(prima parte; cfr. "i Fogli di ORISS", 2000, 13/14, pp 185-208. Per l'indice dei vari numeri della rivista, si veda in www.oriss.org)
L'oggetto di questo studio è la fantasia che possedere un'identità sia un'autentica arroganza capace, automaticamente, di incitare gli altri ad annientare non solo questa identità ma anche l'esistenza stessa del presuntuoso per mezzo, in genere, di un atto di cannibalismo che trasforma il soggetto in oggetto. I pazienti più gravi cercano di proteggersi da questo rischio rinunciando ad ogni vera identità; quelli meno afflitti si costruiscono una falsa identità. Queste due manovre rappresentano l'essenza stessa del disordine psichico e costituiscono, nella situazione psicoanalitica, la base di ogni resistenza poiché lo scopo delle resistenze è precisamente quello di impedire la scoperta della vera identità del paziente. Se fosse diversamente, l'analisi delle resistenze non avrebbe alcuna utilità terapeutica. Ciò implica che la distinzione talvolta operata tra l'analisi del contenuto (content-analysis) e l'analisi delle resistenze (Kaiser, 1934) è illusoria: ogni analisi di una resistenza è, al tempo stesso, un'analisi sia dell'inconscio ("contenuto") che del carattere.
Esaminando i fatti in questo modo, stabiliamo una perfetta unità tra malattia e resistenza. Consideriamo allora la resistenza non come un prodotto inevitabile e tuttavia fortuito della situazione psicoanalitica, ma come la manifestazione suprema della nevrosi o della psicosi, ben più autentica dei sintomi da cui il paziente ci chiede di guarirlo. Anche questa posizione centrale della resistenza nella psiche del paziente permette di spiegare perché l'analisi è capace di guarire: in analisi pure i vecchi sintomi del paziente acquistano qualità di resistenze e funzionano come tali. Ciò giustifica, a mio avviso, l'analisi congiunta dei sintomi e dei comportamenti in quanto resistenze all'analisi. Inoltre, quando i sintomi e i comportamenti acquistano, durante l'analisi, qualità di resistenze è solo analizzando questi sintomi, divenuti resistenze, che ci avviciniamo effettivamente all'essenza stessa della nevrosi, poiché ogni sintomo è una resistenza sia contro l'acquisizione (e l'attribuzione) di un'identità sia contro la scoperta dell'identità reale del paziente identità che non vuole conoscere lui stesso, né permetterne il riconoscimento da parte degli altri. È così semplicemente perché tutte le nevrosi e le psicosi rappresentano sia una rinuncia a ogni identità reale sia un travestimento della vera identità del paziente.
L'ottica di questo studio è rigorosamente operazionale ed esclude qualunque considerazione d'ordine metafisico e ontologico. Avendo espresso altrove le mie inquietudini sugli sconfinamenti della metafisica nel dominio della psicoanalisi (Devereux, 1966), mi sembra inutile ritornarci sopra in questo studio.
La documentazione del mio studio è fornita tanto dalla clinica che dalle varie scienze del comportamento (behavioral sciences). Tengo soltanto a precisare che, al posto di far ricorso ai dati dell'etnologia o della mitologia per dimostrare, ancora una volta, la possibilità applicativa della psicoanalisi alle scienze sociali, seguo un procedimento inverso: spero di ricavare dalle scienze del comportamento lezioni e teoremi applicabili alla clinica psicoanalitica.
La definizione dei concetti fondamentali sarà formulata in modo puramente operazionale:
1) Esistenza: l'operazione fondamentale e il suo risultato possono essere enunciati secondo la dichiarazione seguente: "vedo qualcosa" essendo sottinteso: "la cui identità mi è sconosciuta".
2) Identità: l'operazione fondamentale e il suo risultato possono essere enunciati secondo la dichiarazione: "vedo Jean Dupont".
3) Individualità: questo termine denota l'identità in azione, la manifestazione dell'identità attraverso un comportamento caratteristico, nel senso lato di questa parola: "vedo che è Jean Dupont da come cammina, in quanto è vestito in modo stravagante, ecc.".
Ogni individualità presuppone un'identità e ambedue presuppongono un'esistenza. L'identità è il prodotto di un processo di differenziazione. Dal punto di vista operazionale questa differenziazione si effettua per moltiplicazione delle dichiarazioni predicative (nel senso logico del termine) concernenti un oggetto esistente e per la loro particolare giustapposizione. L'insieme di queste precisazioni stabilisce una serie di "misure", ripartite su un sistema di coordinate, la cui totalità costituisce uno "spazio" multidimensionale. Queste coordinate possono essere sia omogenee sia eterogenee. Se scrivo su una scheda antropometrica (che è un sistema o "spazio" omogeneo) l'annotazione: "È un uomo triste", trasformo questo spazio omogeneo in uno "spazio" eterogeneo. In generale, l'identità è costituita da elementi eterogenei. Tali elementi non appartengono mai esclusivamente a un solo individuo: parecchi individui pesano esattamente 58 chilogrammi, molti altri sono avvocati, ecc. Solo la ricomposizione e la giustapposizione assolutamente unica di una grande serie di queste "dimensioni" costituiscono un'identità; ciò implica che l'identità e l'individualità sono delle strutture, nel senso strutturale di questa parola. Vedremo in seguito che l'identità e l'individualità sono, anche in senso storico-genetico, delle costruzioni e, più in particolare, costruzioni risultanti da un autentico "bricolage", nel senso attribuito a questa parola da Lévi-Strauss (1962).
4) Dizionario: per adeguarmi all'uso corrente impiegherò quasi sempre il termine "identità" per parlare contemporaneamente dell'identità, nel senso specifico della parola, nonché della sua manifestazione funzionale: l'individualità. Impiegherò quest'ultimo termine solo quando vorrò precisare che esso riguarda esclusivamente l'aspetto funzionale dell'identità.
