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Convegno "Malattia mentale e diritto"

Presentazione di Gilda Ferrando

Nei giorni 11 e 12 dicembre 1998 si è tenuto presso il Dipartimento di Diritto dell'Economia e dell'Impresa della Facoltà di Economia dell'Università di Genova il convegno Malattia mentale e Diritto organizzato dalle professoresse Gilda Ferrando e Luciana Cabella Pisu.

Il convegno ha affrontato, in una prospettiva interdisciplinare, molte delle questioni relative alla condizione giuridica del sofferente psichico.

Sono stati discussi i limiti degli attuali istituti civilistici a protezione dei soggetti incapaci ed i progetti di riforma attualmente all'esame del Parlamento.

Il dibattito, molto vivace, ha messo in evidenza i limiti e le insufficienze degli attuali istituti giuridici (capacità, incapacità, rappresentanza, tutela, imputabilità) nell' assicurare un'adeguata protezione del sofferente psichico ed ha dato un utile contributo nella direzione della loro auspicata riforma.

La disciplina del codice civile a tutela degli incapaci da più punti di vista appare infatti inadeguata a fronteggiare il problema della protezione delle persone che soffrono di disagi psichici e perciò non sono pienamente in grado di provvedere a se stesse. Nell'ambito del diritto civile, voci numerose e autorevoli da tempo hanno svelato come le tradizionali nozioni di capacità, incapacità, rappresentanza non valgono a fondare il regime degli atti da compiersi nel suo interesse. Il tradizionale paradigma sul quale viene ordinata la disciplina degli atti compiuti dal sofferente psichico (alienazione/incapacità/ rappresentanza) - secondo il quale la malattia mentale determina l'incapacità a compiere qualsiasi atto della vita civile e rende necessaria quindi la pronuncia di interdizione e la nomina di un rappresentante legale che si sostituisca completamente all'incapace nel compimento di ogni atto della vita civile - da tempo è entrato in crisi e rivela la propria inadeguatezza sul terreno sia degli atti a contenuto patrimoniale, che di quelli a contenuto personale.

L'istituto dell'interdizione, a fronte di una dichiarata finalità di protezione dell'incapace, si rivela, nella prassi operativa, come strumento complesso, spesso in contraddizione con le finalità programmate, in quanto sovente si rivela come un mezzo di isolamento e di esclusione della persona dall'insieme delle relazioni sociali, proteso più a perseguire una esigenza esigenza di protezione dei beni, per conservarli nella loro consistenza ai congiunti, piuttosto che una di promozione della persona disabile. Non sorprende perciò che larga parte della dottrina denunci ormai da tempo un netto contrasto tra le norme codicistiche e gli stessi principi costituzionali i quali pongono all'apice della gerarchia dei valori la persona umana (art. 2 Cost.). In questo quadro, gli obiettivi da perseguire dovrebbero essere, piuttosto che la posizione di divieti o l'interdizione di attività, la pomozione del soggetto incapace, lo sviluppo delle sue pur limitate capacità. Al contrario, la condanna dell'individuo ad una permanente condizione di inferiorità giuridica ne sanziona e ne aggrava la condizione di emarginazione sociale (relazioni di Paolo Cendon e Paolo Zatti ed intervento di Massimo Dogliotti).

Dal canto loro i progressi nelle conoscenze psichiatriche hanno posto in luce l'eterogeneità delle situazioni di disagio che si vorrebbe riassumere nella formula "infermità di mente", quale presupposto dei provvedimenti limitativi della capacità di agire. Non pare infatti possibile istituire una meccanica correlazione tra ogni forma di disagio o malattia mentale e l'inidoneità a provvedere ai propri interessi o alla propria persona, così come sussistono, d'altra parte, situazioni in cui gli individui versano in uno stato intermedio di salute o alternano momenti di lucidità a momenti di disagio psichico, persone autosufficienti per larga parte del tempo, ma occasionalmente in preda a difficoltà e per le quali - come denuncia larga parte degli studiosi - il rimedio dell'interdizione (ed in qualche misura anche quello dell'inabilitazione), precludendo alla persona qualsiasi attività giuridica, risulterebbe penalizzante ed eccessivo.

A rendere ancora più evidente il distacco tra i bisogni delle persone che soffrono di disagi psichici e l'angustia delle soluzioni adottate dal codice civile ha contribuito in modo significativo la legge 13 maggio 1978,n.180 che, superando la vecchia legge manicomiale, ha dato nuova forma al sistema di assistenza psichiatrica. Si tratta di un disegno la cui attuazione ha incontrato difficoltà e resistenze, ma che proprio di questi tempi chiede agli operatori impegnati nell'assistenza psichiatrica di compiere un ulteriore e decisivo sforzo per realizzare un definitivo superamento delle strutture manicomiali.

Sul versante civilistico, la legge n. 180 ha comportato l'abrogazione dell'art. 420 c.c. (il quale prevedeva che i Tribunali, nell'autorizzare l'internamento in ospedale psichiatrico, potessero altresì disporre la nomina di un tutore provvisorio) e la conseguente ricerca, da parte degli interpreti, di nuovi strumenti per provvedere alla protezione degli incapaci.

