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R. Kuhn, Écrits sur l’analyse existentielle, Textes réunis et présentés par Jean-Claude Marceau, Préface de Mareike Wolf-Fédida, Paris, L’Harmattan, 2007. di Elisabetta Basso

Stando alla testimonianza di biblioteche e librerie, Roland Kuhn appare tutt’oggi in Italia un’autore pressoché sconosciuto, e questo nonostante le sue quasi trecento pubblicazioni – fra saggi, articoli o conferenze –, i suoi quasi cinquant’anni di insegnamento e, non ultima, la sua recente scomparsa (2005), che ha dato occasione, in Francia, alla pubblicazione di cui abbiamo deciso di occuparci. Ad eccezione dell’importante risultato ottenuto da Kuhn nel 1957 nel campo della psicofarmacologia (la scoperta del primo antidepressivo triciclico, l’Imipramina), al quale il suo nome rimane inequivocabilmente associato nella storia della psichiatria, questo psichiatra svizzero, allievo nella Berna degli anni trenta ad un tempo di Jakob Wyrsch ed Ernst Grünthal e poi, dal 1939, direttore della clinica psichiatrica di Münsterlingen – poco distante dalla più celebre clinica binswangeriana di Kreuzlingen – sembra non aver trovato in Italia quel riscontro al quale in Francia, a due anni dalla sua scomparsa, si è deciso di dar voce attraverso la raccolta di questi scritti francesi che si estendono nel trentennio fra il 1971 e il 2001 (solo l’Esquisse d’une autobiographie, composto da Kuhn a pochi mesi dalla morte, risulta inedito: pp. 41-54).

E tuttavia non è un caso se la speculazione di questo psichiatra che si definisce "fenomenologo" pur senza presentare le pretese teoretiche del suo referente d’elezione – Ludwig Binswanger – ha trovato proprio in Francia, sin dagli anni cinquanta, un luogo d’espressione privilegiato, nella misura in cui tale speculazione abbraccia quella spinta antropologico-umanistica di stampo minkowskiano che proprio in ambito francese ha guidato alle origini il recupero della fenomenologia in ambito psichiatrico. Ma non solo. I frequenti rimandi al nucleo "vitale" della relazione fra malato e mondo che Kuhn ascrive all’analisi esistenziale, così come la considerazione della stessa nozione binswangeriana di esistenza a partire dalla "natura biologica" di quest’ultima, costituiscono infatti il tratto dominante, prima ancora che della riflessione psichiatrico-clinica di Kuhn, della stessa ricezione francese di Binswanger, ricezione che si sviluppa, a partire dalle opere di Merleau-Ponty degli anni quaranta, nel quadro di una comprensione che si definisce "fenomenologica" nella misura in cui affronta il problema della "presenza" interrogando anzitutto le forme dell’apparire di quest’ultima "nel mondo", delle forme che sono dette a priori solo in quanto rivelative del senso generale e immanente di un comportamento essenzialmente "autonormativo" pensato sul modello dell’a priori dell’organismo o della specie. [cfr. M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento (1942), tr. it. di G. Neri, Milano, Bompiani, 1963 (19702); Il metafisico nell’uomo (1947), tr. it. di P. Caruso, in Senso e non-senso, Milano, Il Saggiatore, 1962; 2004, pp. 107-121]. Si tratta, insomma, di un’elaborazione della concettualità binswangeriana che non si limita a privilegiare la strada heideggeriana – come invece sembra essere avvenuto per lo più fino ad oggi in Italia – ma che interroga i motivi stessi e quindi il significato peculiare che la ripresa dell’analitica di Heidegger assume in ambito psichiatrico per giungere a riconoscere in quest’ultima anzitutto uno strumento per "penetrare" – come direbbe Minkowski – quelle strutturazioni, quelle configurazioni pratico-concrete che sono i "vissuti" psicopatologici.