I problemi d'identità come nucleo
della psicopatologia
Si dice spesso che all'inizio della sua carriera Freud vedeva soprattutto nevrosi sintomatiche; che negli anni '30 e '40 si osservavano soprattutto nevrosi di carattere; che oggi si incontrano soprattutto nevrosi d'identità. Questa mutazione della nostra clientela è stata spiegata da uno psicoanalista attraverso considerazioni di ordine sociologico (Lowenfeld, 1944). Altri pretendono, al contrario, che questa mutazione è illusoria e tentano di provare che i pazienti isterici di Freud erano, in realtà, schizofrenici con disturbi d'identità.
Queste due spiegazioni sono, allo stesso modo, ugualmente vere e false. I disturbi d'identità, seppure in grado diverso, si ritrovano in tutte le manifestazioni della psicopatologia; non sono dunque patognomoniche della sola schizoidia in quanto entità clinica. D'altra parte una società, sottoposta a crisi dell'ordine di quelle che da 50 anni continuano a scuotere il mondo occidentale, tende inevitabilmente a intaccare il senso d'identità del cittadino per il quale ogni nuova crisi rappresenta una soluzione di continuità del senso della propria individualità, della sua identità attraverso il tempo. Questo ambiente sociale tende dunque a intaccare la parte nucleare dello psichismo dell'uomo, quel senso del suo "me stesso" costituito, da un lato, dalla sua "immagine del corpo" e, dall'altro, dalla sua personalità "di base" etnica che tuttavia, contrariamente a quanto sostiene Kardiner (1939; 1945), non si costituisce durante gli stadi pregenitali e all'epoca degli oggetti parziali ma durante lo stadio edipico e all'epoca degli "oggetti" totali, funzionanti come mediatori dell'ambiente sociale e culturale (Devereux, 1951a; Linton, 1956). In breve, i disturbi d'identità sono sempre stati, in una forma o nell'altra, l'essenza stessa dei disturbi psichici. Ai giorni nostri questi disturbi sono messi fortemente in evidenza dalla natura stessa della nostra società occidentale (Devereux, 1939a, 1956a, 1965a).
Identità e differenziazione
L'identità è il prodotto di una differenziazione per arricchimento, attraverso l'accumulazione di tratti significativi la cui giustapposizione e ricomposizione sistematica costituiscono una struttura. Separandosi tanto dall'ambiente quanto dalla specie ci si trasforma da ciò che Bertrand Russell (1919) chiamerebbe un "qualunque" (any) in un "uno" (a) e anche in un "il" (the). Bisogna tuttavia notare che Freud, ad esempio, pur avendo creato la psicoanalisi in quanto "uno" o "il", non perse per questo la capacità di attaccare un chiodo come uno "qualunque". Le società differiscono enormemente nella loro capacità di impiegare l'identità del cittadino a fini socialmente utili. Il "miracolo greco" e i suoi equivalenti deriva semplicemente dalla capacità di una società di utilizzare la parte più specificamente individuale di un cittadino. Ciò non ha niente di sorprendente poiché J.S. Mill, nel suo saggio On Liberty, ha precisato che il massimo di socializzazione va di pari passo con il massimo d'individualizzazione.
La normalità rappresenta una differenziazione per arricchimento. L'anormalità rappresenta una sdifferenziazione per impoverimento (Devereux, 1951a, 1952a, 1956a). Ciò spiega il fatto perfettamente accertato che un esquimese nevrotico somiglia più a un nevrotico congolese che a un esquimese normale; e gli somiglia anche più di quanto due esquimesi normali siano simili tra loro.
Questa somiglianza tra individui sdifferenziati merita di essere scrutata più da vicino. Una volta ho segnalato (1940) che il sintomo, per assolvere completamente alla sua funzione, deve essere contrario alle abitudini e ai costumi; deve riflettere un negativismo sociale. Sfortunatamente questo fatto ha suscitato una grave confusione tra disadattamento e nevrosi; confusione contro cui non smetto di protestare (1939a, 1956a, 1958a). Un nevrotico è sempre un disadattato; un disadattato può benissimo non essere un nevrotico. In effetti, un uomo normale è inevitabilmente disadattato in una società patologica, ma smette di esserlo quando riesce ad emigrare. Al contrario, una ninfomane nevrotica, disadattata all'interno di un ambiente puritano, continuerà ad essere disadattata e nevrotica tra gli indiani Mohave: riuscirà ad essere ninfomane in un modo tale che nemmeno i Mohave possono tollerare (Devereux, 1948), poiché la sua nevrosi esige che si rivolti contro l'ambiente qualunque esso sia.
Il sintomo principe della sdifferenziazione psicopatologica è una diminuzione della capacità tipicamente umana di essere uno zoon politikon aristotelico, semplicemente perché l'individuazione (differenziazione) e la socializzazione sono i tratti più evoluti della specie umana e quelli più caratteristici tra i tratti di questa specie essendo i primi, di conseguenza, a venire intaccati dai disordini psichici.
L'incomprensibilità del paziente è, nel quadro di questa concezione, perfettamente fittizia. Essendosi sdifferenziato per impoverimento, è inevitabilmente più comprensibile di quanto non lo sia l'individuo normale che resta invece "inesauribile". Ricordiamoci che Freud considerava comprensibili i nevrotici; solo il genio ha rinunciato a capire, forse un po' prematuramente. Tre o quattro anni di analisi ci permettono di capire un paziente; una vita consacrata allo studio del pensiero di un Aristotele o di un Freud non basta ad esaurirne le implicazioni e per riconoscerne l'intera portata.
L'incomprensibilità del paziente non è una qualità innata ma una conseguenza dell'ottica deformata di colui che cerca di capirlo. È incomprensibile solo nel senso in cui lo sarebbe un cane che qualcuno si intestardisse a prendere per un gatto. L'educazione psicoanalitica tenta, di conseguenza, di insegnare al candidato a non lasciarsi ingannare dalle apparenze
a fargli imparare di non permettere alla confezione sontuosa e bizzarra esercitante d'altronde la funzione di ciò che ho chiamato red herring resistance (1953a) di sviare la sua attenzione dal vile contenuto del pacchetto.