D'altro canto il problema della protezione dei disabili non può circoscriversi alla considerazione del malato psichico. E' infatti la stessa condizione in cui versano gli anziani, o almeno larga parte di loro, a richiedere la elaborazione di forme di tutela diverse da quelle tradizionali.L'anziano,infatti, per l'insorgere di patologie degenerative, vuoi di tipo fisico che di tipo psichico, dipendenti dall'età avanzata, sempre meno è in grado di fronteggiare da solo i problemi della vita quotidiana e necessita perciò di strumenti di sostegno elastici e flessibili quanto occorre per adeguarsi alle diverse esigenze di ciascuno.

Per queste ragioni in altri ordinamenti si è provveduto ad introdurre strumenti di protezione dell'incapace diversi da quelli della tradizione, dotati di una maggiore elasticità e flessibilità e più chiaramente indirizzati alla tutela della persona piuttosto che del suo patrimonio. Nella loro varietà e differenze, sono in questo senso molto interessanti le riforme realizzate in larga parte dei paesi europei (Germania, Austria, Francia, Belgio,Spagna, per citarne alcuni) A questo scopo è risultato molto utile il confronto con le esperienze straniere che già da tempo conoscono forme più flessibili di protezione del disabile (relazioni di Gabriella Autorino Stanzione, Philippe Delebecque, Michael Will, Encarna Roca Tria, Phil Bates con il coordinamento di Anna De Vita).

Anche da noi, per conciliare le diverse esigenze ed evitare ad un tempo le soluzioni estreme dell'interdizione e dell'abbandono dell'incapace a se stesso, la dottrina consiglia un altro scudo istituzionale, vale a dire uno strumento nel quale la capacità di agire della persona non risultasse compromessa formalmente, e in cui fosse peraltro assicurato, sotto il controllo giudiziale, il possibile sostegno occasionale di un organo vicario ben preciso. Ed è in questa direzione che va il disegno di legge per l'istituzione di un "amministratore di sostegno" per i disabili attualmente all'esame del Parlamento (Testo unificato dei Disegni di legge n.960 e 4040 approvato dalla Commissione Giustizia della Camera nell'ottobre 1998, discusso nella tavola rotonda in modo particolare da Gaspare Lisella e Angelo Venchiarutti)

In mancanza di una riforma, gli operatori del settore dispongono di pochi strumenti con cui far fronte alle situazioni critiche. Si propone così il ricorso vuoi all'art. 3 c.6 l. n.180/1978 (norma che autorizza il giudice tutelare ad adottare, qualora ne sussista la necessità, i "provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e amministrare il patrimonio dell'infermo"), vuoi all'art. 361 c.c. (che consente al giudice tutelare, prima che il tutore o il protutore abbia assunto le proprie funzioni,di adottare i provvedimenti necessari alla cura della persona o alla conservazione e amministrazione del patrimonio del soggetto da proteggere) (su questi temi in particolare si sono soffermati gli interventi di Piercarlo Pazzé, Alberto Figone, Patrizia Petrelli, mentre Luciano Bruscuglia ha affrontato il tema del c.d testamento psichiatrico).

E' stata quindi discussa la nozione giuridica di imputabilità ed il contributo offerto da psichiatria (relazione di Vittorino Andreoli) e psicoanalisi (relazione di Mauro Mancia) al problema della responsabilità civile (relazione di Giovanna Visintini) e penale (relazione di Lino Monteverde) del sofferente psichico (hanno partecipato alla discussione Tullio Bandini, Ileana Castellano,Mario Novello, Bruno Orsini). Le trasformazioni intervenute negli ultimi trent'anni nelle concezioni e nelle pratiche dell'intervento psichiatrico hanno aperto molteplici problemi nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, fino a porre apertamente in discussione il valore e l'utilità della considerazione del malato di mente autore di reati come soggetto non imputabile, mentre il riconoscimento della sua responsabilità, invece che ribardirne l'esclusione, potrebbe meglio contribuire al suo recupero sociale. Anche il trattamento giuridico dell'infermo di mente autore di reati richiede dunque una nuova considerazione. E su questo punto il confronto tra psichiatri e giudici presenti al Convegno è stato particolarmente interessante ed utile.

La tavola rotonda di sintesi (cui hanno partecipato Andrea Beconi, Luca Beltrametti, Pietro Iozzia, Gaspare Lisella,Tommaso Lo Savio, Angelo Venchiarutti, con il coordinamento di Guido Alpa) ha ripreso queste tematiche, soffermandosi in modo particolare sull'amministatore di sostegno (Gaspare Lisella, Angelo Venchiarutti), sugli aspetti di politica economica dell'assistenza al sofferente psichico (Luca Beltrametti), sul superamento delle attuali strutture manicomiali (Pietro Iozzia, Tommaso lo Savio), sui limiti del c.d. "doppio binario" (carcere, manicomio giudiziario) su cui ancor oggi poggia il trattamento giuridico del soggetto non imputabile autore di un reato (Andrea Beconi).

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