Si potrebbe ribattere all'impianto jaspersiano sul piano clinico,
mostrando ad esempio la possibilità, oltre alla necessità, di
superare il muro dell'"incomprensibile" nella clinica della psicosi.
Altri l'ha fatto. Piuttosto il passo ulteriore che vorrei proporre è
di andare a fondo nel paradigma epistemologico attraverso cui Jaspers si
oppone alla psicoanalisi, saggiandone la consistenza. Infatti, se Jaspers attaccala psicoanalisi quale ibrida disciplina del comprendere "come se",
in definitiva è perché si aggancia a una discutibile
opposizione tra spiegazione e comprensione, tra scienza della natura e scienza
dello spirito e inoltre il suo approccio metodologistico lo conduce a una
rigida separazione di ambiti. In lui i diversi metodi solo coesistono,
mentre paiono esclusi pregiudizialmente momenti di integrazione tra le
categorie epistemologiche di rispettiva competenza. Ed è da sottolineare chele medesime opposizioni di categorie epistemologiche continuano per
lo più a valere tra gli psichiatri di matrice fenomenologica.
Nonostante tutto, poi, esse sono nella sostanza riproposte anche fuori della
psichiatria fenomenologica: si ricordi il cosiddetto Methodenstreit (lotta
attorno al metodo), che contrappose negli anni `60 Popper a Habermas. Inoltre
lo stesso Grünbaum (1984), mentre mette in guardia la psicoanalisi
dalla sirena dell'ermeneutica se scienza (della natura) vuol essere,
rifiuta di cogliere le istanze provenienti dall'altro versante.
E' punto comune alla maggior parte degli orientamenti
fenomenologici appoggiarsi alla consistente tradizione di ricerca fiorita tra
storici, filosofi, sociologi economisti tedeschi a partire dalla seconda metà
dell'Ottocento, per la quale le scienze in generale sono ripartite entro e maglie della distinzione tra Geistes- e Naturwissenschaften.
Ora vorrei mostrare come quella distinzione si sia rivelata una camicia di forza per lo sviluppo della psicopatologia e come del resto non
corrisponda oggi né agli sviluppi delle scienze né trovi conforto
nelle riflessioni epistemologiche. E' da chiedersi se la psicopatologia non
esiga, assieme ad altre discipline quali la linguistica, la cibernetica, la
sociologia, di ridisegnare la mappa di quelle stesse categorie epistemologiche.
Le categorie epistemologiche, già in parte anticipate, possono
trovare espressione schematica, al fine di facilitare il confronto, nel
quadro sinottico qui sotto proposto, e composto a partire dagli stessi
riferimenti jaspersiani.
Le coppie dalla 1 alla 6 recepiscono le classiche dicotomie
avanzate nel contesto dello storicismo tedesco (Dilthey, Simmel, Rickert, Weber).La coppia 9 vale nell'ambito della psicologia ed è la
soluzione jaspersiana della questione dell'inconscio: il senso che attualmente
mi sfugge, si diceva, è solo un che di inosservato. La coppia 10
dipende dalla tesi tipicamente jaspersiana della limitatezza (Beschränktheit)
del comprendere: v'è dell'incomprensibile (Unverständliches),
perché non in tutti posso immedesimarmi empaticamente. Al contrario
la conoscenza che spiega dall'esterno (extraconscia), non conosce limiti
di principio (Unbeschränktheit des Erklärens), come
appunto accade nelle scienze naturali, che non prevedono la immedesimazione
del soggetto con l'oggetto di conoscenza.
Ciò che colpisce nella distinzione metodologica jaspersiana è
la rigida attribuzione dell'un termine di ciascuna coppia alla spiegazione
e del suo complementare alla comprensione, di modo che spiegazione e
comprensione sono definite da due classi di concetti tra loro disgiunte. Pertanto
gli elementi appartengono ciascuno necessariamente alla propria classe,
nel senso che la sostituzione col proprio complementare creerebbe
contraddizione entro la classe data. Appare così inconcepibile che, ad
esempio, la causalità possa esser compatibile con la comprensione
(entro le scienze dello spirito) o che la particolarità del caso
singolo possa entrare nella spiegazione, che dal canto suo è formulata
in termini di leggi, di universali. La rigida distinzione tra le due
classi si direbbe un retaggio culturale di Dilthey (1894), attraverso il
quale Jaspers dapprima si accosta al metodo delle scienze dello spirito; ma
essa non può non suscitare sorpresa, venendo riproposta da parte di
chi si richiama in più luoghi all'insegnamento di Weber, che anzi
ritiene suo maestro.
Nel saggio del 1932 (trad. it., pp. 57
ss.) a lui
dedicato, Jaspers non ignora le tesi metodologiche di Weber; nell'Autobiografia
(1957) gli ribadisce la sua ammirazione. Ipotizzerei allora che
Jaspers ritenesse di poter ricondurre i concetti epistemologici weberiani,
segnatamente quello di idealtipo di cui più sotto, interamente al quadro
epistemologico del comprendere, trascurandone gli impliciti caratteri esplicativi e
di legalità; che inoltre deliberatamente ignorasse, nel presente
contesto, la tesi weberiana sulla compatibilità di causalità e "possibilità
oggettiva" con la descrizione o comprensione dell'evento storico
singolo, perché contraddittoria colle proprie tesi.
Infatti proprio Weber è colui che in certo modo "rimescola
le carte" delle due classi di concetti, non escludendo le
nozioni di causalità, legalità, universalità dalla
ricerca storiografica e dunque dalle discipline che lavorano col comprendere,
della quale nozione tiene fermi tra l'altro l'interpretazione, il carattere
singolare dell'evento storico. Sfortunatamente, per quel che ne so, il discorso
non risulta sviluppato nel senso weberiano da altri psichiatri di
orientamento fenomenologico.
