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FASCISMO, ANTIFASCISMO...una testimonianza

Anni fa, nel 1995, intervistai per l'edizione genovese di REPUBBLICA Piero Gambacciani, noto architetto genovese autore tra le altre cose, in Genova, della Diga di Begato, del Grattacielo SIP a Brignole e di Corte Lambruschini.
Gambacciani oggi e' un intellettuale vicino alla sinistra, credo sia interessante oggi in questo momento di "revisionismo" della storia leggere la sua testimonianza.
Spero che il pezzo susciti commenti tra i lettori di POL.it visto che la presentazione dello sceneggiato "LA GUERRA E' FINITA", terminato in questi giorni in TV ha stimolato, credo, in molti riflessioni che spero questa testimonianza drammatica ma vera possa aiutare a rinfocolare....

ECCO IL TESTO DELL'INTERVISTA:

La vita è, per certi versi, un fenomeno carsico, scorre per fiumi sotterranei ed ogni tanto si apre alla superficie, come i sacri cenotes della penisola dello Yucatàn. Noi possiamo solo immaginare i percorsi della spinta vitale di ognuno, ma mai conoscere completamente una persona: anche chi ci è più caro è in fondo uno sconosciuto, ai nostri occhi; noi stessi spesso siamo non completamente conoscibili neppure al nostro stesso cuore. Incontrare una persona, conoscerla, tentare di schizzarne un ritratto, significa cercare i cenotes tra la bassa vegetazione, che tutto copre nella penisola e che è ciò che, in genere, vogliamo scientemente mostrare e tentare di immaginare appena alcuni percorsi, sempre diversi per ogni essere umano e intrecciati tra loro, dei corsi d'acqua che li alimentano e li uniscono, gli uni agli altri.

*****

Incontro Piero Gambacciani un sabato mattina, nella tranquillità del suo grande studio al piano terra di un palazzo di Via Corsica.
Mi era stato annunciato come un conversatore torrenziale e affascinante, io mi ero preparato tutta una bella serie di domande in mente, avevo ripassato il mio "compitino" sull'architettura: come spesso mi accade in questi miei viaggi alla ricerca del cuore segreto dei genovesi, mi sono ritrovato tra le mani una storia per certi versi inaspettata di un uomo complesso e contraddittorio.
Quello che segue è il resoconto fedele della nostra lunga conversazione.

IL MIRACOLO DEI COLORI.

