logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina
logo pagina

GIULIO GIORELLO, Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 250, Euro 19,80

 

Probabilmente Italo Calvino aveva ragione quando scriveva che "con i miti non bisogna avere fretta", ma soprattutto — ci suggerisce Giulio Giorello nel suo Prometeo, Ulisse Gilgamesh. Figure del mito (Raffaello Cortina, Milano 2004) — non bisogna liquidarli troppo velocemente di fronte all’inarrestabile emergenza della cosiddetta epoca del logos. E per quanto il "verbo filosofico" abbia tentato di costringere ai margini del discorso la "parola mitica", per Giorello "quella parola non ha mai cessato di trasformare i luoghi che attraversa, di plasmare le maschere che incontra, di dettare i metodi della propria espressione". Non siamo, però, di fronte a una incondizionata riproposizione dell’antica "parola vera": trasformarla in un sinonimo di leggenda, piuttosto che ridurla a un significato esemplare e ideale, costituiscono altrettante strategie di annientamento della sua forza espressiva.

Confrontarsi col mito per il filosofo della scienza milanese implica fare esperienza della sua continua riscrittura: "il mitologema si forma e si riforma in una dissoluzione di stili, di gerghi e di provenienze che mina l’unitarietà e il senso di una presunta origine e di una pretesa identità". Questa "vicissitudine", che per un filosofo come Giordano Bruno non risparmiava neppure i destini degli dei, sembra dunque essere quella logica metamorfica senza la quale il mito degrada a mitologia, divenendo nella migliore delle ipotesi una sorta di reperto archeologico, un tassello fondamentale ma solo per ricomporre il quadro di un tempo trascorso per sempre. Le "figure del mito" dunque continuano a rivivere, provocando e plasmando le nostre esistenze; la difficoltà semmai è quella di riuscire a riconoscere anche nell’epoca del disincanto i modi del loro ritorno.

L’Autore fa sua questa sfida inseguendo le molteplici sorti che la storia, la letteratura e la scienza hanno riservato a Prometeo, Ulisse e Gilgamesh. Ecco allora il dio greco che nei versi di Eschilo sapeva di essere "inviso a Zeus per aver troppo amato i mortali", tornare nelle vesti del Satana del Paradise Lost di John Milton come ribelle al dio-tiranno dei puritani, per indossare poi nel Prometeo scatenato di Percy Bysshe Shelley i panni di un "repubblicano e audace indagatore della morale e della religione" che non esita a combattere per una "democrazia cosmica". Se infatti nell’astronomia di Keplero il Sole rappresentava ancora una sorta di sovrano che dominava i pianeti come sudditi, la lettura shelleyana della cosmologia newtoniana in cui "ogni attrazione è mutua" consente al poeta inglese di cogliere, in quell’elegante compagine di corpi celesti, una "repubblica", la cui stabilità appresa dalla lezione di Pierre-Simone de Laplace lo metteva nelle condizioni di escludere anche l’eventulità (ammessa dallo stesso Newton) del provvidenziale, ancorché saltuario, intervento di un "Agente potente ed eterno". La tracotanza di Prometeo rivive poi nelle imprese di Victor Frankestein, lo scienziato immaginato da Mary Shelley che, sottraendo a Dio il privilegio di dare la vita, si consegna a un destino di successi e disgrazie i cui echi sembrano riemergere negli attuali dibattiti scatenati dai progressi dell’impresa tecnico-scientifica.

Giorello sembra poi "tornare a casa" quando insegue la stella di Ulisse per le strade della Dublino del 16 giugno 1904. Ma per quelle strade non si incontrerà più "l’uomo della macchinazione" che ha saputo porre fine alla Guerra di Troia. L’"eroe" di James Joyce è un procacciatore di inserzioni pubblicitarie, di nome fa Leopold Bloom, il suo periplo dura solo un giorno. In una città in cui Dio è solo un "urlo per la strada" — e la teodicea si traduce nelle ragioni e nei torti di una cruenta guerra civile — il grande Odisseo diventa un qualunque "signor Nessuno". Ma proprio qui Giorello mostra come Ulisse incarni "l’emblema dell’incessante vicissitudine delle forme e l’ineluttabile legge del tempo" (ancora, dunque, Giordano Bruno).

Infine, l’epopea di Gilgamesh — eroe per due terzi divino e per un terzo umano, che non ha esitato ha sfidare gli immortali per condividere con la sua gente il segreto della vita — rivive nella storia e nei versi di Ezra Pound, che nella prigionia conobbe una prefigurazione della morte e che mostrò come il rinnovamento della poesia richiedesse l’esercizio della traduzione. La parola deve essere "tradotta, per essere tramandata; tramandata per essere tradotta: un destino di metamorfosi l’attende, e non sempre il tradimento le è fatale". Destinato al nulla sembra dunque, per l’Autore, solo ciò che rifiuta il mutamento e le sue leggi. Fedeltà e conoscenza sopravvivono solo in chi sa sopportare, capire e amare la "vicissitudine" stessa. Per dirla con Pound: "Ciò che sai amare rimane / il resto è scoria".

Stefano Moriggi

(Università di Milano)

LINKS

TORNA ALL'INDICE DEL MESE

CERCHI UN LIBRO?

CERCHI UNA RECENSIONE?

FEED-BACK:
SUGGERIMENTI E COLLABORAZIONI

Se sei interessato a collaborare — o se vuoi fare segnalazioni o inviare suggerimenti e commenti — non esitare a scrivere al Responsabile di questa Rubrica, Mario Galzigna, che si impegna a rispondere a tutti coloro che lo contatteranno.


spazio bianco
POL COPYRIGHTS