Ammetto volentieri che, per principio, ogni essere umano come ogni opera d'arte è inesauribile; che ci riserva ancora delle sorprese alla sua decima "lettura" (Devereux, 1961a). Bisogna del resto ammettere che il "nuovo" scoperto alla decima lettura di un Sully-Prudhomme è poco significativo rispetto a quello riconosciuto alla prima, mentre è vero il contrario per un Euripide di cui ogni nuova lettura rivela ricchezze insospettate alla prima.
Durante una psicoanalisi si osserva la stessa cosa: dopo lo "choc" iniziale il paziente ci riserva poche vere sorprese. Ciò spiega perché ascoltiamo questo essere sdifferenziato con un'attenzione "fluttuante" e perché dobbiamo cercare di capirlo utilizzando soprattutto la parte meno differenziata ed evoluta della nostra psiche: l'inconscio. In seguito, trattando le risonanze ovvero ciò che il materiale fornito dal paziente produce nel nostro inconscio come se fosse materiale "autopsichico" piuttosto che "eteropsichico", ritrasponiamo a livello conscio questo materiale prestato, rifacendo così mille volte il cammino della nostra maturazione (Devereux, 1956b). Per contro, quando durante l'analisi il paziente ridiviene un essere differenziato, la nostra "attenzione fluttuante" sempre più si accompagna e deve accompagnarsi a una reale attenzione.
Ho discusso altrove (1952b) le coordinate generali, i punti di repere, che bisogna impiegare per capire il paziente all'interno della cornice (frame of reference) che gli conviene e che gli è propria, e non ho nessun bisogno, di conseguenza, di riparlare di questo tema. Vorrei solamente sottolineare che la maggior parte dei nostri errori di comprensione sono dovuti all'illusione che conosciamo già la cornice entro cui il paziente deve ssere capito mentre non la conosciamo ancora. Non dobbiamo dunque mai scartare il bel principio enunciato dal dott. Ives Hendricks: "L'analisi deve svolgersi in un'atmosfera di tranquilla confusione", in primo luogo per poter comprendere la natura dell'impoverimento del nevrotico e poi per poter cogliere la sua inesauribile ricchezza di essere umano.
Comprensione e prevedibilità
Ogni adattamento esige la comprensione e questa è possibile solo quando l'ambiente o la persona a cui ci si adatta sono governati da leggi e presentano delle regolarità (Devereux, 1939a). Per di più, tali regolarità devono essere conformi alla natura dell'oggetto che le presenta. Si sa cosa fare se un cane abbaia; si resterebbe interdetti davanti a un gatto che abbaiasse. In breve, non ci si può adattare che a una cosa la cui identità e uniformità di comportamento siano conosciute, alle cose in rapporto alle quali si è al riparo da sorprese - nota 1.
Questa "scelta" è di suprema importanza nel comportamento degli uomini. L'animale inferiore è altamente prevedibile poiché i suoi tropismi e i suoi istinti (biologici) forniscono l'armatura del suo comportamento e ne garantiscono la struttura e la prevedibilità. Per contro, il ruolo relativamente ristretto giocato da questi meccanismi nel comportamento umano e la gamma enorme dei comportamenti di cui l'uomo è, di conseguenza, capace lo renderebbe pressappoco imprevedibile se la società non supplisse a questa deficienza sostituendo il costume sociale agli istinti e ai tropismi nella funzione di regolazione, armatura e principio strutturante del comportamento umano (Devereux, 1956b).
Il costume sociale regolarizza il comportamento umano secondo due vie, i cui paradeigmata sono il giuramento, da un lato, e la legge, dall'altro.
Il giuramento limita in modo effettivo la libertà d'azione dell'uomo. Colui che presta giuramento ipoteca l'avvenire, garantendo nel presente il suo comportamento futuro. A tal proposito è interessante fare un'osservazione: la parola greca che significa giuramento (horkos) indicava in origine la palizzata, o il recinto, che limita la libertà di movimento del bestiame. La parola greca nomos (legge), invece, specifica essenzialmente l'ordine positivo di agire in un certo modo; non significa che non si deve fare questa o quella cosa. Pur senza conoscere le belle ricerche condotte su questi due termini dall'ellenista Cornford (1957), avevo già utilizzato pressappoco gli stessi criteri per differenziare il Super-Io dall'Ideale dell'Io (1956b).
Comprensione dell'identità e controllo
Dal momento in cui comprendiamo una cosa o un essere, appena ne stabiliamo l'identità, da quando possiamo prevederne il comportamento abbiamo un potere su di esso, siamo nella condizione di intervenire sulla sua vita sia nel bene che nel male.
Dato ciò, cosa c'è di sorprendente nel fatto che il nostro paziente voglia impedirci di conoscerlo, di capirlo? Anche se mettiamo da parte il fatto che, essendo stato traumatizzato da coloro i quali lo conoscono meglio, si aspetta, di conseguenza, di venir danneggiato da tutti quelli che ne conoscessero l'identità; il nostro obiettivo dichiarato non è forse quello di guadagnare un potere su di lui allo scopo di cambiarlo? Un paziente schizofrenico di Fromm-Reichmann (1946) è diventato il portavoce anche dei nostri nel momento in cui l'ha accusata d'ipocrisia: "Pretende di accettarmi così come sono e tuttavia tenta di cambiarmi!"
Allora perché, pur temendo ogni comprensione che considerano il precursore di un nuovo trauma, i pazienti si mettono in nostro potere? Tralasciando alcuni meccanismi ben conosciuti, quali la speranza che l'analisi fallirà oppure che riuscirà a sbarazzare il paziente solo dalle sue crisi d'angoscia e dalle difficoltà pratiche senza tuttavia intaccare l'essenza della nevrosi, cercherò di sottolineare un aspetto alquanto misconosciuto del desiderio di farsi psicoanalizzare
, di farsi capire.