Occorre tornare a dar voce a Jaspers, per appurare il significato
che attribuisce ai concetti salienti tra quelli elencati. Il concetto di causa
è certo emblematico, tanto da essere sinonimo di spiegazione, come
appare nel titolo del citato articolo del 1913, dove a comprensibile (verständlich)
viene senz'altro contrapposto causale (kausal). Ai rapporti causali,
che vedono l'estrinsecità tra causa ed effetto, si contrappongono i rapporti di comprensione o genetici (coppia 1 sopra), che mirano ad
individuare lo psichico in quanto scaturisce dallo psichico medesimo. Ma perch»
la causalità si dà solo dal lato della spiegazione, ovvero
della scienza naturale? Si nota che in Jaspers causalità vale nel
senso della causa efficiente prevalente in fisica, per cui la causa
suppone una forza: pur rendendosi conto che già la biologia esige
forme di causalità non lineari ma come insiemi di rapporti "circolari",
come meccanismi a feed back diremmo oggi, tuttavia opta per la
riconduzione di ogni forma di causa alla causalità fisico-meccanica, alla
quale, a suo dire, "non si aggiunge nessun'altra causalità
biologica nuova. Ogni causalità riconosciuta ha carattere meccanico"(Jaspers, 1959, trad. it., p. 487).
Di contro sia consentita la parentesi di notare come in seno alla
biologia stessa si faccia nuovamente valere la nozione di causa finale, sia
pure nel senso di una finalità preterintenzionale o "teleonomica",
per stare all'espressione del grande biologo Mayr. Questo altro tipo di
causa dice anche del senso di un fenomeno, come nell'esempio fatto dallo
stesso Mayr (1981) della riproduzione sessuata: il senso del suo esserci,
ovvero il suo fine, è di permettere una ricombinazione genetica più favorevole alla propagazione della specie.
Inoltre in psicologia per
Jaspers, se c'è una causa (Ursache)
di cui un certo stato o processo mentale è effetto, essa è
soma: "... è concetto fondamentale che tutti i rapporti
causali, tutto il substrato inconscio dello psichico abbiano la loro base
in processi fisici" (Jaspers, 1959, trad. it., p. 491). Può
essere questione di parole chiamare o no causa altri tipi di rapporto,
tali che la presenza/assenza di A o la variazione di A abbia conseguenze
su B (causa come ragion d'essere, causa come fine, causa come forma, causa
come conseguenza logica); ma va rilevato il carattere limitativo
dell'opzione meccanico-somatica di Jaspers nell'intendere la causalità.
Fuori di tale opzione non si vede perché debba valere l'interdizione
a parlare di causa nella correlazione tra una rappresentazione e l'altra
ecc., nella motivazione o nell'intenzione che promuove un certo
comportamento, senza dover di necessità supporre forze, o dover risalire alle
basi somatiche. Un esempio, fuori della psicoanalisi e della psichiatria, è
dato dalle correlazioni gestaltiche nella percezione, dove il nuovo
elemento opportunamente collocato dà luogo alla ristrutturazione
dell'insieme, ovvero appare alterato in funzione dell'insieme in cui è dato: ciò
accade senza dover ricorrere, ma per via di semplici rapporti spaziali.
Del resto la tesi jaspersiana della "genesi" di una datità
psichica da un'altra pare comportare l'idea di una progettualità,
che è qualcosa di più di una mera associazione. E perché
allora respingere l'idea - come fa espressamente Jaspers - che la
trasgressione, date certe condizioni, sia "causa" (sufficiente) del senso
di colpa, l'amore tradito della gelosia, ecc.? Se dunque Jaspers non ha
torto di rifiutare allo psichico una nozione di causa invalsa in fisica
(limitata cioè alla causa efficiente e concepita come indissolubilmente
legata a forze, a energie), è però vero che l'ampliamento
della nozione, anzi la sua radicalizzazione nel senso di causa come
motivazione e in generale causa come ragion d'essere di qualcosa, non ne esclude
l'uso nell'area dello psichico.
La contrapposizione di induzione e intuizione (coppia 3) suppone
una concezione positivistica circa il modo con cui si formulano le leggi e
si costruiscono le spiegazioni nelle scienze naturali. Ancorché con una certa finezza Jaspers (1913, p. 162) osservi che il concetto
di causa non è empirico, ma precede ogni esperienza dovendola
spiegare, egli concorda tuttavia con l'epistemologia positivistica, nel
ritenere il rapporto causale tra due fatti inferito dalla percezione sensibile
esterna. E poiché diversa è l'esperienza dello psichico in
quanto interno - Jaspers conclude - per cogliere lo psichico occorre adire a
un altro tipo di conoscenza, alla "intuitiva rappresentazione dal
vivo (anschauliche Vergegenwärtigung)" (Japers, 1913, p.
160). Ma la contrapposizione non regge: la rappresentazione intuitiva
interviene anche nella psicologia della scoperta e della creazione di teorie
nelle scienze naturali. In effetti l'induzione dai fatti obiettivi, assunta
a canone anzi a dogma per la costruzione di leggi scientifiche in area
positivistica,
è cosa smentita dalla storia della scienza, prima che dalle
acquisizioni epistemologi che successive al neopositivismo: è manifesto per
quali e bizzarre vie oltre all'intuizione - fino alla rivelazione nel sogno
- gli scienziati siano spesso pervenuti a formulare anche teorie di grande
successo. Insomma, qui Jaspers attacca l'immagine positivistica della
scienza, egemone al tempo della sua formazione culturale, come se fosse la
scienza (naturale) tout court - cosa allora comprensibile, oggi non più
perdonabile.
