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Uno psichiatra in giro per Roma

Una pausa del congresso, una mattinata libera, un gruppo di psichiatri, uno vecchio, sette o otto giovani. La mistura giusta.

Scendendo giù, verso il centro, dalle alture di Monte Mario, si ha sott’occhio l’immenso quadro topografico romano. Ma, ci chiediamo, dove sono i sette colli? Non si vedono quasi per nulla. Quando si è dentro, si notano alcune vie in salita, poi in discesa, poi in risalita (per uno che viene da una città come la mia, salite lievi, appena accennate) che ritmano il Viminale, l’Esquilino, il Quirinale: forse in bicicletta si noterebbero, soprattutto chi non è allenato, ma a piedi poco, in autobus, via! Ecco, come la personalità! Un tempo forse, fino ai primi mesi di vita, il temperamento, inteso come corredo biologico di fondo dell’uomo, si poteva vedere, ma dopo anni di relazioni infantili e adulte, di rapporti educativi, di eventi emotivi, di difese, resistenze, condizionamenti, chiamateli come volete, chi riuscirà più a vedere, nel risultato finale della personalità dell’uomo, gli originari di livelli temperamentali?
roma Chi vedrà, nella tumultuosa, millenaria, stratificata topografia della Roma d’oggi, i colli originari, se qualcuno non glieli indica e non gli insegna puntigliosamente e un po’ artificiosamente a vederli? Se ne noterà appena qualcuno, i colli più rilevati, Campidoglio, Palatino, Aventino, i tratti più clamorosi, tendenza alla rabbia impulsiva, alla cupezza scostante, al bisogno impellente, il tutto avvoltolato nelle panie e nei travestimenti della personalità, della persona, della maschera, del comportamento civile. Ma chi vedrà la serotonina, che ci sarà pure, al fondo di tutto, in Anna Karenina?

E giù, immergendosi nell’antica città. Antica, detto di Roma, non vuol dir più nulla, millenni, secoli, culture, mondi diversi, antichità imperiale, alto medioevo, autunno del medioevo, rinascimento, scoppi di megalomania e di grandezza papale che di una modesta capitale rifanno una capitale del mondo, innescati da artisti anche loro megalomani e grandiosi, urbanistiche ordinate e solenni da capitale di una impettita nazione ottocentesca, confusioni di direttrici di traffico, fontane sontuose o civettuole ed eleganti di ogni epoca, gigantismo di una capitale burocratica odierna, luci, colori caldi, scenari onirici, periferie sinistre: come la mente umana, come la mente umana nell’età avanzata, così è la mente, come Roma, non come la città americana media, pulita, precisa, lucida, urbanisticamente ben suddivisa ed ordinata.

Ecco siamo in piazza Navona: il tempo di dare un’occhiata ai fiumi, il Danubio con l’insegna papale, il Nilo velato, che non vede le proprie sorgenti, il Gange, il Rio della Plata barbarico che si protegge con la mano dalla possibile caduta della facciata della Chiesa del rivale, l’odiato Borromini: ecco, rivalità, tumultuosità, rabbia, contorcimento, certo non un mondo alexitimico, ove la capacità di mentalizzare, di esprimere le emozioni con immagini e figure è sempre di alto grado, gesti impulsivi, discontrollo degli impulsi, un borderline forse? Così creativo, certamente non somatoforme, semmai qui impera la conversione!
Non abbiamo tanto tempo, affascinati del temperare (come dire mescolare) ordine e disordine, lasciamo lo sguardo languido sulle curve della piazza, con l’improvviso flottare della sensualità (matrice, curve femminili, sarà l’obelisco l’erezione?) propria del borderline, ed eccoci, temperati e calmati dal rigore e l’ordine di palazzo Braschi, al maledetto torso di marmo, il Pasquino: maledetto!
Roma La libertà, la libertà di espressione, poter dire quel che si pensa, oh l’illusione, da sempre! La liberazione dal superio, il superio che si scioglie in alcol, il superio che si lascia al di là della frontiera, il superio che si lascia attaccato al torso di Pasquino e che ci crediamo di dileggiare, di sbeffeggiare, e ci illudiamo di ingannarlo con uno sberleffo, e di lasciar prorompere le pulsioni, le opinioni graffianti, il piacere: nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus! Oh grande illusione di tutti i Pasquini che noi siamo! Solo una convenzione, il superio ci lascia un’area franca, carnascialesca, per quelle che chiamiamo pomposamente la libertà, e noi siamo convinti d’esser liberi! Va’, Pasquino, che sei un bel tipo! Sei tu il maggiore dei tiranni, il peggiore dei malfattori!