La specie umana tende a voler "controllare" l'incomprensibile e l'imprevedibile distruggendolo. Si pensi alla spaventosa battuta pronunciata al momento della condanna a morte di Lavoisier: "La Repubblica non ha bisogno di scienziati!" I nostri pazienti hanno dunque ragione a temere di essere considerati come incomprensibili
ne va della loro vita! Di conseguenza, si sottomettono a un'analisi nella speranza di imparare ad apparire comprensibili, ciononostante senza esserlo. Vogliono chiedere in prestito all'analista una normalità di facciata. Questo desiderio si collega da vicino alla nevrosi descritta da Norman Reider (1950): la nevrosi di voler apparire normale.
I pazienti hanno ugualmente valide ragioni per temere gli strumenti di cui si servono gli uomini per controllare gli esseri difficili. Infatti, gli uomini tentano di controllare i loro simili, come pure gli animali, restringendo artificialmente la gamma dei comportamenti possibili. Detto altrimenti, cercano di controllare gli uomini attraverso l'horkos piuttosto che per mezzo del nomos. Secondo Erodoto, gli Sciti accecavano i loro schiavi per impedire loro di evadere. In alcune tribù africane una moglie che continua ad abbandonare il tetto coniugale viene azzoppata. Altrove si taglia la mano ai ladri e si castrano gli adulteri.
Lungo tutta la storia degli uomini il coltello del castratore che rende gli esseri più prevedibili eliminando tutto un settore di comportamenti possibili si è sostituito al vero sforzo civilizzatore che, attraverso una buona legge, fornirebbe una struttura e un'armatura al comportamento.
Senofonte, apostolo dell'oligarchia, vanta in uno stesso capitolo della Ciropedia i meriti della castrazione degli uomini, dei cavalli e dei cani poiché questa operazione li rende più docili e fedeli. Time Magazine cita la massima di una campionessa di salto a cavallo: "Tutti i miei cavalli sono dei castroni
per questo sono meno distratti!" Appena dieci anni fa nell'istituto per bambini oligofrenici di Winfield, Kansas, si castravano (gonadectomia e non vasectomia) quasi tutti gli ospiti per renderli più docili. A livello terapeutico, o presunto tale, la lobotomia è forse una cosa diversa dalla castrazione fisica? Sappiamo che la lobotomia non sopprime la psicosi; non fa altro che diminuirne le manifestazioni, rendendo lo psicotico lobotomizzato meno refrattario alla disciplina dell'amministrazione. Infine, ogni sistema totalitario tenta di restringere la gamma dei comportamenti possibili. Un piccolo principe italiano vietava che si insegnasse ai poveri l'arte di leggere e scrivere, e tanto i "segregazionisti" (Dollard, 1937) quanto gli Spartani (Devereux, 1965b) si sforzavano di depotenziare sistematicamente gli individui oppressi. Ai giorni nostri, lo scopo implicito delle pseudo-democrazie ipocrite è di costituirsi in popolo di giovani intelligenti, mentre i totalitarismi cercano di costruire un popolo di adulti stupidi (Devereux, 1965a). Ho indicato altrove (1956a) che si può imporre facilmente un comportamento regolare (da minorati) agli oppressi, semplicemente interdicendo loro l'utilizzazione di alcuni meccanismi di difesa e, soprattutto, di certe sublimazioni.
Questa tendenza di "regolarizzazione via minorazione" è sorprendente, in particolare, nell'educazione dei bambini. Una volta ho detto (1939a), e non smetto di insistervi, che ai nostri figli insegniamo così tanto e bene "l'arte di essere bambini" che patiscono tutte le pene del mondo a diventare adulti (Devereux, 1956b, 1965c). Qui si tratta, precisamente, dei cattivi effetti di ciò che Ruth Benedict (1938) chiama le "discontinuità nel condizionamento culturale". Infine, e soprattutto, sostituiamo al comportamento che è naturale per un organismo sviluppato in modo incompleto (un comportamento da bambino), un comportamento artificiale (infantile piuttosto che bambinesco) conforme all'immagine che la società si è fatta del comportamento che, a suo giudizio, dovrebbe essere "naturale" per i fanciulli. Ora, dato che il comportamento naturale (da bambino) è una tappa nella marcia intrapresa dall'organismo verso la maturità, verso l'autosviluppo e l'autorealizzazione per individualizzazione, il comportamento imposto (infantile) incoraggia le fissazioni; è un semaforo rosso, una soluzione di continuità lungo il cammino progressivo verso la maturità psicosessuale.
Prima di stringere più dappresso questo problema, dobbiamo innanzitutto esaminare con attenzione il processo attraverso cui si costituisce l'identità del bambino e il senso soggettivo della sua individualità in quanto configurazione globale (Ganzheit, wholeness).
La costituzione di un'identità integrata è un problema che non può essere affrontato fruttuosamente se non precisando da subito che
1) comprendersi: conoscere la propria identità,
2) comprendere: conoscere l'identità del mondo esterno,
3) essere compreso, avere un'identità conosciuta:
costituiscono una sola configurazione, caratterizzata da una reciprocità e complementarità perfette tra i tre elementi in gioco. Nello stesso tempo e al polo opposto, non comprendersi, non comprendere la realtà e non essere compreso formano ugualmente una configurazione unitaria.
Ho segnalato immediatamente che l'identità e la differenziazione risultavano da una moltiplicazione delle precisazioni date su di un oggetto o su di un essere. Questa definizione provvisoria dev'essere adesso rivista secondo un certo punto di vista: infatti, moltiplicando sia le nostre misurazioni che la loro precisione, possiamo arrivare benissimo ad attribuire un'individualità distinta a un'ameba oppure a un fiammifero o a un ago prodotto in serie. In questo caso, tuttavia, non si tratta di una vera identità funzionale ma unicamente di una semplice e gratuita "identificabilità" poiché:
1) dal punto di vista operazionale e oggettivo, e da quello dell'utilità, non si guadagna niente, in generale, dall'identificazione di un'ameba, così come nulla si guadagna "scegliendo" un fiammifero e scartandone un altro;
2) dal punto di vista soggettivo, sembra probabile che un'ameba e, a fortiori, un fiammifero non possiedono un senso della propria identità e non attribuiscono a se stessi questa qualità.
