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Gilberto Di Petta, Gruppoanalisi dell'esserci. Tossicomania e terapia delle emozioni condivise, prefazione di B. Callieri e A. Correale, presentazione di L. Calvi, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 196, Euro 16,50.

Come ho già avuto modo di scrivere, recensendone i precedenti volumi, Gilberto Di Petta, contrariamente al suo maestro Bruno Callieri che, fondamentalmente, è un grande comunicatore orale, è un grande scrittore. Lo dimostra ancora una volta in questo ultimo libro, il suo più compiuto sui piani concettuali e psicopatologico e il più ambizioso in vista delle proposte pragmatiche che contiene. "Gruppoanalisi dell’esserci", già dal titolo, ripropone infatti linguaggi e concetti, ma soprattutto la questione storica dell’applicabilità operativa di un indirizzo, come la Daseinsanalyse, tanto più prezioso tanto più a rischio di estinzione e che come tale deve poter contare su delle aree protette e delle zone di ripopolazione.

Una di queste è senza dubbio quell’ "area intermetropolitana vastissima e socioculturalmente degradata, comprensiva dei comuni di Casoria, Casavatore, Cardito, Caivano, Arzano, Afragola", dove Di Petta, oltre a vivere, ha volutamente (?) scelto di rinchiudersi professionalmente, in quello che dalle sue descrizioni appare un servizio pubblico particolarmente inquietante e desolato, il Ser.T. Quest’area, e questa popolazione di utenti, così segnata dalla morte per "Suicidio, omicidio, overdose", diviene un luogo che, binswangerianamente, si apre al mondo della Cura proprio non lasciandosi assorbire dalla ritualità funebre e mortifera di questa patologia da addiction e della routine strutturata per contenerla. Per fare questo Di Petta usa l’espediente di "far finta" di dismettere ogni identità di ruolo e ogni competenza tecnica, descrivendo ciò che accade nell’interazione corpo-a-corpo con tale utenza di tossici e sballati, più o meno allucinati, comunque, come acutamente nota l’autore (nel più bel capitolo del libro, il quinto) basicamente psicotici.

Utente tra gli utenti della prassi da lui innescata, marinaio comune piuttosto che comandante, Di Petta condivide scopertamente i propri vissuti, le proprie memorie, le proprie motivazioni con i peggiori tossici di strada. Facendosi uomo tra gli altri uomini, psicotico tra gli psicotici basici, Di Petta sottrae l’utenza alla pura ritualità della terapia sostitutiva offrendo loro la partecipazione paritaria a gruppi esperienziali necessariamente ben poco strutturati. Innalza il vessillo del vissuto (dell’Erlebnis), sollecita il pathos più estremo e ne esplora il potere mutativo, quando, nella condivisione gruppale, riesce a spalmare componenti emotive brute ed estreme. I reports di queste esperienze spesso drammatiche e drammatizzate si mescolano e si alternano, come sempre nell’opera di Di Petta, con considerazioni più classicamente psicopatologiche, con esercizi linguistici mirabilmente creativi (virtuosistici quando si immettono nelle etimologie) e ricerche stilistiche e finezze espressive degne dei grandi scrittori della strada o del termine della notte. Il testo si raddoppia in una fila continua di note e specificazioni che, come un basso continuo o una voce fuori campo, accompagnano il testo maggiore rinchiudendo spesso alcune delle migliori riflessioni e intuizioni.

Chi è, insomma, questo Di Petta, che, con modalità volutamente esibite, masochiste e provocatorie sembra prenderci gusto a mostrarsi nelle vesti più dimesse e degradate? Forse un grandioso narcisista che, rivoltandosi nel fango del fallimento di tutti i suoi ideali, si trasforma in un Sansone che quegli ideali (di setting, di efficacia, di qualità del lavoro professionale) dichiara inesistenti ma che in realtà, nello stesso tempo, ne utilizza le macerie indifferenziate come materia bruta e magmatica per la creazione alchemica dell’opus: Di Petta appare l’ombra psichiatrica di una delle più grandi icone della tossicodipendenza, quel William Burroughs che Cronenberg, nel suo Naked Lunch, ci mostra aggirarsi allucinato per la casbah di Tangeri portandosi appresso, in pezzi, la macchina da scrivere con cui trasformerà il delirio in scrittura, la vita di reietto errante in acute visioni essenziali della condizione umana.

Di Petta si lascia prendere la mano dal suo deliroide nichilistico, lo rende con enfasi e iperboli, ma non va creduto. Risorge dalle sue ceneri proponendo, suo malgrado, un metodo di lavoro, un setting per il suo svolgimento, delle regole da seguire, seppure, come lui dice, la prima regola, nella conduzione di questi gruppi, è non avere regole. Il lavoro si risolve, come testimoniano le continue metafore nautiche, in un viaggio per mare senza rotta e senza strumenti, con frequenti immersioni negli abissi.