Ed è questa, precisamente, la strada che anche Kuhn ha imboccato in questi suoi scritti sull’"analisi esistenziale", fra i quali spicca – insieme a quello di Binswanger – il nome di Henri Maldiney, che appare emblematicamente in apertura del volume, nella Préface che nel 1971 egli scrisse a quattro mani proprio con Kuhn per la prima "raccolta" francese degli scritti binswangeriani (Introduction à l’analyse existentielle, Paris, Les Éditions de Minuit; nel presente volume alle pp. 57-82). Emblematicamente, dicevamo, giacché questo autore che perviene – a detta dello stesso Kuhn – a "superare Heidegger" proprio attraverso una concezione del Dasein che non intende rinunciare al carattere anche "biologico, fisico, psicologico…" di quest’ultimo [cfr. L’importance de la philosophie d’Henri Maldiney pour la psychiatrie contemporaine (2001), pp. 297-307], proprio con Kuhn ci avverte esplicitamente dell’opportunità di non concepire i concetti fondamentali della Daseinsanalyse – vale a dire le strutture a priori dei vissuti – come degli "esistenziali" da comprendere a parte rispetto all’esistente, ma come le "dimensioni" ad un tempo "immanenti e trascendenti" di quest’ultimo. La stessa "analisi esistenziale", allora, non potrà essere compresa limitatamente al suo piano teorico, giacché essa non ha ragion d’essere se non "in atto" (cfr. Préface à l’Introduction à l’analyse existentielle de Ludwig Binswanger, cit., p. 81). La ripresa e l’utilizzo che Roland Kuhn fa della speculazione binswangeriana avviene dunque in un’ottica eminentemente clinica che non esiterà – come vedremo – a comprendere nella stessa pratica psichiatrica "fenomenologicamente guidata" anche la ricerca psicofarmacologica, e in ciò sta ai nostri occhi gran parte dell’interesse e soprattutto dell’attualità dell’opera di questo psichiatra. Ma andiamo con ordine, e cerchiamo anzitutto di discernere i tratti generali caratteristici di questi quattordici scritti presenti nel volume in esame.

A spiccare in modo netto in essi è anzitutto il tema della declinazione terapeutica della clinica, problematica che da subito si presenta ad un tempo come la posta in gioco e la ragione di fondo della stessa plausibilità teorica della Daseinsanalyse. Se lo psichiatra-fenomenologo mira a rilevare le "strutture del Dasein" non è certo per elaborare a partire da queste un sistema filosofico-ontologico o gnoseologico, e nemmeno per ricalcare, pur secondo una prospettiva ad essi "concorrente", quei metodi che, "per mezzo d’ipotesi psicodinamiche o altre costruzioni teoriche, attingono i loro segreti dalle profondità oscure e abissali dello psichismo" [Approche de la pensée daseinsanalytique en psychiatrie et psychothérapie (1999), pp. 281-295, p. 288]. La finalità dell’analisi esistenziale – sostiene Kuhn – è molto più semplice di quanto si possa arguire dalla elaboratissima terminologia husserliano-heideggeriana sviluppata da Binswanger, e soprattutto è più modesta: il "vedere fenomenologico" dello psichiatra, infatti, consiste semplicemente nel "lasciarsi guidare dagli esempi" [Existence et psychiatrie (1991), pp. 201-232, p. 230] per cogliere in essi e attraverso di essi quelle "regole" che determino dall’interno le forme di esistenza e le loro manifestazioni. [cfr. Forme mythique et analyse de l’existence (1995), pp. 259-279, p. 260]. È quindi a partire dall’"esperienza dell’uomo concreto", paradossalmente, che si potrà giungere a "trascendere la scienza positiva", ad "abbandonare il punto di vista positivista della psicopatologia" per cogliere invece le "strutture dell’esistenza" che offrono allo psichiatra la "chiave d’accesso" al mondo dell’"essere psichicamente malato" (cfr. Existence et psychiatrie, cit., pp. 230-231). E si tratta di un