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Federico Leoni, Senso e crisi. Del corpo, del mondo, del ritmo, Edizioni ETS, Pisa 2005, prefazione di Carlo Sini

 

[Sarà in libreria a giorni un nuovo libro (http://www.edizioniets.com/Scheda.asp?N=88-467-1205-6 di Federico Leoni, studioso di fenomenologia, autore di numerosi contributi su riviste italiane e straniere, attivo presso il Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi di Milano.

Anticipiamo ai lettori di Pol-it, per gentile concessione dell’Editore, alcune pagine del testo di Leoni in cui la questione fenomenologica si intreccia a quella psicologica e psicopatologica con particolare evidenza ed efficacia]

 

 

Dalla Prefazione di Carlo Sini:

Nella breve distanza delle (mie) due mani sta in bilico l'intero spazio inconcepibile del mondo e l'intera inconcepibile differenza del tempo (come potrei averli, infatti, senza questo "schema corporeo"?). "Secondo la legge del tempo", dice la prima frase della filosofia: giudizio la cui sin-tassi non si può iscrivere in un sapere semplicemente o esplicitamente "positivo": croce e delizia della fenomenologia; di Heidegger e, prima ancora, di Husserl, che pur volevano ostinatamente por mano alla verità (alla verità del tempo e al tempo della verità). Ma più la inseguivano scavando originalmente nel "mondo alla mano" (indubbiamente la loro "specialità", anche se diversamente configurata), più la perdevano di vista e sfuggiva loro di mano, e così il mondo poi. Federico Leoni ripercorre con sensibilità e maestria questa avventura, procedendo per abilissimi scandagli, spesso giovandosi di testi sorprendenti quanto inusitati; la descrive e la coniuga con un orizzonte affascinante di temi e di problemi, di opere e di autori, che aprono alle più imprevedibili interpretazioni: non per mero gusto erudito ma per la più vitale delle ragioni; per evitare cioè il pericolo che accada ciò che sempre può accadere e che si può evocare con l'efficace espressione di Bruno Callieri: "quando vince l'ombra"...

 

 

Dal testo di Leoni:

Senso e psiche. Dai primi studi sulla questione del significato in logica alle ultime ricerche tematicamente incentrate sulla vicenda della psicologia, Edmund Husserl non fa che mostrare instancabilmente l’insufficienza dello psicologismo e della psicologia rispetto alla questione del senso: del senso di un segno matematico, di un’operazione aritmetica, di un’oggettività logica o lato sensu scientifica, di un incontro di mondo, di un qualsiasi "significato" (di una qualsiasi "formazione di senso", egli dice). Cioè, Husserl non fa che mostrare l’insufficienza, e l’ingenuità, del rinvio della questione del senso al dominio dello psicologico, della psiche, della soggettività psichica, psicologicamente o psicologisticamente intesa.

È appunto questo questo rinvio psicologistico del senso che la sua fenomenologia colpisce al cuore, contestandone l’assunto di fondo o l’illusione di fondo, e, in ultimo, il "senso". L’assunto, cioè, secondo cui si danno "esperienze esterne" e, simmetricamente, "esperienze interne", esperienze oggettive ed esperienze soggettive, cose che stanno là fuori, insomma, "nel mondo", come si suol dire, al modo di oggetti, e cose che stanno qui dentro, in noi, nella nostra interiorità, come stati soggettivi di un soggetto (siamo al § 63 della Krisis, intitolato "Problematicità dei concetti di ‘esperienza interna’ e di ‘esperienza esterna’"). E l’assunto ovviamente connesso con il primo, cioè che il senso sia un che di direzionale, di direzionato, di proveniente da e di avviato a (dall’interno all’esterno, dalla psiche al mondo, dal soggetto all’oggetto, dall’io alle cose, con dal mio corpo ad altri corpi, una superficialità che troppe volte è stata indebitamente letta nell’idea husserliana di intenzionalità).