Il preteso azzeramento tecnico si rende però possibile solo in virtù di una grande interiorizzazione dei diversi setting attraversati da Di Petta nella sua formazione personale (clinica neurologica, psicoanalisi, psicopatologia) che gli conferiscono la capacità di provocare e selezionare nel lavoro di un gruppo perennemente instabile, mutante nella sua composizione e fortemente frustrante per gli operatori, quello che è pertinente al suo scopo: i vissuti emotivi grezzi e coscienti (ma non manca qualche sogno), trasmissibili e risuonanti. L’intervento sedicente "ad alzo zero" presuppone infatti una competenza ed una sensibilità non comuni, perché il gruppo produca "qualcosa" di significativo, vale a dire, in quel contesto, qualcosa di diverso dalla droga, dai suoi effetti, dalla sua gergalità, dal suo saturante desiderio.

Il metodo di lavoro di Di Petta, come lui stesso ammette, ha antecedenti nei gruppi terapeutici che Bion effettuava in tempo di guerra; ha molto dello psicodramma di Moreno e, probabilmente, di altre esperienze più recenti (penso ad esempio a certi gruppi di autoaiuto ma anche a certi gruppi religiosi). L’esperienza non è cioè in sé cosi innovativa, a parte la specificità dell’utenza ed il contesto in cui si situa. Inoltre, quello che Di Petta cerca non è forse lo stesso evento dell’ "esperienza emotiva mutativa" rincorso da tanta psicoanalisi umanizzata?

Il grosso problema di questo tipo di intervento, in relazione all’utenza cui si rivolge, è che ogni tossicodipendenza, prima ancora che curata, va contenuta, ed il potere contenitivo dei legami gruppali, come Di Petta confessa e descrive, è terribilmente blando, tutto affidato alla memoria affettiva di soggetti che vivono in un perenne stato di alterazione crepuscolare ("chiaroscurale ", come mirabilmente descrive l’autore) della coscienza. Di questo stesso "onirismo" risente anche il libro, col suo procedere associativamente, alternando generi e motivi, con la sua assenza di limiti (il rifiuto dello stile misurato dei padri viene compensato da un’ossequiosità a volte eccessiva nei loro confronti), col suo autobiografismo esasperato che va a ripescare vissuti personali, infantili e adolescenziali.

Il libro si chiude enigmaticamente, ma non troppo, con una fenomenologia del clown derivata da Starobinski (anche se manca il riferimento in bibliografia).

Il clown, questa "sorta di traghettatore, di mediatore tra il visibile e l’invisibile", che "fa capriole in uno spazio irreale", sembra affascinare Di Petta in quanto appare la più autentica delle identificazioni di ruolo (delle non-identificazioni di ruolo, delle identificazioni di non-ruolo) possibili su questi sfondi micro-sociali e macro-sociali. "Io sono —si confessa Di Petta-, sul piano umano, definitivamente borderline, perché vado nella morte e dalla morte ritorno: perchè, a modo mio, funambolico, domino il confine, sconfinando ad ogni istante (…)".

Il libro di Di Petta è un’opera appassionante e impressionante, coraggiosa e importante, soprattutto come operazione stilistica di rottura, trasgressione e ibridazione concettuale e linguistica, nell’attuale, sterilissimo, panorama della letteratura psicopatologica. Essa si apre anche ad una lettura politica in quanto offre cospicui esempi dal prezzo pagato dalle migliori menti per tentare di lavorare nei servizi pubblici italiani, almeno "in certi", che, selezionando la mediocrità, la routine e il quieto vivere, si adagiano nell’abbattimento delle prestazioni al minimo da garantire e, di conseguenza, ad un massacro per l’intelligenza ed il cuore di soggetti che hanno conseguito altrove formazioni e competenze di alto profilo. Un vero e proprio scandalo che nessuno, incomprensibilmente, denuncia, forse perché ai più sta bene così o perché la psichiatria pubblica, in fondo, resta una disciplina marginale (non è e non potrebbe essere così in cardiochirurgia o in ortopedia, ad esempio). Intanto, come gli scenari dipinti icasticamente da Di Petta denunciano benissimo, i tossici si sterminano da soli con la loro esistenza erratica e allucinata, svenduta e disperata; i malati di mente, quelli veri, che oggi non hanno neppure più il diritto al nome di schizofrenici, se ne stanno rintanati nei loro scantinati quando non sono agguantati dalle lasche e cronificanti maglie dei servizi "terricomializzati".

Il nostro auspicio è quindi che la diffusione di questo testo serva da stimolo per un dibattito che travalichi gli angusti limiti professionali e di scuola e riproponga in tutta la sua pienezza di essere la questione generale della salute mentale in Italia.

 

Riccardo Dalle Luche

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