Tralasciando le riserve che si possono fare sulle saldature
jaspersiane tra psiche-interno-fenomenico, fisico-esterno-sensoriale (coppia 2) -
quasi che la psichicità non consistesse anzitutto in un protendersi,
un rapportarsi a qualcosa d'altro e la distinzione tra interno ed esterno
non fosse invece un guadagno successivo -, è ora opportuno
soffermarsi sul tipo di convalida delle affermazione conseguite rispettivamente
coi due metodi.
E poi interno o esterno rispetto a che cosa?
Sappiamo che nello schema corporeo, nelle varie forme di identificazione con
l'altro individuo, nel mondo di cui si dice "questo è il mio mondo",
l'io si protende su di un'area' che non si può dire solo interna, né solo esterna.
Al contrario del fenomeno fisico, la cui oggettività
(cioè non immanenza alla coscienza) obbliga ad inferenze logiche, a
mediazioni, il fenomeno psichico sollecita nell'ottica jaspersiana un
procedimento immediato, qual è appunto l'intuizione. Nel primo caso, la
convalida di un'affermazione sarebbe principalmente data dalla prova
sperimentale; nel secondo caso, il carattere immediato con cui si perviene ad
un'affermazione, farebbe della medesima alcunché di evidente, e quest'evidenza "hatihre Überzeugungskraft in sich selbst"
(Jaspers, 1913, p.162), cioè, alla lettera, "ha la sua forza di convinzione
in se stessa" (cfr. anche Jaspers, 1959, trad. it., p. 326). Evidenza
dunque versus verifica empirica.
A me pare che in Jaspers, e in ragionamenti analoghi ai suoi
ricorrenti in area fenomenologica, si confonda il procedimento logico con cui si
intende convalidare qualcosa, col procedimento psicologico o logico con cui
si perviene a formulare quel qualcosa. Così la costruzione stessa
di una spiegazione scientifico-naturale, si accennava poc'anzi, può
esser frutto di intuizione, può risultare psicologicamente di
folgorante evidenza, come l'eureka! di Archimede, ma non per
questo la si ritiene ipso facto valida. Si deve certo riconoscere
l'evidenza dell'esperienza vissuta, in quanto è quel che io
immediatamente vivo: ma non per questo la descrizione di essa, e a maggior ragione
le asserzioni che si fanno quando si trovano relazioni tra dei vissuti,
sono di per sé valide. In altri termini, l'evidenza del vissuto non
coincide con la validità della descrizione - e a maggior ragione della
spiegazione - che se ne può dare.
A proposito Weber appare avvertito, quando in
un'interessante escursione nel campo della psicopatologia afferma: "Non solo la
'psicoanalisi simpatetica (einfühlende Psychoanalyse)' di una psiche
malata rimane proprietà incomunicabile dello specialista, ma per
giunta i suoi risultati rimangono del tutto indimostrabili e perciò
di validità assolutamente problematica, se non si riesce a
collegare la connessione simpateticamente riprodotta nell'esperienza con i
concetti
ricavati dall'esperienza psichiatrica generale. I suoi risultati sono
'intuizioni' dello specialista 'su' di un oggetto, ma fino a che punto hanno
oggettivamente valore, resta in via di principio incontrollabile" (Weber, 1903-06,trad. it., p. 106).
Ancora: l'evidenza dell'intuizione non è la validità
evidente della conoscenza, quale si esprime in proposizioni - se è vero come
è vero che pure la conoscenza "comprendente", quando è
comunicata, non può non passare per il linguaggio. In effetti, il
linguaggio comporta l'uso di predicati, dunque di concetti, le cui
connotazioni sono sempre relative a una lingua storicamente data: anche le
semplici parole della descrizione non sono etichette di cose, a loro volta ben
delimitate, ma segmentano per così dire il fluire dell'esperienza e la
segmentazione varia da una lingua all'altra. Ciò vale a maggior ragione
quando ciascuno parla delle proprie emozioni, dove più evidente è
la curvatura idiolettale, anche perché il referente nel caso di
un'emozione non è una cosa esterna che tutti possono constatare(siamo certi che quando uno ci dice: "Sono depresso", oppure
"Sono ansioso" sta usando le stesse parole che userei io, se
avessi lo stesso sentimento?) E' poi lunga tradizione ritenere la parola
giammai coincidente con la cosa di cui dice, sia pure un vissuto: il vissuto
è una cosa, la parola che lo descrive è altra cosa - e
insistere sulla coincidenza di descrizione e di vissuto è comunque fare
una teoria! Insomma, la parola è per nulla trasparente rispetto al
fenomeno che descrive e del linguaggio non si può fare epoché,
al fine (illusorio) di una presa diretta e senza presupposti delle cose.
Forse quanto vi è di incomprensibile in un vissuto dipende da
questa struttura del linguaggio, che lo manca inevitabilmente quando vuol
descriverlo, piuttosto che dal fatto che ci siano dei vissuti non suscettibili di
comprensione empatica, come vuole Jaspers.
Ma anche qui occorre seguire Jaspers con pazienza, per non correre
il rischio di forzarlo in una posizione schematica di facile bersaglio. In
verità egli si dibatte tra concessioni all'evidenzialismo proprio
del comprendere e la consapevolezza della complessità del caso
singolo, non esauribile nella stessa comprensione. E' a questo punto che
interviene il concetto weberiano di idealtipo (coppia 6 sopra): accolto da
Jaspers, esso assume il significato di un nesso intuitivo, evidente, ma
separato rispetto al composito materiale di una situazione concreta. "Tutta
la psicologia comprensiva [...] si basa su sentimenti di evidenza nei
confronti di relazioni comprensibili, distaccate, completamente impersonali.