passaggio che merita tutta la nostra attenzione, dal momento che ci illustra in modo chiaro il significato stesso che la terminologia filosofica assume per questo psichiatra che finirà per concludere sul carattere "già in sé psicoterapeutico dell’esperienza e del pensiero daseinsanalitico" [cfr. L’essai de Ludwig Binswanger "Le rêve et l’existence" et sa signification pour la psychothérapie (2001), pp. 309-320, p. 318]. Tutto sta nel porre l’attenzione sul ruolo eminentemente "strutturale" che i concetti fenomenologici – e principalmente quello di Dasein – assumono per questa psichiatria alla ricerca di un filo conduttore immanente ai comportamenti patologici, un filo conduttore che allo stesso tempo costituisca anche il punto di partenza per trascendere la particolarità empirica contingente di questi ultimi. È quanto avviene mediante la ripresa di quella che Kuhn – attraverso il Binswanger di Maldiney, se così possiamo dire – richiama come la "dimensione estetica della presenza" [cfr. L’errance comme problème psychopathologique ou déménager (1973), pp. 83-110]. Mirando a porre in luce l’"ordine" che sovrintende intrinsecamente alla formazione della "significatività" di determinate tematiche per una presenza, lo psichiatra rinuncia esplicitamente a tutte quelle spiegazioni – positiviste o "psicologiche" – che pretenderebbero intervenire dall’esterno quali teorie esplicative dei comportamenti psicopatologici, per consacrare la propria attenzione e soprattutto il proprio intuito a quel paradossale "significarsi della forma" che è anche l’autogenesi della stessa (cfr. ivi, p. 105: "il suo significato coincide con il suo apparire"), e in questo modo cogliere "sul fatto", nel momento del suo formarsi appunto, quella "direzione di senso" (la binswangeriana Bedeutungsrichtung) che guida e struttura un determinato "essere-nel-mondo" (cfr. L’importance de la philosophie d’Henri Maldiney pour la psychiatrie contemporaine, cit., p. 299). È in questa formazione di mondo perennemente in fieri e d’ascendenza biologica che l’azione psicoterapeutica, secondo Kuhn, può a giusto titolo inserirsi, giacché lo psichiatra, proprio perché assiste assieme al malato a quel "mondo che si forma e si unisce sotto i nostri occhi" [cfr. La psychiatrie devant l’oeuvre de Gaston Bachelard (1984), pp. 119-130, p. 120], potrà aiutare il malato stesso ad intervenire direttamente in quel mondo, ovvero a "interrogare lo stile secondo il quale egli esiste" e che appunto "consiste in un certo modo di esplicarsi con un mondo, con gli altri e con se stesso" (cfr. L’errance comme problème psychopathologique ou déménager, cit., p. 96; ma si veda anche Approche de la pensée daseinsanalytique en psychiatrie et psychothérapie, cit., p. 290: "Le malade apprend peu à peu à remplacer ses propres associations libres […] par des variation eidétiques. Cela signifie un gain du point de vue des connexions significatives de la pensée").

Si tratta di un’impostazione che finisce per avvicinare singolarmente la psicoterapia "fenomenologica" kuhniana ad un approccio di tipo "cognitivo", e certamente sarebbe interessante potersi soffermare maggiormente sulla problematicità di una tale prospettiva, che costituisce ai nostri occhi uno dei punti di maggiore attualità della fenomenologia quale la intende lo psichiatra svizzero. Quel che per il momento ci interessa mettere in luce, tuttavia, è la creatività che caratterizza la relazione terapeutica nell’ottica di Kuhn. Se è vero che il "mondo" del malato con il quale lo psichiatra si trova ad interagire coincide con l’emergenza stessa di questo mondo, ovvero con la sua strutturazione, allora non soltanto la terapia dovrà rinunciare a qualsiasi teoria presupposta attraverso la cui lente "interpretare" e "spiegare" l’esistenza del malato, ma essa stessa interverrà in questa esistenza quale ulteriore agente strutturante, e si qualificherà pertanto, a sua volta, come un "nuovo evento di comunicazione, come un nuovo atto creativo" (L’essai de Ludwig Binswanger "Le rêve et l’existence" et sa signification pour la psychothérapie, cit., p. 318). Si spiega in quest’ottica, dunque, l’insistenza di Kuhn sull’orientazione al presente e all’avvenire della psicoterapia daseinsanalitica rispetto alla psicoanalisi e al focalizzarsi di quest’ultima su un passato che interverrebbe deterministicamente sui contenuti dell’"essere presente". Come lo psichiatra svizzero spiegava sin dalla metà degli anni quaranta interrogandosi, in quell’occasione, sul valore del "test" di Rorschach per la psicoterapia, è solo nella misura in cui "gli eventi passati di un’esistenza ridivengono attuali" a livello strutturale, e non contenutistico, che essi devono richiamare l’attenzione dello psichiatra (Rorschachschen Versuch, Basel, Karger, 1944 (1954); tr. fr. di J. Verdeaux, Phénoménologie du masque à travers le test de Rorschach, Paris, Desclée, de Brouwer, 1957 (nuova ed. 1992), p. 87), poiché è a partire da essi e attraverso di essi che sarà possibile penetrare in quella "struttura attuale" che contraddistingue uno "stile", un "modo di esistenza" (cfr. ivi, p. 134). L’esistenza del malato è anzitutto la sua presenza, una presenza rispetto alla quale l’azione terapeutica non si impone dall’esterno con le proprie regole e il proprio sistema interpretativo, ma ne è a sua volta parte integrante: lo psicoterapeuta è cioè "presente con il malato" in una "situazione reale e attuale, nell’incontro unico di due persone esistenti" [cfr. L’œuvre de Ludwig Binswanger, son origine et sa signification pour l’avenir (1986), pp. 131-148, p. 143]. È questo, in ultima analisi, il significato che il riferimento alla fenomenologia assume per lo psichiatra Kuhn, allorché egli dichiara che essa "deve sostituirsi alla teoria" (cfr. Approche de la pensée daseinsanalytique en psychiatrie et psychothérapie, cit., p. 290), giacché ciò a cui essa guida, paradossalmente, è a "lasciarsi guidare" dalle stesse forme di esistenza "senza altre coordinate al di fuori della loro stessa concordanza intrinseca" (L’errance comme problème psychopathologique ou déménager, cit., p. 105).

Va pertanto compreso in questa prospettiva il rimando che sin dagli anni quaranta Kuhn opera nella direzione del "metodo fenomenologico" in quanto "metodo diagnostico": se da una parte, infatti, l’approccio metodologico della fenomenologia conduce lo psichiatra ad abbandonare qualsiasi punto di vista – psicopatologico, positivista, psicodinamico… – che non sia quello delle "cose stesse", ovvero dell’esistenza e dei modi del suo presentarsi, dall’altra, è questo stesso metodo a guidare al rilevamento di quelle strutture della presenza – nella forma di determinate modalità di spazializzazione e temporalizzazione – che sono la chiave che consentirà al clinico di riconoscere nella presenza stessa una determinata forma patologica. In altre parole, il "punto di vista" fenomenologico finirà allora per coincidere con quello diagnostico, giacché – come Kuhn non smette di sottolineare nel corso di tutti i suoi scritti – "les formes sont à elles-mêmes leur voie": sono le stesse forme di esistenza a possedere in modo immanente la propria "ragione", ed è quindi solo basandosi su di esse che sarà possibile allo psichiatra formulare quella diagnosi che altro non è che l’utilizzo di questa stessa ragione come "principio diagnostico", come quell’"accesso" al mondo del malato dal quale dovrà prendere le mosse la terapia (L’errance comme problème psychopathologique ou déménager, cit., p. 105).

