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GENOVA, IL G8, LO SMARRIMENTO DI UN CITTA'

di Rossella Valdrè

Mi e' stato chiesto di scrivere per Pol-it l'editoriale di questo mese, il dopo G8.

Nel numero precedente, Romolo Rossi aveva parlato, nel suo Elzeviro, dell'atmosfera depressiva con cui la citta', e la sua gente, si apprestavano ad accogliere questo evento, straordinariamente annunciato dai media, richiamato in ogni discorso ed evocato in ogni angolo della citta'. Qui, a differenza che altrove, in effetti la popolazione sperimentava sulla propria pelle l'innalzarsi delle grate giorno dopo giorno a blindare la cosiddetta ‘zona rossa', lo spargersi strategico dei poliziotti per le strade, la progressiva desertificazione.

Una citta' fantasma, quella che abbiamo avuto per quasi una settimana, spettrale come in certi film di fantascienza, inanimata e tragicamente sola.

Poi il G8 c'e' stato, con tutto quello che sappiamo e che la lista psic-ita ha ampiamente accolto e discusso: manifestanti contro poliziotti, poliziotti contro manifestanti, banche devastate, gente comune finita in carcere, lo scandalo irrisolto della caserma di Bolzaneto, le accuse, il rebound parlamentare, e altro ancora. Su tutto, la morte di un ragazzo genovese che si trovava li' a portare la sua rabbia, la sua sciagurata voglia di giustizia e di cambiamenti, la sua giovinezza e la sua desolazione.

A questo giovane ventitreenne si vorrebbe dedicare una piazza della citta', quella in cui e' stato ucciso, dove in un angolo composto qualcuno ha posato fiori e dediche e dove un poeta di strada ha scritto "PIAZZA CARLO GIULIANI – Ragazzo".

La citta' si e' rapidamente rianimata (Genova non si svuota mai d'estate, essendo posto di mare), abbellita esternamente dai restauri fatti per l'occasione e internamente ferita a sangue da questa tremenda settimana.

Tralascio qui le considerazioni politiche, ovviamente off topic in questa sede – benche' occorre riconoscere che qui non sia facile – e mi soffermero' su alcune impressioni che il lavoro con i pazienti mi ha suscitato.

Se lo stato d'animo anticipatorio all'evento era di natura prevalentemente depressiva (e concordo in pieno con quanto scrive il prof. Rossi), quello conseguente e' stato – nella mia pur limitata osservazione – di smarrimento. Non uno smarrimento generico e superficiale, dovuto cioe' all'eccezionalita' dell'evento o all'impressione devastante dei vetri rotti per le strade, ma uno smarrimento profondo, poco dicibile con le parole, poco condivisibile con chi non era li', vagamente misto ad angoscia ma non propriamente sovrapponibile con questa.

In altri termini, su chi e' rimasto in citta' e ha preso parte diretta agli eventi per le strade, e' caduta addosso, potremmo dire, l'ombra del perturbante, quell'unheimlich freudiano che "appartiene alla sfera dello spaventoso, di cio' che ingenera angoscia e orrore". Le persone si aspettavano una certa cosa, e ne hanno vista un'altra; qualcuno ha assistito a violenze; qualcuno e' stato fermato e controllato; qualcuno ha soltanto respirato quest'aria per le strade, e se ne e' sentito inquietato. Qualcuno ha preferito – i giovani, gli impegnati in qualche movimento – restare nelle piazze; qualcuno e' tornato a casa, portandosi dentro di se' quest'impressione indefinibile, che chiamiamo qui di ‘perturbante'. Scrive Freud che "la condizione essenziale perche' abbia luogo il senso del perturbante" sta "nell'incertezza intellettuale (……) qualcosa per cui, per cosi' dire, non ci si raccapezza. Quanto piu' un uomo si orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno facilmente ricevera' un'impressione di turbamento (Unheimlichkeit) da cose o eventi" (corsivo mio).

E' chiaro che tutto questo nulla a che vedere col personale orientamento politico, ne' con gli orientamenti politici.

La reazione di cui parlo e' si' scatenata dalla situazione straordinaria e ha una risonanza soggettiva a seconda della propria storia (in generale) e della propria particolare partecipazione all'evento; ma va ben al di la'. E' la reazione di fronte al non conosciuto, al non previsto, al saltare in aria dei normali perimetri – sia ambientali che di pensiero – con cui organizziamo la nostra vita, e' il panico di non sapere cosa accadra' tra qualche momento, cosa ne sara' di quella strada in cui sono sempre passato, cosa avra' in mente quello sconosciuto che mi sta guardando e perche' mi sta guardando, proprio me. Tutto mi allarma, se sono invaso dal perturbante. Sono smarrito: e' la mia citta', ma non la riconosco; vorrei essere difeso, ma ho paura di essere accusato.

Ma se vogliamo fare un passo ancora oltre, Freud acutamente avverte che "unheimlich e' cio' che un giorno fu heimisch (patrio), familiare. E il prefisso negativo "un" e' il contrassegno della rimozione". E allora dobbiamo riconoscere che la vista della violenza non e' solo turbamento in se', ma ci rimanda alla nostra violenza (altra, diversa, spostata, rimossa, convertita) ma pur sempre esistente da qualche parte dentro di noi, dentro i rapporti con la nostra gente; che la vista di tanta rabbia sorda ci rimanda alla stessa emozione dentro di noi, e forse chi l'ha riversata li', in quel teatro che si e' offerto per l'occasione, dava sfogo e corpo al proprio perturbante, avendo perso ormai completamente di vista il dato di realta' e il motivo vero per cui si trovava li'. Possiamo pensare che, almeno in una parte dei casi, in quest'orda selvaggia non ci fosse solo determinazione e progetto alla violenza, ma puro e semplice approfittare del trovarsi in questo palcoscenico per mettere in scena questo complesso gioco di unheimlich e heimisch, il massimamente estraneo e il massimamente familiare, diventati ingovernabili.

Vorrei quindi chiudere con una brevisima considerazione.

Qualcuno, dal dibattito che poi ne e' seguito in mailing list specialistica, puo' avere obiettato che tutto questo non e' psichiatria, non ci riguarda. Ma dobbiamo riconoscere che i piu', grazie al cielo, hanno risposto: no, ci riguarda……………

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