Sono nato a Prato in Toscana, nel 1923, da padre e madre pratesi.
La madre di mio padre, Isola, era contadina, il padre commerciava in tegami, che un suo fratello faceva in quel di Capraia, di fronte a Montelupo Fiorentino: usavano la melma dell'Arno per fare pentole e tegami. All'epoca delle elementari si andava con mio fratello, maggiore di due anni, in vacanza laggiù: mio fratello si fermava a Montelupo da parenti ricchi commercianti, io invece andavo a Capraia da questi zii che erano più umili ma avevano questo grande forno, per cuocere la ceramica e i torni per lavorarla.
Mi affascinava l'idea di passare due o tre settimane laggiù, vedere la trasformazione della terra in qualche cosa, assistere al rito della infornata, che allora sembrava derivato da una sapienza infinita: il forno era una grotta scavata nella montagna, in fondo venivano messi i pezzi più fini, a strati in verticale, anfore, piatti... all'imbocco veniva acceso il fuoco, la temperatura a cui arrivavano i vari oggetti distribuiti lungo questa galleria determinava il diverso colore dei cocci tutti pitturati con una vernice a base di piombo, fino ad arrivare ai blu splendidi dei pezzi più pregiati posti in ultimo. Era un miracolo, ai miei occhi di bambino: dentro a quella grotta si celebrava il mistero del colore.
Mio nonno andava in giro a vendere, nei paesini della valle dell'Arno, battendo i mercati con il barroccio. Prato era il più ricco di quei mercati, una città tessile consacrata al lavoro nero dove in ogni casa c'era un telaio, così decise di aprire lì un negozietto di stoviglie.
Mio padre è cresciuto a bottega, ha studiato poco, come si usava allora; era un repubblicano anarchico, come tanti a Prato, Curzio Malaparte lo ricorda in un suo racconto come il "bombarolo", perché con altri faceva bombette per prendere i pesci in Arno, ma, in pari tempo, amava figurasi come un bombardiere anarchico.
Tutto il gruppo dei repubblicani anarchici di Prato andò volontario in guerra nel 15, mio padre tornò dalla guerra colpito duramente. La mi' zia che era rimasta a guidare il negozio, assieme alla nonna e al nonno, comprava i vetri a Empoli, fatti i silice di scarsa qualità: prendevano due bicchieri e li fregavano l'uno l'altro bocca a bocca, per togliere le impurità; al tempo di guerra queste cose andavano comunque e la zia ne aveva ordinato un grosso quantitativo: quando sentì suonare le campane al novembre del 18, uscì sulla piazza per vedere cosa era successo, tutta la gente urlava che la guerra era finita e la zia non disse che così finalmente sarebbe tornato suo fratello ma subito penso la barroccio di bicchieri che le era rimasto sulla schiena, ormai invendibile: da piccoli quando ci spostammo a Sesto Fiorentino il nostro compito dopo lo studio era di andare a prendere in fondo la magazzino tutto questo bicchierame e cercare strofinandolo di renderlo vendibile.
Mia madre Genovina era undicesima di undici fratelli, tutti bravi artigiani, suo padre era un vecchio bersagliere, era stato alla presa di porta Pia: la rievocava sempre e inciampava sempre come nel quadro tra sospiri e lacrime. Mia madre ci teneva a che noi si studiasse: era il suo riscatto sociale.
Io feci il ginnasio al Cicognini di Prato, la scuola di Gabriele D'Annunzio. Mio padre si ammalò psichicamente, morì giovane e noi rimanemmo con questo negozio stanco e mia madre inadatta a quel lavoro: mio fratello passò subito al liceo io preferivo altre cose, non è che non mi piacesse studiare ma preferii andare a lavorare all'officina del gas di Prato. Su insistenza di mia madre decisi di completare gli studi da privatista, studiando un'estate intera.
Mi sono iscritto ad Architettura nel 1941 fondamentalmente perché mi piaceva dipingere, anche se non mi piaceva l'aspetto "fisico" del pittore: che fa? Dipinge, mi sembrava qualcosa di poco serio.
Che l'Architettura allora dominante di Piacentini fosse una crosta lo si avvertiva, d'altra parte vi sono opere dell'epoca fascista ora rivalutate come il Palazzo delle Civiltà all'EUR: io preferisco opere come questa che hanno il coraggio di mostrarsi a opere mimetizzate. Io non sono contro la bioarchitettura, è bene che si cominci ad identificare il luogo d'uso interpretandolo come un prolungamento di sè stessi all'intorno, questo però non significa mimetizzare lui perché deve essere più forte l'elemento naturale; la trasformazione della natura se è fatta con una finalità precisa se non è dominante il senso del primato è una conquista non un atto di prepotenza.

