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Shoji Harada, Hirokazu Tachikawa and Yoichi Kawanishi, Glutatione S-transferase M1 Gene Deletion May Be Associated with Susceptibility to Certains Forms of Schizofrenia, "Biochemical and Biophysical Research Communications", 281, pp. 267-271, 2001.

 

Qualche considerazione preliminare, prima di presentare e di commentare un recente contributo scientifico di alcuni ricercatori giapponesi dedicato ai rapporti tra biochimica e malattia mentale.

Agli inizi del ‘900 C. G. Jung avanzò l’ipotesi che la patogenesi della malattia mentale si potesse ricondurre a una tossina X endogena e a quest’idea si collegano i molti tentativi fatti successivamente per identificarne la natura. Negli anni ’50 vennero formulate diverse teorie che facevano riferimento a composti anomali presenti nelle urine di schizofrenici e identificati per cromatografia (es. pink spot, mauve spot, ecc.), ma si dovette riconoscere che questi erano generalmente metabolici di farmaci assunti dai pazienti. Negli stessi anni vennero introdotte in terapia le fenotiazine come la clorpromazina (largactil), un forte riducente con azione antipsicotica e Hoffer, Osmond e Smythies formularono l’ipotesi che composti derivati dall’ossidazione di neurotrasmettitori centrali come le catecolammine fossero il misterioso agente patogeno. Tali composti sono però estremamente labili e tutti i tentativi di identificarli "in vivo" non ebbero successo.

Negli anni ’60 l’ipotesi della patogenesi chimica delle malattie mentali venne rovesciata: più che per la presenza di composti anomali, il malfunzionamento del sistema cervello/mente poteva essere dovuto all’assenza di composti necessari per la funzione normale come le vitamine. Questo portò all’introduzione di trattamenti come la cosiddetta terapia megavitaminica proposta da Linus Pauling e basata sulla somministrazione di dosi molto elevate di certe vitamine, in particolare di acido ascorbico (vitamina C) e nicotinammide (vitamina PP). Negli stessi anni ebbe luogo la rivoluzione psichiatrica, resa possibile anche dall’uso dei farmaci antipsicotici, che pose fine alla pratica dell’internamento manicomiale, favorendo una maggiore attenzione al ruolo dell’ambiente esterno come fattore causale della patogenesi.

Come giovane biochimico, in quegli anni trascorsi in parte negli USA e in Francia, proposi un’ipotesi chimica sulla genesi della malattia mentale (L. Galzigna, Nature vol.225, pag. 1058, 1970), in cui l’ossidazione delle catecolammine e la formazione di aminocromi endogeni venivano additati come principali agenti eziologici della malattia mentale.

Negli anni che seguirono l’arsenale farmacologico per la terapia delle malattie mentali si arricchì di antipsicotici di seconda e terza generazione e si trovò il modo di controllare i disturbi di ansia, la depressione e altre forme psichiatriche.

Gli sviluppi della biologia molecolare - e la scoperta dell’origine ereditaria di molte altre malattie - spostarono l’attenzione degli studiosi verso i fattori genetici e proseguì, di conseguenza, la contrapposizione tra quelli che ritenevano la malattia mentale come una forma organica derivante da una "causa" molecolare e quelli che attribuivano all’ambiente e alle variabili relazionali il ruolo patogenetico principale.

Con l’affinamento delle tecniche di studio sperimentale l’ipotesi molecolare restò predominante, almeno tra i ricercatori di base, e anch’io, pur escludendo che vi potesse essere un’unica "causa" del malfunzionamento mentale, continuai a studiare il metabolismo delle catecolammine centrali (J. Smythies e L. Galzigna, Bioch. Bioph. Acta vol. 1380, pag. 159, 1998). Mentre negli anni ‘60-70 la formazione del composto tossico endogeno sembrava tuttavia ascrivibile a processi ossidativi aspecifici, negli anni ‘90 si arrivò a identificare un enzima specifico capace di trasformare molecole fisiologiche come la dopamina nel derivato tossico dopaminocromo (L. Galzigna et al. Bioch. Bioph. Acta vol. 1427, pag.329, 1999). Questo stesso enzima era in grado di riconoscere come co-substrati le fenotiazine (L. Galzigna et al. Free Radical in Biology and Medicine vol.20, pag. 807, 1997) e venne identificato in aree subcorticali del ratto e in reperti autoptici di mesencefalo umano (L. Galzigna et al. Clin. Chim. Acta vol. 300, pag. 131, 2000), risultando fortemente aumentato nei gangli della base di pazienti con morbo di Parkinson.

