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A.Green, Idee per una psicoanalisi contemporanea,

Raffaello Cortina, Milano 2004, pp. 374, Euro 29,80

 

Il libro di Andrè Green, studioso che ha ricoperto eminenti ruoli nella Società Psicoanalitica Internazionale, s’inserisce nel complesso e movimentato dibattito in seno alla psicoanalisi contemporanea, per evidenziarne lo stato di frammentazione (egli parla di "tanti stati nello Stato"), se non addirittura di lacerante conflittualità, che può indurre a pessimistiche previsioni sulla futura identità di questa disciplina.

L’autore tenta di preservare una continuità ideale con i fondamenti della teoria freudiana: pur aprendosi, infatti, ad alcuni significativi contributi (quali quelli di Bion, di Lacan, non senza riserve, e soprattutto di Winnicott), li considera solo "prestiti", cioè apporti che non dovrebbero, tuttavia, portare ad un’integrale revisione del sistema freudiano.

Nella sua ricostruzione storica del percorso, molto accidentato, del movimento psicoanalitico, Green parla di "breve storia soggettiva" della psicoanalisi dopo la seconda guerra mondiale, non intendendo, cioè, presentarla in senso cronologico e sistematico, ma secondo il filo conduttore delle problematiche da lui ritenute più significative.

Nel periodo post-freudiano vengono evidenziate le istanze degli indirizzi socio-antropologici, nell’ambito del culturalismo americano, ad opera di movimenti dissidenti guidati da Horney, Fromm, Sullivan, che si oppongono a quella che è ritenuta l’eccessiva medicalizzazione della psicoanalisi istituzionale.

La riaffermazione della psicoanalisi ortodossa si collega al ritorno negli Stati Uniti, nel 1942, di H.Hartmann, che con Kris, Loewenstein e Rapaport, diede inizio all’indirizzo dell’ "Ego-psychology": l’Io, da semplice intermediario tra Es e principio di realtà, assume in questa teoria una maggiore autonomia (si pensi anche a "L’Io e i meccanismi di difesa" di Anna Freud), anche se si rimane sempre nell’ambito della teoria istintuale.

Un altro momento di svolta sarebbe rappresentato dalla posizione di Kohut, che oppone al momento della Ego-psychology quello della Self-Psychology, con la concezione di un soggetto non più dominato da fissazioni pulsionali, ma da "formazioni legate al narcisismo", con arresti dello sviluppo dovuti a problematiche oggettuali, risalenti ai primi stadi della vita psichica e ai primitivi rapporti con l’alterità.

Un tema di grande attualità, affrontato dall’autore, concerne il confronto tra psicoanalisi ortodossa e psicoterapie ad indirizzo analitico. Queste ultime, che Freud, come noto, paragonava al "rame", considerando "oro" solo l’analisi classica, trovavano un tempo indicazione unicamente nei casi di presunta debolezza dell’Io o di particolari fissazioni genitali. Green preferisce adottare il termine di "desertificazione psichica" per i casi in cui l’adozione rigorosa del metodo psicoanalitico classico, per la situazione "solipsistica" indotta dal setting, creerebbe stati di estremo smarrimento e di profondo sconforto nella personalità immatura del paziente. L’autore suggerisce, però, di estendere le indicazioni per la psicoterapia ad orientamento analitico non solo a questi casi-limite, ma anche ad un più vasto polimorfismo di pazienti, per cui esorta ad un più rigoroso apprendistato a tale tecnica nella formazione stessa dello psicoanalista.

Criticando, implicitamente, l’attuale tendenza al counselling e alla psicoterapia breve, Green sottolinea come il criterio di scelta non dovrebbe mai essere sulla base unicamente della durata, sostenendo di preferire trattamenti lunghi, pur con frequenza meno intensa: l’elaborazione dei temi analitici non è solo un problema di apprendimento intellettuale (per cui sarebbe assurdo tentare anche qui delle "full-immersion"), ma richiede sempre un lento lavoro di maturazione emotiva e la risoluzione dei problemi transferali.

