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H. R. Wulff, S. A. Pedersen, R. Rosenberg, Filosofia della Medicina, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, pp. 267, Ä 20,14

La prima edizione di Philosophy of Medicine, scritto da un medico, un filosofo e uno psichiatra danesi, non è affatto una pubblicazione recente. Anzi, sono già un po’ di anni che questo libro è stato proposto all’attenzione di un pubblico che lo accolse ieri come oggi (alla sua quinta edizione italiana) con un’indifferenza del tutto immeritata.

Il volume è stato scritto soprattutto per i rappresentanti della professione medica, gli studenti di medicina e per tutte le persone impegnate nei servizi sanitari. Si rivolge a coloro che "si prendono cura" dei pazienti e apprezzano l’importanza del progresso tecnologico, ma sono, nello stesso tempo, preoccupati che ci si possa dimenticare che i pazienti sono esseri umani consapevoli e non solo "macchine biologiche".

La filosofia non gode tradizionalmente presso i medici di un grande prestigio e la Filosofia della medicina non è certo un tema centrale nelle facoltà di medicina europee. Esponenti di una disciplina che può giustamente vantare successi tecnologici continui e riconosciuti, fra i medici sembra ancora prevalere il richiamo pragmatico ai fatti concreti. Il fermarsi a riflettere su principi generali o su definizioni astratte può apparire una inutile perdita di tempo. La responsabilità e l’urgenza dei compiti di ogni giorno sembrano poi rendere appena sufficiente l’impegno per l’aggiornamento. Inoltre, durante il lungo periodo di preparazione all’esercizio professionale si richiede agli studenti di assimilare un numero sempre crescente di nozioni su un’enorme quantità di malattie. Il loro tempo è totalmente occupato nell’acquisire conoscenze sufficienti a soddisfare i professori e gli studenti, di solito, accettano il modo in cui la medicina è praticata usualmente, senza mettere in discussione gli assunti sui quali la pratica medica è fondata.

In questi ultimi cinquant’anni, la medicina dei paesi occidentali ha registrato immensi successi e, sicuramente, nei prossimi cinquant’anni assisteremo a progressi scientifici stupefacenti come quelli del tempo appena trascorso. Considerando tutto ciò che resta ancora da fare e l’evidente efficacia degli attuali metodi di ricerca, sembra lecito quindi affermare che ogni preoccupazione filosofica è del tutto oziosa, giustificando così anche la scarsa attenzione concessa ai temi trattati in questo lavoro e il silenzio sotto cui è passato.

Tuttavia, lo scopo di questo libro è appunto persuadere del contrario, essendo convinti, gli Autori, che la medicina stia attraversando una nuova fase nella quale si devono mettere in discussione gli assunti di base. Essi, infatti, sostengono che la medicina si trova attualmente in un periodo di "instabilità paradigmatica", ossia in un periodo in cui i medici devono riconsiderare la loro azione, i loro ruoli e le loro responsabilità nei confronti sia dei pazienti sia della società.

In una chiara esposizione delle differenze filosofiche fra empirismo e realismo, gli Autori fanno notare come la scienza e la medicina siano state dominate dal punto di vista dell’empirismo, vale a dire di quella scuola filosofica che culmina nel positivismo logico. I filosofi empiristi sono interessati principalmente ai fatti osservabili e disdegnano la speculazione morale o metafisica. Applicato alla medicina, questo atteggiamento filosofico ha avuto la desiderabile conseguenza di rendere i medici molto più obiettivi nello stabilire e confrontare i risultati delle terapie. Gli Autori ci ricordano comunque che l’approccio rigorosamente oggettivo, "scientifico", ai problemi medici è relativamente nuovo. Gli esperimenti a doppio cieco, il corretto uso della statistica e strumenti simili sono sviluppi recenti e benvenuti. Tuttavia, quello che questo libro sostiene è che il concetto naturalistico dell’uomo è eccessivamente semplicistico e ristretto, in quanto ignora alcune delle principali caratteristiche costitutive della natura umana e che la medicina è qualcosa di più di una branca della scienza della natura. Ciò dovrebbe portare ad una riconsiderazione della nozione di "malattia", sembrando agli Autori, tra le altre cose, inadeguato il concetto di malattia come semplice disfunzione biologica: per pazienti diversi, infatti, la stessa "malattia", come ad esempio l’ulcera duodenale, può avere significati del tutto differenti.

L’idea che le cause di una malattia siano generalmente molteplici è di solito accettata dai medici. Ad ogni modo, l’approccio puramente biologico tende a spostare in secondo piano le "cause" soggettive. L’interazione tra fattori sociali, personali, genetici e di altro tipo nel prodursi delle malattie è molto più complessa di quanto si creda. Gli Autori sostengono che i medici, occupandosi di una particolare malattia, sono di solito in grado di identificare alcuni fattori non ridondanti nella rete causale, ma trascurano completamente molti altri fattori che si dovrebbero invece prendere in considerazione. Inoltre, non è assolutamente chiaro che cosa costituisca una "malattia". Questo vale soprattutto in psichiatria, un campo nel quale le definizioni di "malattia" sono soggette a frequenti cambiamenti.

La discussione di questi problemi da un punto di vista filosofico mette fortemente in dubbio la visione generica per cui le malattie sono entità naturali facilmente definibili. Gli Autori rilevano e ben argomentano che la nozione empirica di malattia, come disfunzione biologica chiaramente definibile, è palesemente inadeguata, rendendo anche evidente come la nozione non solo di malattia ma anche quella di terapia dipenda appunto dall’idea che si ha proprio intorno alla natura umana.

E’ lecito affermare che vi siano "entità" come le malattie? Esiste qualcosa come una "malattia mentale"? Che tipo di connessione c’è tra mente e corpo? L’essere umano può essere considerato alla stregua di qualsiasi altro organismo vivente? Come si interviene con successo sul corpo? E’ possibile curare anche la mente? Tutte queste non sono domande "metafisiche" o più semplicemente date per scontate: da come si risponde dipende sia l’atteggiamento del singolo medico nei confronti dei malati, sia il modo in cui una società "civile" struttura i propri servizi sanitari.

Questo libro testimonia infine la fecondità di una collaborazione insolita. Non sono a conoscenza di altri libri scritti congiuntamente da un filosofo, un medico e uno psichiatra. Esso indica come una conoscenza "parcellizzata" e troppo specialistica sia di per sé sterile, e come sia necessaria una comunicazione a più "voci" ed a più saperi.

In definitiva, è possibile riassumere la tesi che gli Autori sostengono e dimostrano con il seguente loro pensiero: "Noi non consideriamo la filosofia della medicina una disciplina puramente accademica; siamo invece convinti che lo studio delle questioni filosofiche possa dare una mano sia a chi fa scienza sia a chi lavora in clinica per la soluzione dei problemi della sanità nella società contemporanea. Che l’ammalato sia qualcosa di più di un orologio guasto da riparare non è solo una nobile presa di posizione etica, ma deve diventare la regola del rapporto medico-paziente".

MARCO INGHILLERI

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