Che cosa contesta Husserl con questa mossa, con questa messa fuori gioco della nostra familiare partizione tra dentro e fuori, tra oggettività e soggettività? Contesta che il terreno che la psicologia credeva ultimativo, ovvio, evidente, sia davvero tale: ultimativo, ovvio, evidente. Mostra che quel terreno è esso stesso frutto di decisioni teoriche nascoste, di astrazioni che non scoprono, ma anzi ricoprono, come dice caratteristicamente, la natura del fenomeno che vorrebbero comprendere, la natura del senso, il senso del senso. Mostra, cioè, che quel terreno non è ciò che rivela o che può rivelare la dimensione originaria del senso, ma precisamente ciò che le fa velo, ciò che lo traveste. Uscire da quest’impasse significa appunto per Husserl rifondare fenomenologicamente la psicologia, che nelle sue analisi svela come sapere a sua volta inconsapevolmente "naturalistico", secondo una diagnosi che la storia successiva della disciplina doveva confermare, e anzi aggravare, in ogni dettaglio. Ma rifondare la psicologia in senso fenomenologico significa ancora, per Husserl e, ancor più, per quanti hanno via via approfondito il suo progetto, portare a fondo la psicologia stessa. Approfondirla e, insieme, affondarla. Portarla in direzione di un trascendentalismo che, nella sua radicalità, ne mostra il fondo e il senso in tutt’altro luogo: in un luogo imprevedibile, cui proprio la psicologia era stata cieca come nessun’altra disciplina. Il che significa, allo stesso tempo, portare via via la dimensione del soggetto, della psiche, del soggetto, dell’anima, fuori da se stessa, fuori dal soggettivismo, fuori dalla falsa soluzione del senso come senso soggettivisticamente declinato, psicologisticamente decidibile e plasmabile.

Qual è questo luogo né interiore né esteriore, o questo accadere né soggettivo né oggettivo, di cui già ogni oggettività e ogni soggettività sono le "interne" formazioni di senso, per dire così, paradossalmente? Come ripensare la donazione del senso, il senso stesso, il suo accadere, la sua venuta a partire da questo luogo altro, da questo luogo che non è, evidentemente, un luogo localizzabile, un luogo indicabile, un luogo di-mostrabile (dato che ogni mostrare lo presuppone, ogni localizzazione lo ha già alle spalle, ogni indice indica non lui a partire da lui)? Sono le questioni decisive della fenomenologia (di questa fenomenologia, almeno, husserliana e posthusserliana, e, diceva Dufrenne in una notazione tutt’altro che semplicemente geografica, "francese"). Sono le questioni che ne disegnano il perimetro, e insieme le questioni destinate a trascinare la fenomenologia fuori dal perimetro che essa stessa si era data, fuori dalla propria iniziale Einstellung, e in certo senso fuori dalla fenomenologia stessa (se si vuole: al limite della fenomenologia stessa, che è l’unico luogo che essa possa, peraltro, abitare sensatamente).

 

 

Schizofrenia. Forse i casi clinici che la psicopatologia fenomenologica ha talvolta descritto facendo ricorso, sul filo delle analisi di Roland Kuhn, all’enigmatica categoria del "rovesciamento dell’intenzionalità", altro non portano sulla scena che il riemergere delle vestigia ormai inabitabili di quel luogo inaugurale dell’esperienza che è il senso. Prima che i "raggi" — come Husserl li chiamava: Strahlen — della mia coscienza si indirizzino a questo albero, e perché essi possano indirizzarvisi, è infatti necessario che l’albero si sia rivolto e continui a rivolgersi a me, e anzi i suoi raggi mi abbiano da sempre trafitto tanto a fondo da rendermi inconsapevole delle ferite sofferte. Non sono appunto queste ferite, che nella schizofrenia vediamo riaprirsi e sanguinare?

Le cose sembrano allora guardare anziché lasciarsi guardare, gli oggetti sembrano ascoltare e prendere l’iniziativa. Il mondo attende al varco, sogghignando in una smorfia indecifrabile. Gli stessi pazienti parlano talvolta di "raggi", con una curiosa, stregata intuizione che rovescia esattamente (e in certo senso genialmente) la lezione husserliana. Raggi che attraversano e colpiscono, lame o sguardi o voci che promanano da persone e oggetti che noi diremmo assolutamente banali, quotidiani, inoffensivi. La follia di questo nonsenso, che troppo rapidamente ascriviamo, d’abitudine, all’ambito dello psicopatologico, non costituisce una semplice eccezione, una dolorosa stramberia o un’incomprensibile degenerazione del senso, della normale "direzionalità" dell’esperienza, della sua abituale costituzione teleologica, del suo consueto ordine di significati. Essa ne porta alla luce e ne riattiva al contrario, nella catastrofe delle faticose costruzioni della "normalità", una dimensione archeologica inaggirabile e insormontabile: momento non intenzionale dell’intenzionalità, momento non significabile del senso, in cui quest’ultimo è ancora tutt’uno, o ancora allude in una bruciante prossimità, al proprio rovescio e alla propria indimenticabile coappartenenza a quel rovescio.