Tale evidenza viene acquisita in occasione dell'esperienza concreta
di fronte a personalità umane, ma non induttivamente dimostrata"
(Jaspers, 1959, trad. it., p. 328). La conoscenza come verità
evidente, in altri termini, varrebbe a livello di idealtipo, mentre a livello
del singolo evento la comprensione resta incompleta (in gewissem Masse unvollständig).L'idealtipo interviene come connessione "ideale", la cui
tenuta cioè è indipendente dal reale caso particolare:
nell'idealtipo la connessione è evidente, non di necessità è
reale. Pertanto il rapporto che si instaura tra idealtipo e caso singolo è
quello di un'"interpretazione (Deutung)". L'evidenza
idealtipica, anche se guadagnata in occasione di un caso particolare, è
guida per la comprensione di quel caso e di altri casi particolari (Jaspers,1913, p. 163; 1959, trad. it., p. 329).
In linea di principio il caso singolo è suscettibile di
ulteriore interpretazione, mentre la comprensione dell'idealtipo, resta nella
sua idealità, esaustiva. E' l'esatto inverso di quanto accade, per
Jaspers, nella spiegazione naturalistica, secondo la quale il caso singolo
sarebbe dedotto nella legge generale. Qui l'universalità della legge
(della teoria, del concetto), in quanto guadagnata per via induttiva, non
gode di validità evidente (non è in sich überzeugend),
come invece l'idealtipo, ma una volta che il caso particolare sia stato
sussunto nell'universale della teoria, esso è colto in maniera
necessaria, esaurito senza residui (coppia 7 sopra). Conclusione coerente è
allora che la scienza naturale lavora attraverso la teoria (schemi
astratti, universali); la psicologia comprendente invece lavora (interpreta,
approda a conclusioni parziali, verosimili) attraverso quel tanto di generalità
guadagnata nell'intuizione, folgorante per quanto frammentaria, offerta
dall'"aforisma" (coppia 8 sopra). E infatti i maggiori "psicologi"
comprendenti, osserva Jaspers, sono stati letterati e filosofi come
Montaigne, Pascal, e, massimi, Kierkegaard e Nietzsche (Jaspers, 1913, p. 168;
1959, trad. it., p. 341, passim).
Sulla tesi che l'interpretare sia appannaggio del comprendere e
delle scienze umane (con quel che consegue di incompletezza della
descrizione e di non esaustione del caso singolo nel concetto universale),
Jaspers va smentito. Il rapporto dell'interpretare collo spiegare nelle
scienze naturali non è poi così diverso da quello col
comprendere nella psicologia: quando mancano le condizioni sufficienti per poter
spiegare il caso singolo si apre comunque il processo dell'interpretazione. In
altri termini, un problema di interpretazione appare nelle scienze
naturali, quando un fatto strano, originale, non è deducibile dalle
leggi fin qui note, cioè quando mancano, per dirla con Hempel (1953) le
"leggi di copertura" (e tanti sono i casi in cui si dispone solo
di condizioni necessarie, ma non sufficienti a spiegare l'evento singolo).Si formulano allora una serie di congetture contestuali, in una
aperta dialettica tra quel caso e qualche legge generale, nota o da
ipotizzare. Anche nei più classici esperimenti di fisica, poi, vi è
sempre un margine di interpretazione quando il risultato si discosta da
quanto previsto dalla legge: bisogna ipotizzare ulteriori variabili
intervenienti. Il fatto che in psicologia come in ogni scienza umana il soggetto
interpretante sia lui stesso in gioco nell'oggetto da interpretare, è certo
elemento specifico, ma non stravolge lo schema del rapporto
spiegazione-interpretazione (anzi, se diamo retta alle posizioni epistemologiche di
Kuhn, nel paradigma attraverso cui lo scienziato legge il mondo stesso della natura, è
compreso lui stesso, con una concezione di sé e dei suoi scopi come
uomo e come scienziato).
5. Comprendere "e" spiegare: il caso della psicoanalisi
Oltre agli aspetti non più sostenibili alla luce della
recente epistemologia e storiografia delle scienze, le tesi jaspersiane
mostrano difficoltà anche solo alla luce di un'analisi interna. Ad
esempio, coerenza impone a Jaspers di giungere a conclusioni francamente
paradossali. Se l'evidenza e l'intrinseca validità dell'idealtipo stanno su
un piano diverso dal problematico e mai esaurito caso particolare; se in
generale i dati sensibili, ma a rigore anche i fenomeni psichici, non dicono
nulla a conferma o a smentita di un rapporto comprensibile a livello di
idealtipo, occorre allora accettare (Jaspers, 1959, trad. it., p. 329) che il
rapporto intuitivo tra stagione autunnale e accresciuto tasso di suicidi sia
di per sé vero, ancorché la statistica mostri la verità
empirica del contrario (ci sono più suicidi nella bella stagione).
La paradossalità consistente in una sorta di doppia verità,
quella fattuale e quella idealtipica, paga lo scotto di un certo modo di
intendere l'idealtipo. Mentre lo scarto tra idealtipo ed interpretazione
del caso reale va tenuto fermo - per lasciar aperta una via di uscita
dalle secche della coincidenza tra evidenza dell'intuizione e verità
per evidenza -, occorre rivedere lo statuto epistemologico dell'idealtipo,
specie quanto alle condizioni della sua veridicità. L'idealtipo
potrebbe diventare, per una certa universalità di cui gode ma in un rapporto interattivo col caso singolo, ad un tempo guida
all'interpretazione e concetto chiave sulla via del superamento della dicotomia spiegare/comprendere.