Un certo tempo sarebbe anche richiesto da quello che viene definito il "percorso di andirivieni" dell’analisi, che caratterizza il discorso in seduta, col suo tipico e inevitabile momento di autocontraddizione: esso sarebbe dovuto, in particolare, alla compresenza di spinte liberatorie e resistenze profonde nel paziente (sulla base transferale di modelli educativi del suo passato), spesso collegate al timore di sanzioni dell’analista.

Per quanto riguarda la "cornice", pur nelle molteplici varianti ammesse, i criteri dell’associazione libera, da parte del paziente, e dell’attenzione fluttuante e benevola, da parte dell’analista, dovrebbero essere mantenuti il più coerentemente possibile con gli assunti della psicoanalisi: l’atteggiamento dello psicoterapeuta, secondo Green, non dovrebbe mai discostarsi troppo da quello di neutralità e sufficiente distacco, per la sua irrinunciabile funzione clinica.

Sul tema delle significative problematiche transferali e controtransferali nei trattamenti analitici, Green, ricostruendo storicamente la concezione freudiana del transfert, in un primo tempo collegato alla "coazione a ripetere", interpreta molte teorie successive, quali l’Ego-psychology e le concezioni di Lacan, Bion, Winnicott, Kohut, come reazione alla tendenza di Freud a porre le problematiche transferali in modo troppo pessimistico e solipsistico. In modo conforme a questi più recenti indirizzi, l’autore si chiede se non sia troppo restrittivo restare all’interpretazione del transfert come pura riedizione di antiche dinamiche biografiche o se non sia più opportuno disporsi a concepirlo anche come la spontanea espressione dello scambio tra due poli nella loro relazionalità discorsiva.

Si tratterebbe quindi di una doppia corrente transferale, anche se Green considera tale "dualità" non esaustiva di tutte le possibili implicazioni. Egli arriva così a teorizzare la "funzione terzizzante" in analisi, uno dei punti focali della sua concezione. Tale elemento attiene direttamente alla relazione transferale, per cui ogni vissuto del paziente riguarda non solo l’Io e Se stesso (in senso intrapsichico) o l’Io e l’Altro (in senso intersoggettivo), ma anche una terza realtà, extratemporale, che Green definisce come caratterizzata dall’ "assenza-presenza" di personaggi fantasmatici, riconducibili alle figure genitoriali. L’origine dell’oggetto analitico viene indicata nella primitiva rappresentazione del padre, presente all’inizio della vita psichica non come persona distinta, ma come "figura nella mente della madre", che introdurrebbe una sorta di "triangolarità", non solo edipica, nella coppia madre-bambino, il cosiddetto "terzo

sostituibile". Già nel 1975, con l’introduzione di questi "processi terziari", Green parlava di una "metapsicologia rivisitata", con conseguenze transferali importanti.

Nella relazione analista-paziente, infatti, sarebbe sempre presente questo oggetto analitico, da interpretarsi né come interno né come esterno alle due figure, ma costantemente "tra loro". Molteplici sarebbero le applicazioni di questo concetto di terzità o di "terzo analitico" (secondo la definizione di Ogden), che costituirebbero anche il fondamento dell’attività simbolico-rappresentativa del linguaggio, come sostiene la teoria triadica di Peirce.

