evoluzione della società che la applica; nelle società antiche la pena detentiva non era contemplata, se non solo durante il processo, e non aveva lo statuto di pena autonoma che ha invece assunto in età moderna, quando ci si è posti il problema di "addolcire le pene" e vendicare la vittima senza infierire troppo sul colpevole. L’esigenza di punire senza offendere troppo è alla base della nascita del carcere, istituzione che è resistita nel tempo fino ai giorni nostri.

Il secondo orientamento considerato dal prof. Marra è quello neomarxista di Rusche e Kirchheimer, due sociologi della scuola francofortese, che in Pena e struttura sociale valutano l’evoluzione della pena nel mondo occidentale considerandola come una conseguenza dell’andamento del mercato del lavoro. Ogni società infatti produce "forme punitive che corrispondono ai propri rapporti di produzione". Secondo questi autori sarebbe storicamente evidente come il mercato del lavoro possa condizionare le pene inflitte dal momento che l’offerta di manodopera è in grado di determinare il valore sociale della vita umana. I francofortesi contestualizzano le loro teorie, secondo cui quando la manodopera è scarsa il diritto penale è mite e viceversa, in tre diversi periodi storici.

Nel medioevo il prezzo del lavoro è basso e la manodopera in eccesso: le pene sono infatti brutali e sprezzanti del valore della vita umana.

Quando invece, nel ‘600, il mercato del lavoro si estende verso oriente si crea una situazione, esarcebata anche dal calo demografico, in cui la forza lavoro diventa merce rara. Si sviluppano dunque sistemi punitivi che tengono in maggiore considerazione i soggetti sociali e che consentono contemporaneamente di sfruttarne la manodopera. Assistiamo allora a pene quali i lavori forzati, le galere e le prime carceri.

La terza fase di Rusche e Kirchheimer inizia con la rivoluzione industriale. Le circostanze sono ora paradossali: nel momento in cui la pena detentiva si è ormai diffusa, si va incontro ad una vera e propria decadenza qualitativa del carcere: da luogo di produzione ed auspicata risocializzazione si trasforma in precario luogo di soprusi, dove la funzione del lavoro è solo afflittiva. In questo periodo storico la forte eccedenza della forza lavoro rende difficile poter trarre frutto dalle masse di detenuti; già è diminuito il valore del lavoro in condizioni normali, quello in carcere è solo intimidazione e tormento. La prigione assume l’unica funzione di contenimento di masse di detenuti; diventa un luogo sovraffollato dove è solamente più facile morire.

Il problema del carcere e della sua mitezza è affrontato anche dal francese Michael Foucault, autore complesso che esprime un antiumanesimo radicale in cui si evidenzia il primato della struttura sull’uomo, di strutture che agiscono a livello inconscio.

Nella sua principale opera sul tema, Sorvegliare e punire, Foucault analizza i cambiamenti del settore penalistico in Europa e negli Stati Uniti che egli intende come espressione di un cambiamento nei modi di esercizio del potere della società. Nella forma di pena tipica d’ancient régime la prevenzione sociale punitiva consiste nell’esibizione pubblica del supplizio. Il reato viene inteso come offensiva diretta al potere sovrano il quale replica rendendo pubblica e il più possibile spettacolare la sua vendetta. Nella seconda metà del settecento le pene si addolciscono, alla luce dei principi di garantismo che il riformismo illuministico porta con sé. Foucault però contesta questa interpretazione tradizionale, ritenendo che il diritto penale più umano sia il riflesso di un cambiamento più profondo dell’atteggiamento verso la criminalità: spazzato via il potere dell’antico regime il sistema penale dell’assolutismo perde significato ed efficacia. Più che una manifestazione spettacolare serve un segnale diversamente percebile ed è così che trionfa il carcere come strumento correttivo. La prigione nasce come forma di pena più umana ma per Foucault la finalità di risocializzazione non è soddisfatta: il carcere creerebbe infatti solamente individui più deboli, marchiati e per nulla risanati; al contrario sarebbe una fabbrica di delinquenti che, proprio perché segnati, sarebbero più facili da controllare.

Lo spirito del tempo, che vorrebbe intravedere una funzione correttiva nel carcere è rappresentato secondo Foucault dal Panopticon di Jeremy Bentham, progetto architettonico di prigione in cui il detenuto non sa né quando né da chi è controllato.

Il cuore della tesi di Foucalt, conclude Marra, è che la disciplina e il controllo sarebbero il lato oscuro della società illuministica e liberale: il carcere non diminuisce la recidiva e forse non è neanche questo il suo scopo. Viene invece rafforzata l’identità criminale, con caduta in disgrazia non solo del detenuto ma anche della famiglia, creando l’humus ideale per la perpetuazione della devianza. La tesi paradossale proposta è di una strategia di dominio politico: il carcere produce un ceto deviante ben identificato e perciò ben controllato.

 

A cura di Isabella D’Orta

isabella.dorta@gmail.com

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