Per contro, bisogna fare un autentico sforzo per ignorare finanche l'identità di un topo o di un gatto, per non parlare di quella di un essere umano. Inoltre, ignorando l'identità di un essere umano si restringe il ventaglio dei benefici che se ne possono ricavare. Infine, pur ammettendo la fondatezza della teoria di Marcel Mauss (1950) secondo cui alcune società del resto poco evolute non hanno un vero "concetto della persona, quello dell'Io", ciò significa, semplicemente, che queste società non sanno utilizzare tale concetto a livello sociale. Ciò non significa affatto che il concetto dell'Io non sia un dato primario della coscienza anche per il primitivo, pur quando quest'ultimo è impiegato a funzionare come un pezzo di ricambio in alcune pratiche sociali quali il levirato e il sororato. In questi casi, dunque, non si tratta di un'assenza del senso dell'Io ma semplicemente di un modo d'agire a portata limitata che comporta, tutt'al più, un'abdicazione segmentaria e passeggera del senso della propria identità.
Tuttavia resta il fatto che nell'uomo, soprattutto il senso di un "se stesso" integrato, il senso di una vera individualità, è una cosa acquisita che si costituisce gradualmente ed è soggetta a tanti rischi e peripezie. Di più, questo senso dell'identità e dell'integrazione interna deve costituirsi su due livelli: nello spazio e nel tempo. Avendo abbozzato questo problema a due riprese (1961b, 1966), mi accontenterò di darne qui un semplice riassunto.
L'identità nello spazio presuppone ciò che Petzoldt chiama la causalità spaziale, che postula la coerenza delle cose nello spazio. Il fatto che il corpo sembra costituire un oggetto coerente e perfettamente circoscritto ci fa talvolta dimenticare come ciò non sia sufficiente per considerarlo immediatamente come ben integrato. Possiamo anche distinguere degli organismi incapaci di un'organizzazione coerente (strutturata) pur essendo capaci di un'organizzazione totale, quelli che non sono ancora in grado di raggiungere un'organizzazione coerente e quelli che in modo passeggero o permanente non sono più capaci di organizzazione coerente la quale comporta sempre un senso d'identità globale. Allo scopo di semplificare le cose comincerò a discutere la prima e la terza di queste alternative.
Osservazione 1. Se si continua a "stuzzicare" per qualche minuto l'emisoma di un polipo dell'ordine Actinaria, classe Anthozoa, con una carta assorbente impregnata di brodo, questa metà del polipo finirà per imparare che la carta assorbente non è un alimento senza che l'altra metà del corpo abbia tratto profitto da tale "lezione". Questo polipo a cui manca un sistema nervoso centrale è dunque perfettamente incapace di comportarsi come una totalità strutturata le cui reazioni segmentarie devono venire integrate con e passare per l'intero corpo, concepito e funzionante effettivamente come una totalità.
Osservazione 2 In situazioni di stress, un topo bianco può perdere temporaneamente il senso della coerenza del proprio corpo. Un topo bianco femmina, prossima a partorire, cerca sempre di costruirsi un nido. Se nella sua gabbia manca il materiale finirà per trattare la sua coda come un "oggetto" esterno e la prenderà in bocca come se fosse un filo di paglia, la depositerà accuratamente nell'angolo dove vuole costruire il nido, ripartirà a cercare dell'altro materiale, ritornerà ancora con la coda in bocca e continuerà ad agire in questo modo per qualche tempo. Allo stesso modo un topo molto affamato, la cui coda sanguini, incomincerà a mangiarla. In entrambi i casi sembra trattarsi di una vera estroiezione di una parte del corpo che d'ora in avanti sarà trattato come un oggetto.
Talvolta si osservano fenomeni un po' dello stesso tipo almeno per ciò che concerne l'espulsione o il distacco di un segmento corporeo dall'immagine totale del corpo in alcune malattie del sistema nervoso come pure in alcune nevrosi.
Osservazione 3 Durante l'adolescenza, il marito inibito di una mia paziente anch'egli in analisi era talmente angosciato dalle sue erezioni spontanee e ingovernabili che il suo pene non sembrava più far parte della sua "immagine corporea". Allora rimuginava, talvolta, su come disfarsi di questa "cosa autonoma" che non era più sua.
La costituzione dell'identità nel bambino, che non la possiede ancora, è un processo assai complesso. Dato che il bambino deve innanzitutto distaccarsi dall'unità duale che lo lega alla madre (Herman, 1936), Spitz (1957) ha perfettamente ragione a dire che il primo sganciamento del bambino dal suo ambiente, separazione che demarca la genesi stessa della sua identità, è il momento in cui pronuncia in un modo o nell'altro la parola: "no!". Questo momento corrisponde a una vera e propria seconda nascita (psichica), poiché attraverso tale atto il bambino afferma la sua identità contra mundum, come dicono i giuristi. Per di più, la costituzione della sua identità è il prodotto di un autentico "bricolage", nel senso attribuito a questa parola da Lévi-Strauss (1962). La sua identità non è un dato primario. Essa risulta da un assemblaggio insieme pianificato e fortuito le cui possibilità e la portata sono limitate tanto dalla natura del "progetto" che dal materiale a disposizione e di cui sfrutta le possibilità con maggiore o minor successo. Al tempo stesso, vari settori del "progetto" possono farsi concorrenza per l'utilizzo dello stesso materiale. Se Robinson Crusoe non dispone che di un solo chiodo deve innanzitutto decidere se farne un coltello o un amo. Una volta risolta tale questione saprà ricavare da questo chiodo molto più di quanto non saprebbe ricavarne un uomo che disponga di molti chiodi e possiede già un coltello e degli ami.