8 SETTEMBRE 1943

Il momento più drammatico della mia esistenza l'ho vissuto l'8 settembre del 1943, non avevo ancora vent'anni.
Il 25 luglio fu per me meno traumatizzante, adesso era lo stato che si disfaceva: allo Stato come organizzazione in cui tutti un po' infantilmente ci si riconosceva, ci tenevo; vivevo l'aria del momento per corrotta che potesse essere a tutti i livelli, come qualcosa in cui mi riconoscevo.
L'8 settembre fu lo sfacelo: il 7 di settembre mi dovevo presentare in caserma per l'inoltro in Sardegna, ci fu un rinvio e calò l'8 settembre.
Girai per Firenze a vedere cosa accadeva: da Palazzo di giustizia venivano giù le toghe, mica buttate dalla gente comune, era l'apparato che buttava la veste per prendere le distanze dal regime... il fattorino del tram buttava via il cappello perché con la sua tesa rigida aveva un alcun chè di militare: tutto questo aveva ai miei occhi un qualcosa di inaccettabile. Oggi sono disponibile a considerare diversamente tutto ciò, a comprenderlo allora mi rifiutavo anche di tentare di farlo.
Mi irritò profondamente il comportamento dei carabinieri e dei soldati che buttavano dai balconi le armi.
Ho girovagato per alcuni giorni, mi sono incontrato con gli amici dell'università, alcuni di loro facevano già attività politica clandestina nel Partito d'Azione, per me il calo del sipario era stato avvilente.
Mio fratello era bloccato al Sud, io infinite volte ho ripercorso mentalmente giorno per giorno, ora per ora la mia vita dall'otto alla fine di settembre, non posso dire che non mi si fosse presentata l'occasione di fare un'altra scelta, ma mi sentivo soccombente, ERO soccombente.
La scelta fu la scelta di un minuto, che mi sarebbe sempre interessato approfondire un po' di più, rivivendo tutti quei quattordici giorni: ...l'arrivo dei tedeschi in Firenze...il casino...la reazione a certa loro arroganza...la voglia di prendere le armi che avevano lasciato i carabinieri e andare sui monti...non riconoscersi in quella scelta...capire che non erano loro i miei compagni di viaggio...cercavano subito una struttura di potere...le mie ragioni di essere cittadino assieme ad altri si erano proprio sbriciolate e la scelta di un minuto fu quella di saltare su un carro che andava a Nord e arruolarmi nella Repubblica Sociale.

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE.

Il sentirsi perdente come ormai mi sentivo, ha un certo fascino romantico e perdente mi son sentito per tutti quei diciotto mesi fino all'esito finale.
Se uno spara, se uno entra in guerra, è talmente assurdo combattere, che se ti ci trovi vuol dire che si sono rotte le dighe, non ci sono alternative.
Non sono stato a lumacare, non ho più pensato mi sono mosso attivamente, ben sapendo che cominciava in quel momento l'ultimo periodo di quella determinata struttura sociale.
Avevo intorno a me un gruppo di ragazzi giovani come me, prevalentemente universitari, non ho mai tirato un piede indietro, ormai la scelta era fatta: sono sempre stato sui monti a combattere dalla parte sbagliata del tavolo.
Sentivo il fascino di coloro che erano al di là del filo della discriminante, tutte le volte che potevo colloquiare con loro lo facevo: perché?...come hai scelto?...credi nel futuro?...io son senza futuro.
Dopo la guerra, quando è finito tutto e ho conosciuto specie a Genova gente del PCI, di una tale semplicità strutturale e di una tale serenità, senza i miei contorcimenti di budella, ma con gli occhi aperti sul futuro mi sembrò di avere scoperto i Nibelunghi e volli bene subito a questa gente.
A riguardarli quei mesi mi appaiono come un tunnel imboccato al momento della scelta di campo, avevo la sensazione fisica di esserci dentro:
...hai visto l'alba, hai visto il tramonto...hai visto i tuoi simili, hai visto i tuoi compagni morti...hai visto gli altri morti...hai visto cose assurde, cose folli, aspettando di giorno in giorno la consumazione, l'esito finale.