Una sollecitazione a tale superamento viene proprio dalla
psicoanalisi e dalla problematica compresenza in essa di due paradigmi
epistemologici. Si suole infatti differenziare in essa la metapsicologia, che tratta
del funzionamento dell'apparato psichico secondo un approccio
naturalistico debitore a modelli fisico-energetistici, e la clinica, che lavora
sull'interpretazione, sulla ricerca del significato proprio delle manifestazioni psichiche
(sintomi, sogni, ecc.). La distinzione è grosso modo sovrapponibile alla
giustapposizione di forza e senso in Freud, denunciata a partire da
Ricoeur. Ma quanto
regge la distinzione forza senso, se intesa come contrapposizione? Il tema è
scottante, perché è come dire che la scissione scienza della
natura-scienza dello spirito attraversa la stessa psicoanalisi, e se ci
fosse un'effettiva alternativa tra forza e senso, avrebbe infine ragione
Jaspers a denunciare un'eterogeneità di approcci in Freud (qui
trascuro il carattere obsoleto, denunciato da più parti, del modello
energetistico freudiano alla luce della recente neurofisiologia: chi sostiene la
metapsicologia può ipotizzarne la sostituzione con altro modello). Ecco
allora che la psicoanalisi diventa terreno cruciale proprio per il dibattito
epistemologico. Ebbene, si potrebbe rispondere al quesito, affermando che non c'è
senso senza forza, che è anzi specifica idea psicoanalitica proprio
la concomitanza dei due, giacché il gioco, la connessione delle
rappresentazioni (Vorstellungen), attraverso cui si esprimono i rapporti di senso, è comunque supportato da desideri, da
bisogni, cioè da fattori "dinamici". Inoltre la pulsione, ben
lungi dall'essere mera vis a tergo indifferente alla
rappresentazione investita, è strutturalmente composta pure dell'oggetto (rappresentazione)attraverso cui può soddisfarsi (stando almeno a
Freud, 1915).
E' questa un'interessante linea di ricerca, che può avvalersi di
una tradizione che parte già da Spinoza (XVII sec.), quando
genialmente connette nell'affetto indissolubilmente la forza (conatus) con
l'idea (idea). Questa via imporrebbe di entrare nel merito della psichicità
e del nesso colla corporeità, cosa che tralascio volendo qui
percorrere la via epistemologica; l'ho ugualmente additata, perché anche
per questa via risulta inaccettabile una concezione dicotomica del
rapporto forza/senso, pulsione/rappresentazione, che finisce poi
coll'espungere il primo termine.
Piuttosto, a risposta del medesimo quesito, è da rilevare
che nella psicoanalisi sono presenti una vasta gamma di teorie intermedie,
che clinica non sono più, perché comportano ampie
generalizzazioni esplicative, e metapsicologia non sono ancora, perché non di necessità
dipendenti dalla modellistica biologico-energetica, o comunque da
un'univoca concezione dell'apparato psichico. Tra di esse è da ricordare
la teoria delle fasi di sviluppo infantili, con le relazioni oggettuali
proprie di ciascuna; i processi di identificazione attraverso cui si plasma
la personalità; connessioni tipiche tra aggressività e senso
di colpa, ecc.; le modalità narcisistiche delle stesse relazioni
oggettuali (su cui oggi tanto si insiste); e poi soprattutto quelle
strutturazioni tipiche, quei canovacci potremmo dire, che plasmano il modo con cui
il oggetto si rapporta al mondo, cioè i complessi d'Edipo, di
castrazione, i fantasmi di seduzione, della scena primaria ecc. Sono nozioni che
stanno a monte delle interpretazioni offerte nella clinica e che in certo
modo le orientano, ma sono compatibili, ripetiamo, con più modelli
di spiegazione a livello di apparato psichico. In quanto si tratta di
schemi, di costrutti esse non sono fenomeniche e quindi non sono accettabili
entro il modello del comprendere inteso in senso stretto. Ma neppure sono
riducibili al modello naturalistico della psiche, perché non esigono
l'armamentario fisico-energetico della metapsicologia freudiana, né al
modello dello spiegare, perché non valgono come "leggi di copertura"
da cui dedurre il caso, bensì come leggi o segmenti di spiegazione,
che intervengono nella descrizione clinica di un dato soggetto. Insomma
sono schemi tipici (processi psicologici tipici, strutturazioni tipiche)che fungono da strumenti euristici, per spiegare o comprendere, che dirsi voglia, i processi mentali di un certo soggetto. Non v'è
pertanto contrapposizione tra l'universalità della legge e la particolarità
del caso singolo.
Introdurrei altri esempi, essendo un punto cruciale per la
saldatura tra teorie specificamente psicoanalitiche e questioni
epistemologiche. Oltre ai già menzionati schemi o strutturazioni tipiche legati
all'Edipo, le cosiddette "posizioni" della Klein (schizo-paranoide e
depressiva); la relazione winnicottiana del soggetto con l'oggetto
transizionale;
quella kohutiana del Sé con l'oggetto-Sé; l'oscillazione
bioniana D<-->PS e la funzione alfa; la strutturazione lacaniana del
soggetto attraverso il Nome del padre; ecc.: ancorché queste
organizzazioni di per sé non siano date come vissuti o fenomeni al soggetto (il
soggetto semmai ne è già "preso dentro", cioè
diventa tale proprio attraverso esse), esse non sono tuttavia concetti o realtà esterne, che suppongono cioè entità
diverse da quanto è da comprendere, ovvero di natura diversa da ciò
che è vissuto; né suppongono cause estranee a ciò
che è vissuto. Potremmo dire che si tratta di organizzazioni
immanenti al vissuto stesso. Il loro carattere dal punto di vista conoscitivo è
pertanto quello di schemi concettuali entro cui si organizza il materiale
in relazioni esplicative, ma anche in relazioni di senso - la differenza
ormai si fa sfumata -, se è vero come è vero, che orientano
l'interpretazione clinica e conferiscono una significatività alle
formazioni in apparenza "insensate" (sintomi, sogni, ecc).