Per quanto concerne, invece, le problematiche controtransferali, Green nota come, soprattutto su questo tema, lasciato piuttosto in ombra da Freud, si sia acceso un animato e controverso dibattito. L’autore distingue due posizioni paradigmatiche nella concezione del controtransfert: la prima, di stampo freudiano, limitata e ben definita nel suo ribadire la distanza dell’analista e la sua neutralità, e quella che, richiamandosi ad alcune istanze di Ferenczi, insiste sulla figura del terapeuta come "figura reale" (Heimann, Neyraut), fino a proporre addirittura uno scambio di ruoli all’interno della seduta. Green, pur mostrandosi aperto ad una revisione di certe stereotipie dell’analista classico, non nasconde preoccupazioni e diffidenze per le conseguenze di un eccessivo coinvolgimento del terapeuta nella seduta, senza un’attenta previsione delle possibili complicanze transferali. A tal proposito, l’autore ricorda gli assunti di Winnicott, secondo cui la madre ideale deve essere "sufficientemente buona", ma non troppo invasiva e totalizzante, per consentire al bambino di supplire ai suoi momenti di assenza attraverso la creazione di un autonomo mondo fantastico-rappresentativo. Analogamente, l’analista non dovrebbe assumere atteggiamenti troppo attivi e direttivi, per non limitare il processo di autonomia del paziente.

Criticando poi le posizioni di Renik e della nuova corrente dell’Intersoggettività, attualmente molto diffusa negli Stati Uniti, Green sostiene che tali indirizzi rischiano di esulare dai confini metodologici della psicoanalisi, non esitando a parlare di una "deriva", che avrebbe seguito un’intrinseca logica di percorso: dal rifiuto della teoria pulsionale si sarebbe passati a quello delle relazioni oggettuali, fino alla psicologia del Sé di Kohut, in cui si sarebbe attuata una riedizione del narcisismo. L’autore, in particolare, ironizza sul percorso di definitivo seppellimento delle pulsioni, che si vorrebbero abolire ed esorcizzare.

Queste tematiche controverse della psicoanalisi contemporanea sono state riprese da Green sulla mailing-list dell’International Journal of Psychoanalysis (giugno 2005), in occasione del dibattito cui ha partecipato, in contraddittorio con Wallerstein, sulla possibilità di rinvenire un "common ground" nel pluralismo della psicoanalisi contemporanea, nella difficile ricerca di un’identità di vedute, sul piano teoretico e clinico, o almeno di una maggiore integrazione tra i diversi orientamenti. Nel corso della discussione è stato messo in evidenza, in particolare, come le principali divergenze esistenti nella psicoanalisi contemporanea siano riconducibili a fondamentali contraddizioni che già caratterizzavano la stessa dottrina di Freud e la sua metapsicologia. Se, da un lato, infatti, sia l’Es che l’Io sono riconducibili a presupposti naturalistici, dall’altro, esiste anche l’esigenza di una concezione dell’Io riflessivo, che trova la sua prima formulazione nella teoria del narcisismo (più recentemente ripresa dalla psicologia del Sé di Kohut).

Mentre Green dimostra di non essere favorevole a sostanziali modifiche dottrinarie, all’interno del dibattito, nel tentativo di superare queste incongruenze teoriche e pratiche, è stata suggerita l’adozione di una più idonea e critica metodologia, dove le tematiche della soggettività e dell’Io riflessivo non siano più concepite in termini naturalistici, ma fenomenologico-dialettici.

Concludendo, l’opera di Green offre un significativo contributo nell’individuare i principali nodi problematici della psicoanalisi contemporanea, anche attraverso coraggiose denunce nei confronti di certe innovazioni, che si presentano d’immediata suggestione, ma sarebbero, in realtà, di scarso rigore scientifico. Sono presenti, come abbiamo visto, significative intuizioni sul dialogo analitico, anche se sembra che il quasi obbligato ripiegamento sulla teoria pulsionale costringa l’autore ad abbandonare tematiche personologiche che, al di fuori di un rigido inquadramento biologistico, sarebbero fertili di promettenti sviluppi (partendo da alcune premesse implicite nello stesso pensiero freudiano). Si auspica, quindi, per il futuro, di giungere alla teorizzazione di un Io che, pur nella costante problematicità della sua dipendenza istintuale, tenda a realizzarsi come personalità autonoma, ideale obiettivo di ogni trattamento analitico.

Gabriele Giacomini

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