25 APRILE 1945

Quel giorno ero l'unico rimasto a Novara.
A mezzogiorno andai ad accompagnare alla stazione dove c'era un treno che partiva per Milano quelli che erano rimasti del mio reparto, dopo una nottata insonne in cui tutti scappavano...scappare, che cazzo scappi... se devi scppare scappi prima, quando cominci a non condividre più la tua scelta che porta all'esito finale.
Mi ricordo sempre con tormento quei due binari che puntavano verso Milano, l'assurdità della presenza umanizzante del semaforo rosso e verde... è tuo il verde, è tuo il rosso...non lo è nè l'uno nè l'altro.
Per la strada c'era il deserto anche se cominciava a comparire alla finestra le bandiere, il colonnello della caserma che non mi voleva lasciare andare perchè era rimasto solo.
Alla Stazione c'erano gli abiti borghesi che i ferrovieri tedeschi avevano messo al riparo in previsione della fuga, disarmai quelli che li presidiavano, feci vestire i ragazzi che erano con me, prevalentemente meridionali che erano entrati nella Repubblica Sociale soprattutto in cerca di un tetto e di un pezzo di pane, li misi sul treno e io tornai indietro in città.
La gente cominciava ad assieparsi lungo la strada, io ero in divisa della Milizia.
Un uomo mi vide in mezzo alla piazza, mi chiamò e mi offrì degli abiti borghesi; io lo maltrattai, ebbi una reazione violenta: voleva aiutarmi e non capiva la lacerazione che in quel momento avevo dentro.
Montai in motocicletta con un amico e percorsi la via principale di Novara, la morsa della folla si faceva sempre più serrata finchè mi trovai la strada sbarrata dai partigiani, che avevano occupato la città.
L'amico che era con me alzò le mani, io stavo dietro, mi chiesero di arrendermi, se non avessi detto nulla forse sarebbe finita lì e io invece lo mandai a fare in culo: mi scaricarono addosso due raffiche di mitra e mi lasciarono per terra creduto morto.
Quando ero sdraiato per terra, colpito al ventre e alle gambe, avevo l'anima in bocca, sentivo un calore immenso; i miei feritori se ne andarono e io striscai dietro una colonna.
Arrivò una torma di gente, i vendicatori dell'ultimo minuto, i turisti del nuovo spettacolo: cercarono di tirarmi su per rifucilarmi, ma io scivolavo sempre per terra, così mi abbandonarono al mio destino.
La cosa più formidabile fu che un prete venne lì mi scosse e si accorse che non ero morto e mi trascinò per i piedi al vicino Ospedale.
Io ero perfettamente lucido: mi dicevo che in questi casi si dice che uno pensa alla mamma e io invece mi dicevo che proprio dietro a quella stupida motocicletta dovevo andare a morire.
All'imbocco dell'Ospedale c'erano degli inservienti che come entrai dentro mi buttarono in un angolo pensando che fossi senza speranza, invece il primario chirurgo Prof. Ferrero decise di operarmi.
Mi svegliai due giorni dopo, con la faccia di Ferrero davanti a me che mi diceva: "Va a finire che ce la fai, ne ho operati quattro: tre dei miei e te, i miei sono morti e tu invece camperai ma sono contento."
Quel saluto affettuoso rivoltomi da un essere civile mi riconciliò con la gente, ma soprattutto in quel momento ho realizzato di avere chiuso, tagliato ogni legame con il passato.
Mi sentivo libero. Era il mio finale.
Se uno spara, se uno entra in guerra, è talmente assurdo combattere, che se ti ci trovi vuol dire che si sono rotte le dighe, non ci sono alternative, non c'è il passo indietro.

IL DOPOGUERRA.

Ebbi un lungo periodo di convalescenza all'ospedale militare di Novara, mi vennero a trovare, travestiti da partigiani, tutti quelli che avevo fatto scappare a Milano la mattina del 25 aprile.
Ero a disposizione dell'autorità giudiziaria di Novara e venni condannato a morte.
Dopo sei mesi abrogarono la legge, io ero in prigione e da lì mi tirò fuori mio fratello, che essendo rimasto al Sud aveva risalito l'Italia con l'esercito di liberazione: arrivò un Capitano Gambacciani a chiedere di me, andò al distretto, gli fecero un disposto con cui lo autorizzavano a prelevarmi ovunque io fossi. con un po' di riluttanza da parte della polizia partigiana venni rilasciato: rovinato come ero mi si poteva lasciare andare, camminavo stronco allora, ma in quindici giorni ripresi l'uso delle gambe.
Non ebbi grandi danni: venni cancellato

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FRANCESCO BOLLORINO

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