Ma siamo seri, come si fa ad essere liberi, quando si passa subito dietro piazza Navona, dall’altro estremo, e si vede nell’atrio di un moderno palazzo le rovine dello Stadio di Domiziano, quello che era la piazza una volta: e vediamo così chiaro l’inconscio. I residui antichi, ormai fuori gioco e fuori uso, ma che ancor oggi determinano la forma e l’estetica dell’impianto urbano, metafora di ciò che, profondo e arcaico, sotterraneo e in massima parte ignoto, mantiene e detta le forme generali, pur cambiando contenuti e strutture (l’amor per la mamma sta forse all’amor per la partner come lo Stadio di Domiziano sta a piazza Navona?).
Roma Come faccio a dire oggi che vado a passeggio per lo Stadio di Domiziano? Ma andrei a passeggio per piazza Navona se lo Stadio di Domiziano non le avesse mantenuto fascino, fama, bellezza? Ma cosa dico mai, dove mi porta questa città seduttrice e schernitrice, che figura mi fa fare, uno psicanalista da paese? Meglio tornare, coi piedi per terra, a Santa Maria dell’Anima, qui, dove da sempre si ospitavano i tedeschi, qui nessuno è estraneo, qui i tedeschi lurchi del medioevo hanno diritto di asilo, di essere accuditi, come tanti contenuti mentali, tanti vissuti, contrastanti, tormentosi perché stranieri, inusuali, di linguaggio diverso e ostico (oh, come sarebbe dolce quel linguaggio se solo lo si conoscesse!), tutti, tutti, possono essere albergati dentro la mamma e dentro la nostra anima, proprio così, Santa Maria dell’Anima. Quanti contrasti: giriamo appena l’occhio, ed ecco il movimento aereo e curvilineo, sensualmente trasgressivo e sinuosamente seduttivo del colonnato di Santa Maria della Pace, che si muove in modo provocante mentre noi avanziamo o arretriamo, o ci spostiamo di lato nella via: siamo a metà, tra la fantasia, l’irregolarità curvilinea e fantastica, l’instabilità sensoriale del barocco romano (Baccio Pontelli, o Scamozzi, non ricordo e non mi serve ricordare), e il numero aureo, la ferma e solenne armonia del rigore rinascimentale del chiostro del Bramante: l’arte, la bellezza, vengono fuori sia dalla trasgressione che dall’ordine, da entrambi, come la felicità. Ci sarà pure un sintesi, che mescoli la bipolarità, le curve euforiche, inquiete e trionfanti del barocco, e il rigore depressivo e ritmato ossessivamente del rinascimento, una mescolanza felice.
Sant’Agostino è subito lì dietro: ahi, quella Madonna dei Pellegrini! Ma cosa voleva fare quel matto di Caravaggio con questi pellegrini, non gran signori ma poveri spossati contadini coi piedi sporchi, supplicanti e disperati davanti a quella Madonna, in posa seducente, con mosse leggiadre e vezzose, le unghie dipinte in un piede che si muove con civetteria? E’ solo aderenza alla realtà? Ma via! I poveri, sporchi, stanchi, affranti saranno bisognosi, di un bisogno che possiamo ben pensare come fame (bisogno orale, forse), trascurati e inaccuditi (quei piedi sporchi e piagati!), di fronte alla seduzione materna, di una madre trionfante col suo pasciuto bimbo sicuramente in braccio (Dio, figuriamoci!), ella stessa sicura di sé, con un aria di condiscendenza maliarda, con mosse da togliere il fiato, col piede leggiadro (quel piede, pulito ed adorno!). Ma chi ha mai detto che l’arte è sublimazione? Sarà tutto, l’arte, sublimazione e desublimazione. Qui impera la desublimazione, ciò che è religioso ridiventa erotico, per la soddisfazione del piacere, sadomasochistico, epperò piacere, ciò che è celeste ridiventa terreno, ciò che è metaforico ridiventa sensoriale. Uno sguardo appena, subito lì vicino, al Profeta di Raffaello, quello sì statuario, bellissimo, forma perfetta e interamente sublimata: vero profeta, perbacco!