L’azione neurotossica di derivati ossidati delle catecolammine ha frattanto ricevuto ampia conferma da studi su colture "in vitro" di cellule mesencefaliche (J. D. Troudec et al. J.Neurochemistry vol. 79, pag. 200, 2001) e recentemente è apparso l’articolo che ha dato origine alla nostra nota di recensione.

In tale articolo gli autori — tutti e tre giapponesi — hanno rilanciato l’ipotesi neurotossico-genetica della schizofrenia. Il loro studio è partito dalla premessa che gli aminocromi vengono detossificati a livello centrale per coniugazione con il glutatione. Tale reazione è catalizzata dall’enzima glutatione-S-transferasi, molto polimorfo e presente in diverse classi identificabili in un cromosoma umano. Un difetto genetico relativo alla sintesi di quest’enzima è stato riscontrato in un gruppo di 87 schizofrenici di entrambi i sessi — diagnosticati, secondo il DSM-IV, come pazienti affetti da schizofrenia disorganizzata — messi a confronto con un gruppo di 117 volontari sani senza precedenti psichiatrici. L’analisi del DNA è stata condotta nel sangue di questi individui e negli schizofrenici è stata riscontrata una delezione presente con frequenza altamente significativa. Gli autori di questo studio concludono che la delezione genica riscontrata, più che una causa diretta della schizofrenia, si deve ritenere come ragione di una particolare vulnerabilità dei pazienti all’azione neurodegenerativa e neurotossica di tossici endogeni difficili da eliminare.

Un’annotazione conclusiva — che è insieme un breve commento allo studio qui recensito — ci spinge a sottolineare la natura multifattoriale delle origini della schizofrenia. Prendendo per buoni i dati riportati, occorre infatti distinguere i fattori neurotossici del tutto casuali da quelli genetici più deterministici. Nessuno dei due tipi di fattori sembra necessario e sufficiente come potrebbe essere la loro combinazione: non tutti gli individui in cui si forma la neurotossina a livello centrale - ma anche non tutti i portatori del difetto genetico - manifestano i sintomi del disturbo psichico. Una delezione genica come quella riscontrata è un difetto presente con una determinata frequenza nella popolazione, ascrivibile ad antiche mutazioni che si sono perpetuate nel corso delle generazioni. Se vi sono azioni neurotossiche dovute ad inquinamento, alimentazione, stile di vita, stimoli ambientali che interessano tutti gli individui — e da cui ciascuno di essi si difende con meccanismi fisiologici a ciò preposti — occorre notare che alcuni di questi individui presentano una carenza geneticamente determinata di tali difese.

Ci si potrebbe chiedere come mai la mutazione si sia perpetuata fino ad oggi. Nel caso, per esempio, dell’anemia falciforme, si sa che il relativo difetto genetico comporta un vantaggio selettivo, nella misura in cui i soggetti falcemici hanno una maggiore resistenza alla malaria. Quale potrebbe essere il vantaggio selettivo negli schizofrenici? Mi sembra di poter dire che non siamo ancora in grado, per ora, di rispondere a questa domanda.

All’antico quesito se la pazzia abbia un’origine genetica o dipenda dall’ambiente si può comunque rispondere che entrambe le risposte sono plausibili ma parziali, dal momento che solo l’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali "determina" il comportamento riconosciuto come patologico.

Lauro Galzigna

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