Le più elementari osservazioni indicano che l'integrazione corporea del bebè è fortemente incompleta tanto per ciò che riguarda le sue membra, quanto per quello che concerne i suoi sensi. Gioca con le proprie dita come se queste parti del corpo fossero degli oggetti e la sua visione stereoscopica, binoculare, si organizza assai tardi. Infine, le reazioni "totali" del suo corpo non sono i prodotti di una coordinazione strutturata (analogia: reggimento) ma presentano reazioni di "massa" (analogia: folla). Di conseguenza non possiede né un senso della propria individualità integrale né un senso d'interezza corporea: "L'immagine del corpo" manca ancora di armatura quasi quanto quella di un polipo o del topo sotto stress.
La mielinizzazione incompleta del sistema nervoso impedisce al bebè di costituirsi un'immagine corporea coerente un Io corporeo impedendogli anche di costituirsi un'immagine coerente del corpo della propria madre. Si avrebbe torto a parlare della "frammentazione" della madre come di un atto positivo, come di uno "smontaggio" della madre operato dal bebè. A mio avviso il bebè incomincia a percepire la madre come se fosse già smontata. Ad esempio, non è il bebè che "stacca" il seno dal resto della madre, in quanto, mentre il bebè sta succhiando, il seno occupa l'intero campo visivo, ciò che, come indica Lewin (1946), serve da punto di partenza per la costituzione dello "schermo del sogno". In questa fase il bebè non ha bisogno e nemmeno la possibilità di "ricostituire" il corpo materno. È ancor meno capace di coordinare le diverse categorie di stimoli (visivi, uditivi, tattili, termici, ecc.) che provengono dalla madre. Niente prova, ad esempio, che il bebè "sappia" che il viso che guarda, la voce che fuoriesce e la mano che lo accarezza appartengano a una sola sorgente "globale" - nota 2.
Possiamo dunque affermare che la madre arriva a lui già "smontata" in un doppio senso: da un lato, il suo seno (o qualche altra parte del corpo) è un oggetto parziale prima di diventare una parte del suo corpo e, dall'altro, ogni tipo di stimolazione proveniente da lei (vista, udito, tatto, etc.) resta isolato non essendo coordinato con gli altri tipi di stimolazione (agnosia strutturale). Aggiungiamo che questa tendenza caratterizza anche le origini dell'arte greca. Snell (1953) segnala che tra i Greci i primi disegni del corpo umano presentano il corpo come una serie di membra giustapposte alle articolazioni; nota anche che i testi omerici sembrano non contenere una parola significante il corpo vivente tutto intero.
Sfortunatamente, al posto di incoraggiare e facilitare la costituzione di un'identità nello spazio, lo sviluppo di un Io corporeo coerente, l'educazione agisce troppo spesso nel senso opposto. Sotto diversi aspetti il bambino non è nemmeno considerato come l'indiscusso proprietario del suo corpo -nota 3.
Al posto di moltiplicare le prove di ciò che è fin troppo evidente, passiamo adesso al problema della costituzione di un'identità nel tempo.
Integrazione nel tempo Perché si possa essere coscienti della propria continuità e invarianza nel tempo bisogna essere capaci di strutturare gli eventi sviluppati cronologicamente in una serie causale rappresentante ciò che Petzoldt chiama la "causalità temporale". L'insieme di una serie di quest'ordine è una configurazione (Gestalt) temporale, unidirezionale, irreversibile e non-assurda.
La lunghezza di una serie causale, che l'osservatore è capace di percepire come costituente una configurazione temporale, varia in funzione dell'intelligenza, del grado di sviluppo del sistema nervoso e anche dell'intensità relativa dell'impatto del presente, poiché nei momenti di stimolazione eccessiva fosse questa un pericolo, un dolore estremo o l'orgasmo (Bergler Roheim, 1946) il senso del tempo viene perduto. Già Aristotele conosceva l'esistenza di serie troppo lunghe perché potessero essere riconosciute come costituenti una configurazione coerente. Nella Poetica parla di tragedie o racconti di durata eccessiva da non poter essere concepiti come un insieme coerente, costituente una configurazione -nota 4.
Osservazione 4 Un topo bianco può essere istruito a spingere una leva per ottenere una pallina di cibo. Se però la pallina non appare quasi immediatamente dopo che il topo abbia spinto la leva, egli è incapace di "avvertire" il rapporto tra questo atto (la manipolazione della leva) e la sua conseguenza (ricompensa): la comparsa del nutrimento. Per cui un topo, la cui "ricompensa" non arriva che dopo un lasso di 15 minuti, non impara a spingere la leva più velocemente di un altro che non riceve nessuna ricompensa per la sua prestazione.
Osservazione 5 Gli psicoanalisti hanno osservato che il bebè distingue la "madre buona" (che l'allatta) dalla "madre cattiva" (che gli dà un buffetto). Per il bebè queste due persone non sono effettivamente la stessa, non soltanto perché queste "due" madri sono sorgenti di stimolazioni apparentemente incompatibili, ma anche perché sono, per di più, separate da un intervallo di alcuni secondi, minuti oppure ore. Durante le prime settimane forse anche durante i primi mesi di vita il bebè non ha, credo, un senso reale ed efficace della propria continuità e invarianza nel tempo. Dopo essere stato allattato, non "sa" più di avere mai avuto fame. Sembra incapace di "gettare un ponte" tra il bebè affamato di qualche minuto prima e quello soddisfatto e pacificamente sonnolento di adesso. Non sente che il suo "Io" è invariante malgrado e attraverso tutti questi cambiamenti di stato
semplicemente perché il bebè non possiede ancora un vero "Io", nel senso psicoanalitico della parola, che assicurerebbe il senso della sua continuità nel tempo.
Credo che in psicoanalisi si potrebbe modificare la frase di Cartesio, cogito ergo sum, e dire: Penso per essere sicuro di continuare ad esistere nel tempo. Un essere che mancasse totalmente di memoria si sentirebbe ad ogni istante come un neonato. Si osservi a tal proposito che proprio durante il periodo in cui i bambini incominciano non solo ad avere un Io effettivo, ma iniziano a sfruttare coscientemente la loro memoria e a inquadrarsi intenzionalmente nel tempo, essi si avviano a interessarsi anche del problema: Da dove sono venuto? Dov'ero prima di nascere? Esistevo prima di nascere?