6. Sull'idealtipo
Si può cogliere a questo punto come la nozione di
idealtipo, in un'accezione più vicina a Weber che non a Jaspers, torni
opportuna: compone la singolarità con la regolarità della legge,
rendendo in particolare necessaria l'introduzione di costrutti teorici per la
stessa interpretazione del caso singolo o anche l'introduzione di "segmenti"
di spiegazione nella descrizione di una storia (in Weber elettivamente si tratta di eventi "macrostorici", qui della "microstoria"
di un individuo, segnatamente nella relazione terapeutica). Che sono
infatti le nozioni o teorie psicoanalitiche sopra ricordate, se non collegamenti
tipici di afferenze, di rappresentazioni, di "significanti"(nel gergo
lacaniano) che pertanto fungono da schemi di lettura? Idealtipici, perché da una parte sono schemi ricorrenti, dall'altra nel
caso reale sono mai presenti nella purezza, se non come casi limite. Così
è dato vedere nel caso concreto elementi non riconducibili alla
forma standard, talora anzi la giustapposizione di più forme
standard: l'Edipo "normale" è caso limite di una
realtà in cui sono sempre compresenti forme invertite, con tutte le sfumature intermedie. E poiché sono strutturazioni
ricorrenti, ma non esauriscono la straordinaria complessità di una storia
individuale, non valgono come meri universali da cui dedurre ed esaurire i
caratteri del caso particolare, secondo il ricordato modello
nomotetico-deduttivo, invalso nelle scienze naturali (del resto nel caso di una storia
personale tante sono le variabili, che ben difficile sarebbe esibire tutte le
leggi i copertura sufficienti.)
Quale più determinatamente lo statuto epistemologico di
siffatti idealtipi? Quanto alla loro genesi, certo essa non è
induttivo-statistica: la psicoanalisi freudiana si è costruita su un piccolo numero dicasi esemplari; altrettanto è da dirsi di quella
kleiniana, kohutiana, ecc. Si tratta piuttosto di intuizioni - nel senso etimologico di "vedo
dentro" - entro casi singoli, le quali colgono schemi relativamente
generali.
Qui in accordo con Jaspers; ma è sintomatico
che questi parli piuttosto del darsi del rapporto idealtipico "in
occasione di (aus Anlass der)" un caso singolo, quasi che,
platonicamente, se non intendo male, l'idealtipo esistesse di per sé.
Preferirei piuttosto vederlo come un nostro costrutto immanente al caso
medesimo: lo si conosce, o meglio lo si elabora a partire da quel caso, come la
struttura propria di quel caso, ma anche astraibile dal quel caso.
Questi schemi sono organizzazioni di elementi che eccedono la mera
sommatoria delle datità fenomeniche, mentre permettono di leggere in
certa unità significativa, nel senso che le datità sono ben
correlate tra di esse all'interno dello schema. Una volta guadagnati, questi
schemi valgono in tanto in quanto fungono, cioè sono euristicamente
efficaci in casi simili a quello iniziale. La loro validità conoscitiva è
data non già dal fatto di essere intuitivamente evidenti; piuttosto
le intuizioni attraverso cui si formulano hanno validità nella
misura in cui sono confermate da una prassi più o meno lunga, nel
senso che si sono mostrate euristicamente feconde nel dar ragione di un
vasto materiale, nonché nell'interpretare molti casi singoli. La validità
conoscitiva si salda dunque con la funzione assolta: la convalida pertanto
è mai definitiva, bensì aperta e rivedibile in linea di
principio, anzi la multiformità del caso singolo può portare
ulteriori connotazioni all'idealtipo. Accogliendo queste tesi, si scioglie tra
l'altro il paradosso jaspersiano dell'evidenza intuitiva dell'aumento di
suicidi in autunno e della realtà fattuale inversa. L'infecondità
di quella relazione comprensibile - che suppone una sintonia tra umore del soggetto e "umore" atmosferico - esige di correggere il
nesso idealtipico: sì correlazione coll'"umore" della
stagione, ma di dissonanza. Allora il rapporto "comprensibile" si
potrebbe riformulare previa introduzione di un segmento esplicativo e comunque
non immediatamente evidente: le componenti invidiose ed etero-distruttive
che si ritrovano spesso nella dinamica psichica (inconscia) del soggetto
depresso. Ciò concesso, si inferisce allora che il depresso inverte il "normale"
rapporto colla bella stagione, la quale dovrebbe donare un sollievo
dell'umore: la vitalità della bella stagione è sentita da (certi)
soggetti depressi come motivo di avversione, dunque di ulteriore
auto-esclusione. L'idealtipo insomma, come prima intuitiva ipotesi di lavoro, si
dialettizza con il caso o con classi di casi particolari, congiungendosi a
segmenti esplicativi.
Da quanto appena detto si evince altresì che, se la
connessione idealtipica si coglie con un atto di intuizione, facendo invece
un'analisi retrospettiva dei passaggi logici impliciti, appare l'intervento di
tacite presupposizioni, che starebbero a rigore sul versante della
spiegazione (nell'esempio Jaspers suppone, erroneamente, che ci sia una regola
generale di sintonia tra umore psichico e "umore" meteorologico).