E ora via, viRomaa di corsa da Palazzo Madama (con tutta l’ammirazione per la struttura solenne dell’edificio e per la tazza di pietra romana che ricorda imperi lontani), via dall’affollarsi di gente e dai cortei con le bandiere che protestano per chiedere cose che non otterranno mai, a signori che promettono cose che non potranno mai dare, e rifugiamoci nostalgici nella Chiesa del Re di Francia, dritti e poi, in fondo, l’ultima cappella a sinistra, il miracolo, il colpo a sorpresa, sorpresa che sempre si rinnova.

La taverna attraversata da una lama di luce, il colpo di maglio del vestito a righe del bravo, o bulletto diremmo, che si torce sulla panca a guardare, la mano ricurva di un Cristo che chiama dall’oscurità, una illuminazione (dentro e fuori della metafora) fulminante, che stravolge e cambia la vita, un soprassalto, una scoperta improvvisa dal fondo della vita psichica, un rivolgimento profondo in un attimo.

Solo Matteo e i due bravi (quanto diverse le persone!) se ne accorgono, troppo legati e attaccati a realtà diverse, materiali e concrete, gli altri due, per potersi guardare dentro. Ecco, ecco, i fattori aspecifici. Anche un mestiere come il nostro richiede tre qualità, per poterlo fare, qualità da niente, aspecifiche, che non si imparano, la possibilità di ascoltare l’altro, la possibilità di guardarsi dentro, la possibilità di sentire il soprassalto: come Matteo e i due bravi, come loro, così diversi, l’uno colto gli altri incolti, l’uno uomo posato, gli altri bulletti arroganti, ma così uniti dalle capacità di accorgersi degli eventi emotivi. Per farci perdonare l’immodestia, andiamo a S. Ivo, dentro il cortile di casa nostra (cosa nostra?) infine, l’Università: ma cosa ci fa, questa chiesa mossa e ancora curvilinea e ancora civettuola, con quella guglia audace, quella specie di Empire State Building ante litteram, quella cresta baldanzosa con aria di sfida, dentro il palazzo austero e rettilineo della cultura e degli studi? Era matto questo Borromini? O non aveva colto per caso, già allora, quel che di irridente e di irrisorio, di gioco infantile, di magico e irrazionale, di convenzione ludica che c’è nella ricerca, negli studi, nell’Università infine? Non si era per caso accorto dell’inganno, e stava invitando, con quell’architettura poco seria, di non prendere tutto sul serio?

Due passi, e il Pantheon ci toglie il fiato: oh il grande spazio! Sotto quella cupola che Michelangelo si adoprava di ricostruire sopra la chiesa di S. Pietro, non è lo spazio troppo grande? Non è una matrice che non ci tiene, che non ci fascia, non ci garantisce stabilità ma ci sbatte qua e la, per l’immenso vuoto, in attesa di essere sbalzati per il grande foro, noi e tutti gli dei che vi hanno vissuto, noi e i poveri sballottati re d’Italia? Tutti fluttuanti in questo enorme vuoto ideato dall’immenso impero materno, indifesi, piccoli, miserabili, senza amore, e chi l’ha capito è colui che ha stilato il distico della tomba di Raffaello, unico personaggio grande qui dentro contenuto; ha capito, quel signore, che la "rerum magna parens", la gran madre, temette, lui vivo, di essere vinta, lui morendo, di morire alla stessa: chi ha creato di più, l’arte o la natura? Ma se l’arte ha creato è stato per metterci ancor più in conflitto con la gran madre: sempre più alla deriva in questo spazio immenso, sempre più nevrotici. Ci ingannano, alle cose cambiano il nome, ma le cose rimangono le stesse: ce lo dice un passo più in là Santa Maria sopra Minerva, prima Minerva, poi la Madonna, una sull’altra: i potenti cambiano nome agli dei, ma la gente non se ne accorge, e prega sempre nello stesso posto. Cambiano gli usi, i costumi, i sintomi, le sostanze da dipendenza, ma l’uomo non cambia: a scorno di ogni etnopsichiatria e di ogni evoluzione storica. Ci consola il Cristo porta Croce di Michelangelo: se lo scolpiva quando era un ragazzino, quasi un adolescente, vuol dire che aveva la stoffa innata. Si licet magna componere parvis, può darsi che una stoffa speciale ci voglia anche per fare il nostro mestiere: ma questo l’abbiamo già detto, repetita….