La capacità di previsione, come pure la capacità di fare scientemente appello ai dati della memoria e dell'esperienza, si collega molto da vicino al senso della propria continuità. Uno dei grandi trionfi dell'intelligenza umana trionfo che ha fatto di noi degli uomini nel senso aristotelico della parola è la concezione secondo cui il presente, a tutti gli effetti, costituisce una saldatura tra passato e futuro, al posto di essere la sola cosa realmente esistente -nota 5. Laddove il presente non è guardato come una semplice saldatura tra passato e futuro si osserva quasi sempre sia una mancanza del senso dell'avvenire (previsione) sia una mancanza del senso del passato (incapacità di trarre profitto dall'esperienza). Avendo discusso altrove questo fenomeno (1966) mi sembra inutile attardarsi su di esso.
Appare invece assolutamente necessario segnalare, almeno di sfuggita, una funzione del sogno che, a quanto sappia, non è mai stata indicata con chiarezza e che tuttavia sembra essere importante almeno quanto la sua funzione di "guardiano del sonno" già riconosciuta da Freud; osservazione confermata ampiamente dagli studi fatti al Mount Sinai Hospital di New York che hanno dimostrato come i soggetti a cui si impedisce di sognare, svegliandoli appena incominciano a farlo, godono poco del loro riposo e diventano molto nervosi e ansiosi. Sono perfettamente convinto che una delle funzioni più importanti del sogno sia di assicurare, anche durante il sonno, il senso di continuità nel tempo dell'identità del sognatore. È il sogno che effettua una saldatura tra ieri e domani; esso impedisce la produzione di una soluzione di continuità tra il crepuscolo e l'alba. Questa teoria, credo, è rinforzata potentemente dal fatto che la tendenza a dimenticare i sogni va spesso di pari passo con la tendenza a dimenticare il passato non più "sentito" come appartenente "al me stesso d'oggi". Non c'è dunque niente di sorprendente nel fatto che la riconquista del passato dimenticato e la sua reintegrazione nel senso del "me stesso invariante nel tempo", osservati durante l'analisi, si associ ad un incremento della capacità di ricordare i sogni e di riconoscerli appartenenti al "se stesso" piuttosto che come materiale "estraneo all'Io" (egodistonico) o eteropsichico (inviato dagli dei, ecc.).
Per sfortuna l'educazione, che, come abbiamo visto, tenta di impedire piuttosto che incoraggiare l'integrazione dell'identità nello spazio ad esempio "gerarchizzando" le parti del corpo e differenziando gli organi "puri" dalle "vergogne" cerca anche di impedire la formazione di un senso di continuità nel tempo.
Questo intervento sull'identità temporale del bambino si produce talvolta molto precocemente nella vita. Il senso dell'identità temporale del bambino si appoggia innanzitutto sullo svolgimento unidirezionale e irreversibile di alcuni processi fisiologici, ciascuno dotato di un acme. Questo vertice dà un senso alle tappe precedenti del processo e costituisce ciò che gli psicologi della forma (Gestaltisti) chiamerebbero giustamente un "elemento di chiusura". Un processo di quest'ordine sarebbe: aver sempre più fame ed essere allattato al momento critico; o anche: aver sempre più bisogno di defecare e farlo al punto critico.
Sfortunatamente, incoraggiati da certi pediatri compiacenti, i genitori tendono a interferire con l'orario fisiologico del bebè (molto variabile ma naturale) e a sincronizzare per forza quest'orario con un pendolo "siderale", azione altrettanto irragionevole quanto quella di voler sincronizzare un orologio termodinamico con un orologio meccanico. Il bambino non viene allattato quando ha fame ma allorché il pendolo indica che è giunto il momento; deve defecare non quando ne prova il bisogno ma quando lo si esige. Ciò ha gravi conseguenze e può anche perturbare l'orientamento del bambino in rapporto al tempo poiché, come ho indicato in altro luogo (1958b), appare molto probabile che la nozione stessa del tempo sia ispirata dalla percezione soggettiva dello svolgimento di alcuni processi fisiologici, ivi compresa l'evoluzione stadiata del bambino attraverso le fasi dello sviluppo psicosessuale.
A un livello più evoluto, il fatto di esigere dal bambino un'obbedienza immediata e cieca, da automa, impedisce anche lo sviluppo di un senso reale della continuità di se stesso nel tempo. Non accade la stessa cosa per un ordine le cui ragioni vengano spiegate al bambino. Nel primo caso si tratta di una soluzione di continuità brutale: nel momento in cui irrompe nella psiche del bambino, o dello schiavo, l'ordine di origine eteropsichica s'intercala in modo violentemente intrusivo e subitaneo nello svolgimento normale di operazioni fisiologiche e psicologiche già in corso. Per poter eseguire quest'ordine, il bambino deve interrompere violentemente e far deragliare alcuni di questi processi fisiologici già avviati. Si tratta, in questo caso, di un vero e proprio aborto psicofisiologico, dell'interruzione brutale e definitiva di un processo già in via di realizzazione. Questo genere di interruzione rappresenta dunque un'autentica soluzione di continuità nel senso di se stesso nel tempo.
In un mirabile studio, troppo poco letto, poco citato e, soprattutto, per niente capito, Sperling (1950) sottolinea che l'ordine viene spesso sentito come un trauma e il trauma viene vissuto come un comando. Le implicazioni di questa concezione sono ancora da esplorare; essa apre importanti prospettive sull'avvenire delle nostre nozioni etiologiche.
Un ordine subitaneo a cui bisogna obbedire immediatamente e automaticamente resta "materia estranea"; il suo esecutore deve frenare o bloccare bruscamente lo svolgimento di un processo di origine autopsichica in cui è impegnato e prima di poter integrare quel comando nella psiche deve eseguirlo, pur continuando a recepirlo come un materiale "eteropsichico". Da qui alla concezione paranoica della macchina d'influenzamento di Tausk (1919) non c'è che un passo.