Insomma, dei taciti segmenti esplicativi sembrano inevitabili pure nella
costituzione logica di un idealtipo. Il che appare manifesto nell'asserzione di Nietzsche:
"Dalla coscienza della debolezza, della meschinità e della
sofferenza scaturiscono esigenze morali e religioni di redenzione",
per come Jaspers la propone a modello di relazione comprensibile: vi
aggiunge lui stesso un "perché" - perché comunque l'uomo
"vuole soddisfare la propria volontà di potenza" (Jaspers,1959, trad. it., p. 328). Ebbene, che è quest'ultima asserzione(giusta o sbagliata è altra questione) se non un universale,
che logicamente funge da premessa per giustificare - a rigore dovremmo dire
"per spiegare" - quel nesso intuitivo?
Inoltre, giusto collegandosi alla nozione di
idealtipo, la nozione
di causa può tornare opportuna sotto nuova veste. Essa interviene
neld e scrivere come si rapportano gli eventi psichici, così da dar
luogo alle connessioni espresse dall'idealtipo. In effetti l'idealtipo, se è
concetto almeno verosimile e non solo nostro costrutto arbitrario, va
inteso come struttura di organizzazione immanente al materiale, e un
processo causale è quello che interviene appunto nell'organizzarsi in
modi tipici delle varie esperienze, delle varie afferenze percettive. Così
il rapporto percettivo ed emotivo con la madre andrà ad
organizzarsi entro quei determinati schemi previsti dall'Edipo; e una volta che un
certo schema edipico si sarà consolidato, esso plasmerà le
successive modalità di rapportarsi al mondo; le esperienze dei primi mesi
di vita, i rapporti col seno materno - ammessa la validità
idealtipica delle cosiddette "posizioni" di cui parla la Klein -
andranno ad organizzarsi secondo la struttura della posizione
schizo-paranoide, e questa determinerà un modo schizo-paranoideo di vedere il
mondo, ecc.; le afferenze percettive potranno produrre effetti retroattivi
in funzione del nuovo quadro organizzativo in cui sono inserite (nel
caso dell'Uomo dei lupi di Freud talune percezioni traumatiche
afferite in fase pre-edipica vengono in fase edipica ad essere riorganizzate
nel nuovo contesto, causando per altro a loro volta una particolare
curvatura all'assetto edipico). In altri termini, la struttura idealtipica, ideale
e immanente al reale, è causativa del modo di disporsi del
materiale percettivo, un po' come accade nelle già citate figure
studiate dalla psicologia della forma, dove l'organizzazione d'insieme è causativa del modo di darsi della parte. Si tratta in ambo i
casi di cause per così dire formali, nel senso quanto meno che i
meccanismi di causazione efficienti si dispiegano secondo la "logica"
del sistema che si viene costituendo.
Se da tutto ciò non derivano previsioni (o
post-visioni)
deterministiche e tanto meno algoritmi dell'interpretazione, epperò è
da dirsi che inferenze predittive, di tipo probabilistico qualitativo,
sono possibili: si può definire a priori, noto l'idealtipo
dominante, un ventaglio di possibilità oggettive immanenti al soggetto
considerato, anche se solo a posteriori si potrà sapere quale s'è
realizzata e cercare di ciò le cause sufficienti (da una certa
strutturazione dell'Edipo ci aspetteremmo che..., da un soggetto isterico ci
aspetteremmo che... e se poi manifesta il comportamento X anziché Y, allora è
successo che...).
Ho cercato fin qui di mostrare l'eccedenza epistemologica
dell'idealtipo rispetto al metodo jaspersiano della comprensione - che in sostanza
resta a mio avviso povero, se non riconosce ed integra segmenti di
spiegazione -; ma non per questo l'idealtipo ricade negli schemi positivistici
della spiegazione. Non solo perché l'idealtipo, come qui inteso, non è
riducibile alla lettura che ne hanno dato i neo-positivisti (come caso
limite di una serie di elementi che vi si avvicinano asintoticamente,
quali i concetti di gas perfetto, punto massa, molla perfettamente elastica);non solo perché, come più volte ribadito, esso di
principio non esaurisce la complessità della storia singola, ma
soprattutto perché il suo statuto più che di legge universale data
senz'altro per vera, è quello di una configurazione verosimile, utile
pragmaticamente quale strumento euristico. Detto altrimenti, la conclusione tratta
comprendendo/spiegando il caso singolo è probabile, ma non nel senso della probabilità
statistica con cui operano le spiegazioni e previsioni nelle scienze
naturali. In queste l'asserto statistico probabilistico, che funge da premessa
maggiore, ha forma comunque universale e vuol essere sempre vero (ad esempio: è
legge generale che ci sia una probabilità su sei che lanciando un
dado...); in psicoanalisi e in genere nelle discipline umanistiche
conformemente all'idealtipo, è l'asserto stesso probabile, o meglio
verosimile, anche se il suo contenuto si presenta non in forma probabilistica .
Per chiarire, è legge (di Mendel) universale,
e sempre vera alle condizioni standard, che appaia una volta su quattro un
carattere recessivo alla seconda generazione dato l'incrocio iniziale di u
n dominante con un recessivo: l'individuo di seconda generazione può
o non può presentare detto carattere, ma ciò è
comunque sempre previsto entro una proposizione di forma universale. Qui è
ovvio cercare la misura della probabilità dell'evento
rispetto alla totalità degli eventi possibili. Non pare sensato invece
cercare la misura della probabilità o della verità della legge
di Mendel stessa: o è vera o è falsa. Nel caso dell'idealtipo
è invece in gioco la probabilità, o meglio la plausibilità,
la verosimiglianza della legge stessa.