Roma

Pochi metri ancora e, oh il simbolismo fallico! Perdono, perdono per la banalità ma come si fa a non pensarlo davanti alla Colonna di Marc’Aurelio: banalizzata e enfatizzata da un santo sulla cima, che io insisto nel pensare, forse mi sbaglio, che si tratti di San Giuseppe, poco adatto alla simbologia fallica, nonostante il giglio sul bastone, o proprio per questo: sarà la legge del contrappasso. Le scritte poi! Il culto imperiale, cancellato e vilipeso da un altro culto, ognuno affermando roboantemente che è giusto il suo: come effimere sono le credenze, e come labili e sostituibili le teorie scientifiche:

"Credette Cimabue nella pittura

Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido

Si che la fama di costui è oscura".

Ed eccoci, dopo la comparsa a sorpresa (l’eterna sorpresa!) di tante apparizioni tra le piccole strade, non si sa mai cosa può comparire, per esempio la fontana di Trevi, eccoci sul Quirinale: macchè Quirinale, monte Cavallo, il vecchio Cavallo, il vecchio Es di Freud che numerosi Ego, boastful and bombastic dicono gli americani, hanno cavalcato, come la mente dell’uomo, dall’infanzia all’adolescenza, all’età adulta alla vecchiaia, imperatori, papi, re, presidenti, ma è difficile che il Cavallo dell’Es, uscito da sotterra come il Cavallo dei Dioscuri, con un obelisco che viene dai tempi dei tempi (filogenesi dell’Es), è difficile che si faccia cavalcare da qualcuno senza sgroppare, imbizzarrirsi o, per contro, statuizzarsi e impietrirsi in una immobilità senza speranza.

Bisogna tornare ora, verso via delle Quattro Fontane, ed eccolo lì, S. Carlino: e bravo Borromini, che riesce a farci vedere cosa può stare dentro un pilastro. Fammi una chiesa, gli diceva il Papa, che possa essere contenuta in un pilastro del cupolone: che spazi si possono trovare dentro, quanta ampiezza in ciò che sembrava stretto e impervio, senza vuoto contenitore. Ma come si poteva sapere se non si provava a farci stare dentro addirittura un’altra chiesa? Un bello scacco ai nostri pregiudizi. Cosa si può trovare in una mente che avevamo giudicato limitata, quante cose ci sono sotto la malattia mentale!

Fine della passeggiata, gettando uno sguardo nostalgico al Tritone del Bernini, al mostro marino con la cornucopia in mano, così almeno lo vedo io, arbitrariamente non una buccina, ma cornucopia, il mostro che è la nostra pulsionalità che non possiamo mai permetterci, per il tributo troppo alto, in moneta pulsionale, da pagare al vivere civile. Non ci rimane che essere mestamente laboriosi, come le api della piccola fontanella, vicino al Tritone, all’inizio di Via Veneto. Ah Roma! Sei tu la donna più bella del mondo, entrare dentro di te è un piacere che confonde, e si rischia di non ritrovare più l’uscita. Taxì, taxì! Diceva una vecchia canzone, il mio amore finisce qui.

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ROMOLO ROSSI

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