Al contrario, un ordine dato dopo una spiegazione ragionevole fa discendere l'esecuzione di quest'ordine da una sorgente riconosciuta come autopsichica. La sua messa in atto non causa dunque una rottura nella continuità di "se stesso"; non intacca il senso della continuità di se stesso nel tempo.
Questi fatti spiegano, a mio avviso, perché il Super-Io tende a conservare gli attributi di un materiale nettamente eteropsichico e perché rappresenta un aggregato fortuito piuttosto che una vera struttura; in breve, il Super-Io è composto essenzialmente da tutto ciò che non può essere né compreso, né controllato, né trasformato, in materiale autopsichico nel momento in cui gli eventi, il cui precipitato costituisce il Super-Io, si sono prodotti. L'Ideale dell'Io è invece composto dal residuo di direttive che, prima di essere eseguite, sono state comprese e governate, avendo avuto perciò la possibilità di trasformarsi in materiale autopsichico. Ho discusso altrove questi fatti (1956b) e non devo tornarci sopra pur segnalando che i passi precedenti rappresentano, da un certo punto di vista, una nuova elaborazione, certamente di grande portata, della mia teoria iniziale sull'origine del Super-Io e dell'Ideale dell'Io con la quale le mie attuali conclusioni sono del resto perfettamente compatibili. Esse completano la mia prima teoria senza modificarla affatto.
In breve, gran parte dell'educazione nega effettivamente l'identità autonoma del bambino e ignora i suoi bisogni di costituirsi un "se stesso" strutturato e invariante nel tempo. Ciò spiega perché in alcuni pazienti sottomessi durante l'infanzia a un regime particolarmente arbitrario attraverso cui i genitori si sono accaniti a negarne l'identità e a intralciarne l'individualità si osserva tanto un'incapacità quasi completa a ricordare la propria infanzia, quanto un'assenza totale del senso del vissuto nei frammenti recuperabili. Tali pazienti sono spesso anche quelli che "non sognano" o, se lo fanno, sono incapaci di produrre delle vere associazioni; le loro associazioni non sono, in generale, che delle speculazioni o dei giochi più o meno intellettuali e impersonali.
Questi pazienti mancano del senso del "vissuto", semplicemente perché una volta dovevano comportarsi come macchine inanimate, obbedendo a ordini puramente "eteropsichici" Lo stesso fenomeno si osserva anche, sotto una forma appena diversa, nel quadro del senso dell'identità nello spazio.
Osservazione 6. Un paziente, di cui tornerò a parlare, diceva "la testa" e "il pene" al posto di dire: "la mia testa" o "il mio pene". Non ho capito il senso di questo modo di esprimersi se non dopo aver letto una lettera nella quale la madre spiegava al paziente come gli aveva insegnato a servirsi del w.c.: "Si sollevava il bambino
si dirigeva il pene verso
, ecc.". La lettera dimostrava che il paziente non era stato che un oggetto; il suo pene ("il" pene), non essendo designato da un termine referenziale ("suo"), era semplicemente un pezzo smontato. Tanto la sua testa che il suo pene erano del resto esclusivamente al servizio della madre: quella testa doveva servire a far carriera; quel pene doveva assicurare un matrimonio clamoroso, ad majorem matri gloriam. I rari ricordi d'infanzia e i sogni di questo paziente mancavano del senso del "vissuto", le sue "associazioni" sui sogni erano solo speculazioni fantasmatiche e caotiche che non contribuivano quasi per niente alla comprensione dei rari sogni.
Questo genere di educazione può, in casi eccezionali, produrre tuttavia un'ipermnesia sia dell'infanzia che dei sogni.
Osservazione 7. Il figlio di una madre, il cui unico principio pedagogico era quello di spezzare incondizionatamente l'individualità dei propri bambini, comprese molto presto che, per poter fare ciò che voleva, doveva pretendere di non volerlo fare. Diventato pittore, dipingeva facilmente quadri di sua ispirazione, ma era praticamente incapace di fare un ritratto che gli venisse ordinato. La sua ipermnesia rappresentava la cronaca gloriosa di una resistenza contro l'annientamento della propria individualità.
Esiste un negativismo quasi contrattuale che rende il soggetto perfettamente manovrabile bastando esigere il contrario di ciò che in realtà si vuole da lui.
Osservazione 8. Tra gli indiani Crow (Lowie, 1935) e in altre tribù della stessa area, il nevrotico Cane Pazzo che vuol morire è perfettamente negativista ma anche perfettamente controllabile perché è sufficiente chiedergli proprio il contrario di ciò che si esige da lui.
Osservazione 9. Una donna emancipata (diplomata), appartenente a una di queste tribù, nel corso della sua analisi oscillava tra una grave nevrosi e delle bouffées deliranti. Durante i suoi episodi psicotici era perfettamente negativista ma altrettanto perfettamente controllabile: ho potuto far cessare la sua coprofagia ordinandole di mangiare le sue deiezioni (Devereux, 1953b).
Osservazione 10. Uno schizoide ospedalizzato, ma non deteriorato, controllava il dispettoso negativismo del suo protetto un giovane ebefrenico molto deteriorato ordinandogli di ribellarsi alla disciplina. Mise fine alla tendenza del suo protetto di indossare i vestiti degli altri pazienti impedendogli di indossare i propri (Devereux, 1944).
Questi fatti dimostrano che Spitz ha ragione quando dice che il bambino diventa un individuo nel momento in cui impara a dire "No!". Basta soltanto aggiungere che anche questo "no", come vedremo, può diventare un gesto quasi contrattuale -nota 6.
S'impone la conclusione che, data la tendenza di simili genitori a punire ogni manifestazione d'individualità dei loro bambini, i nostri pazienti finiscono per credere che il fatto stesso di voler possedere un'individualità sarà considerato da esseri così onnipotenti come una tracotanza punibile con la distruzione dell'identità e dell'esistenza stessa del "colpevole" Aggiungiamo semplicemente che il negativismo di questi pazienti rappresenta, al tempo stesso, un'identificazione con il nemico poiché riproduce, in sostanza, il negativismo dei genitori verso ogni manifestazione dell'individualità del bambino.