È inabitabile, questo nonsenso "psicopatologico" in cui le cose inanimate mi guardano e gli altri mi fissano minacciosi, esattamente come è inabitabile il nonsenso, cui siamo tanto più docili a prestare fede abitualmente, secondo cui saremmo noi, con le nostre facoltà soggettive, le nostre coscienze trascendentali, le nostre operazioni psicologiche, a istituire significati e a esercitare le arti misteriose della donazione di senso. Entrambi i nonsensi, entrambe le direzioni d’esperienza abitano forse segretamente e simultaneamente, e perciò anche efficacemente, ogni "nostro" gesto; ed è, per parlare ancora con Husserl, di quel loro Umschlagspunkt che in ogni istante fa prova e realizza la vertigine l’esperienza, che non a caso i tedeschi chiamano Erfahrung.

 

 

 

Daemon meridianum. Ha notato Walter Benjamin in un brano folgorante di Ombre corte (lo ricorda Enrico Guglielminetti nelle ultime pagine del suo Il mondo in eccesso, osservando che una notazione simile, forse nota a Benjamin, si trova anche in Novalis) che il mezzogiorno è l’ora della perfetta coincidenza di ciascun oggetto con la sua ombra: l’ora che consuma ogni distanza, ogni stacco, ogni eccentricità; l’oggetto non emerge più dal suo orlo nero, non sussiste più nel suo rimbalzo, nel suo rinvio, nella sua provenienza da-a, dall’ombra alla luce o dalla luce all’ombra, in un’oscillazione originaria, in una ritmica tensione con se stesso.

Il mezzogiorno, diciamo così, è l’ora (è la luce) priva di resto, l’ora senza residuo, senza margine. Stasi, immobilità, inerenza soffocante dello stesso allo (o nello) stesso. Non stupisce quindi che tradizioni antichissime abbiano pensato il meriggio come l’ora del dio Pan, della coincidenza di tutto con tutto, della fusione con la natura o dell’indistinzione tra l’io e il mondo divenuti incandescenti, accecanti e accecati, frementi di una vita spinta al parossismo e, insieme, dimentica di sé e del mondo (né stupisce che un pensatore della vertigine come Caillois abbia dedicato alla figura del demone meridiano un intero libro). Altrettanto comprensibile è che la tradizione cristiana, non immemore di questo orizzonte, abbia visto nel mezzogiorno l’ora dell’accidia: l’ora della lentezza e del ritrarsi del desiderio, cioè, del demone che annulla ogni distanza, dunque ogni cammino possibile (ogni preghiera, se la preghiera è l’originaria attenzione e apertura del monaco a ciò che accade, così come accade, nei limiti in cui accade).

Non solo o non tanto l’incombente calura, la laboriosa digestione del pasto, la fatica da poco interrotta fanno del mezzogiorno l’ora del demone, l’ora dell’akedia, dell’azzeraramento della cura, del tradimento e dell’abbandono dell’impegno cui si è tenuti nei confronti di sé, degli altri, delle cose del mondo. Ma la luce abbagliante, il perfetto, e dunque perfettamente indiscernibile phainesthai del mondo all’io e dell’io al mondo, questo taglio di luce assoluta eguaglia l’abbraccio dell’assoluta ombra, splendente luminosità in cui nulla s’illumina e nulla risplende. Il sole sta, al culmine del suo tragitto arcuato, nel suo Umschlagspunkt, nel punto d’inflessione del suo cammino, perfettamente immobile. Tutto si immobilizza, con lui, annullata com’è ogni tensione da-a, ogni direzione qui/là, ogni significato. Lo sa bene ancora Flaubert, quando in Madame Bovary descrive la luce del mezzogiorno come luce priva di profondità, indifferente, levigata, spenta per essere troppo accesa: esatto contrario del tramonto e della sua luce caravaggesca, tutta dialetticamente intramata di buio e di desiderio. Lo sa bene de Nerval, il cui melanconico sole nero ha in sé l’eco lontana dell’accidia e del suo cancellare ogni possibilità di vita attiva.

Ma appunto: l’interruzione del significato nell’attimo estatico del senso è uno zero in cui tutto ridiventa possibile: è l’ora dell’indistinto in cui i distinti si immergono per riemergere, dimentichi di sé, riaperti al nuovo. Per questo l’incuria (l’akedia o l’accidia) del monaco non è tanto o soltanto un problema medico o psicologico o teologico, ma, per dire così, una questione di ordine pubblico e di governo della comunità (Foucault lo comprenderà benissimo, nei suoi scritti sul monachesimo). Problema politico e cosmologico insieme, in cui la dimensione troppo umana del significato si confronta con l’ingovernabile che irrompe, con il senso che esplode nella sua vertigine inaddomesticabile, con l’informe che assedia silenziosamente dall’interno ogni forma istituita.

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