Ad esempio, non ha senso chiedere alla psicoanalisi la frequenza
statistica della presenza del complesso d'Edipo, per convalidarne il relativo
asserto, guadagnato com'è in una sorta di intuizione "indiziaria"
dell'universale nei casi singoli esemplari. Si tratta di un universale
ipotetico - è verosimile che in tutti sia presente una qualche
strutturazione edipica - : esso orienta la ricerca e vale se e finché
permette una buona organizzazione (comprensione-spiegazione) del materiale
clinico, se e finché è suffragato dagli indizi offerti dai casi reali(non è certo a seguito di considerazioni statistiche sulla universalità
o meno dell'Edipo, che un autore come Kohut ne ha messo in dubbio il peso
eziopatologico).
Da ultimo vorrei notare ulteriori punti di contatto tra quanto
appena detto e taluni sviluppi delle scienze naturali. Il carattere di
post-visione cui sopra accennavo - per cui non si può prevedere lo sviluppo
di un comportamento, ma solo a posteriori si dà ragione
dell'accaduto - è una limitazione che trova stringenti corrispettivi nelle
scienze naturali. Abbandonato il sogno meccanicistico laplaciano di poter
prevedere qualunque stato successivo di un sistema, essendo noto lo stato in un
certo istante, a priori si può prevedere solo un ventaglio di possibilità,
a posteriori si può trovare la causa sufficiente, per cui proprio
quell'evento si è verificato - e non sempre per altro è
rintracciabile. Il pensiero, come al solito, va alla fisica
indeterministica, ma si può
pensare anche ad eventi singolari come l'evoluzione biologica di una data
specie animale: nessuno, allo stato attuale delle conoscenze, avrebbe
potuto prevedere milioni di anni fa, che il piccolo eohippus si
sarebbe evoluto nel nostro cavallo, anziché in una animale della
taglia del topo. Solo a posteriori sappiamo e possiamo cercare di spiegare.
E' un caso in cui mancano le leggi di copertura e le leggi darwiniane e
mendeliane fungono solo da condizioni necessarie, non sufficienti per spiegare;
da esse non si deduce esaustivamente la storia di quella specie, ma esse
intervengono quali sorte di segmenti esplicativi di quella storia. Non
diversamente per la storia naturale di quel vulcano, ecc., e dire della "vita"
di un vulcano non è metafora peregrina. Dal che si rileva un altro
elemento che avvicina le scienze umane alle scienze naturali: dalle
seconde non è affatto esclusa la presenza e lo studio di eventi
singolari, irripetibili, a dispetto di quanti li vorrebbero di esclusiva
pertinenza delle scienze umane.
7. Riassunto finale
In una prospettiva prevalentemente epistemologica ho posto
l'attenzione al pensiero dello Jaspers psichiatra, al fine di evidenziare le
ragioni della divaricazione rispetto alla psicoanalisi, nonostante taluni
rilevanti punti in comune, specie al cospetto delle mai tramontate posizioni
organicistiche. Sostengo anzitutto la tesi che le critiche di Jaspers a Freud di aver
costruito un'ibrida disciplina del "come se" - prendendo cioè
le relazioni di senso come se fossero relazioni causali - , dipendono in
definitiva dal fatto che Jaspers lavora entro discutibili categorie
epistemologiche. Esse si inquadrano in una rigida separazione, se non opposizione, tra
il metodo delle scienze della natura e quello delle scienze dello spirito:
alle seconde Jaspers iscrive senz'altro la sua "psicologia comprendente"
in opposizione alla psicologia sperimentale.
E' mia impressione che questa separazione, specie come la intende
Jaspers, sia una camicia di forza per lo sviluppo della teoria psicopatologica
e della psicoterapia. Ho pertanto cercato di rivedere a mia volta
criticamente le categorie appartenenti rispettivamente alle scienze della natura e
alle scienze dello spirito (ricostruendo in un quadro sinottico le
classificazioni jaspersiane), per mostrare come esse vadano invece integrate in una più
duttile concezione dei rispettivi rapporti. Alternative tra causa e senso,
tra spiegazione e descrizione, tra spiegazione/deduzione e
interpretazione, tra universalità della legge e particolarità/inesauribilità
del caso singolo, per dire delle più note, appaiono non più
proponibili. Per questa via ho scoperto significative anticipazioni nelle
intuizioni di Max Weber relative alla nozione di idealtipo, ma altresì
ho trovato delle convergenze con taluni sviluppi dell'epistemologia oltre
che della storiografia delle scienze naturali.
La psicoanalisi in merito a questo dibattito si pone su un terreno
cruciale, perché è essa stessa attraversata da una duplicità
paradigmatica, tra forza e senso, ovvero tra approccio naturalistico (vedila metapsicologia freudiana) e approccio "umanistico" (vedi
la clinica e l'interpretazione). Ebbene, più che sospingerla
dall'una o dall'una parte entro la camicia di forza della divisione scienza
della natura-scienza dello spirito (come fanno Habermas e Grünbaum con
soluzioni diametralmente opposte, ma sempre sullo stesso piano), è il
caso di chiedersi, facendo leva sulla peculiarità di taluni suoi
concetti e teorizzazioni, se proprio essa non additi l'esigenza di superare
quella camicia di forza. Taluni concetti psicoanalitici qualificanti (che
dicono di strutturazioni tipiche della mente come il complesso d'Edipo, le "posizioni"
della Klein, ecc.) divengono di per sé spunto di riflessione
epistemologica. Infatti valgono non già come leggi universali sotto cui
dedurre esaustivamente il caso singolo, piuttosto come idealtipi guadagnati nell'esemplarità
di casi singoli, ma tali da fungere come strumenti euristici in un gran
numero di storie individuali, nonché come segmenti esplicativi
intervenienti nelle stesse interpretazioni.
BIBLIOGRAFIA