È quanto Kuhn mostra all’opera nella sua lunga analisi del Rorschach, allorché indica nell’"interpretazione delle forme" offerta dal test non più – freudianamente – il rimando ad un contenuto interpretativo nascosto, ma quello strumento, quel "mezzo d’accesso fenomenologico alle strutture originarie dell’essere-uomo" (Forme mythique et analyse de l’existence, cit., p. 277) che consente allo psichiatra di diagnosticare le linee portanti dell’"esistenza centrale", ovvero della determinata configurazione di mondo che si esprime attraverso un’interpretazione, o meglio, uno stile interpretativo (cfr. Über Maskendeutungen… cit). Si vede bene allora, in questo modo, come la "psicologia del test d’interpretazione delle forme" elaborata da Kuhn ritagli fondamentalmente il significato che l’ermeneutica daseinsanalitica attribuiva non soltanto alle manifestazioni psicopatologiche, ma soprattutto al riferimento alla concettualità fenomenologica quale strumento o "filo conduttore" per penetrare in queste forme stesse scovandone la "norma" intrinseca. Il ruolo eminentemente strumentale che Kuhn assegna al Rorschach nel quadro della clinica coincide pertanto con quella valenza prettamente metodologico-funzionale che Binswanger assegnava alla "comprensione trascendentale" nell’ambito della clinica psichiatrica, allorché indicava attraverso di essa un "indirizzo per l’esperienza", ovvero quella "struttura dell’esserci che rende possibili tutti gli altri fenomeni caratteristici che sotto il profilo clinico diagnostichiamo come sintomi schizofrenici e come psicosi schizofreniche" [cfr. Studien zum Schizophrenieproblem: Der Fall Suzanne Urban, in "Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie", 69 (1952), pp. 36-77; 70 (1952), pp. 1-32; 71 (1952), pp. 57-96; poi in Id., Schizophrenie, op. cit., studio n. 5, pp. 359-470; e in Id., Ausgewählte Werke, vol. IV: Der Mensch in der Psychiatrie, ed. a cura di A. Holzhey-Kunz, Heidelberg, Asanger, 1994, pp. 210-332; tr. it. di G. Giacometti, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, a cura di E. Borgna e M. Galzigna, Venezia, Marsilio, 1994, pp. 141 e 187]. Ed è precisamente in questo senso che va inteso l’esplicito rimando di Kuhn a Binswanger – nell’Introduzione della sua opera del 1944 – quale modello "metodologico" delle sue analisi (cfr. p. 30 dell’ed. fr.), nella stessa ottica in cui Bachelard – nella sua Préface all’edizione francese della Phénoménologie du masque – parlerà delle immagini del Rorschach appunto come di uno "schema per l’analisi", (cit., p. 17).

Si tratta di un’impostazione che ci interessa in modo particolare poiché essa contribuisce in parte a spiegare, come abbiamo anticipato all’inizio della nostra disamina, il successo che lo psichiatra svizzero ha riscosso in Francia sin dalla metà del secolo scorso, in un momento in cui la problematica del Rorschach trovava ampia rispondenza nel programma minkowskiano di una psicopatologia fenomenologico-strutturale che intendeva rinunciare precisamente all’approccio psicodinamico-contenutistico del mondo mentale per analizzare quest’ultimo in termini appunto di forma, di struttura globale [si veda a questo proposito la traduzione francese della Psicodiagnostica di Rorschach, Psychodiagnostic: méthode et résultats d'une expérience diagnostique de perception, tr. di A. Ombredane, Paris, PUF, 1947, e del relativo commentario di di E. Bohm, Traité du Psychodiagnostic de Rorschach à l’usage des psychologues, médecins et pédagogues (1951), Paris, PUF, 1955, nonché il saggio di F. Minkowska, che precede di un anno la traduzione del saggio di Kuhn: Le Rorschach: à la recherche du monde des formes, Introduction de E. Minkowski, Paris, Desclée, de Brouwer, Bruges, Impr. les Presses Saint-Augustin, 1956; ripr. facsim., Paris, Desclée De Brouwer, 1978; nuova ed. Paris-Budapest-Torino, l’Harmattan, 2003. Ma si vedano anche i diversi articoli che all’epoca vennero dedicati a questo tema negli "Annales Médico-Psychologiques", e che videro impegnati alcuni fra gli psichiatri francesi più autorevoli dell’epoca: ad es. E. Minkowski, Le test de Rorschach, 108, 1 (1950), pp. 129-161; G. Daumezon, G. Lantéri-Laura, Mlle Lebeau et Brabant, Le test de Rorschach et la conscience imageante, 119, 1, 5 (1961), pp. 833-864]. E sarà forse bene ricordare, a questo proposito, il ruolo che proprio Kuhn ebbe relativamente all’introduzione in Francia dell’opera dello stesso Binswanger: fu proprio lui, infatti, a proporre a Jacqueline Verdeaux di tradurre il binswangeriano Sogno ed esistenza, che uscirà nel 1954 con un’ampia e significativa Introduzione del giovane Michel Foucault (Le rêve et l’existence, Paris, Desclée de Brouwer) e al quale seguirà, a pochi anni di distanza, sempre ad opera di Foucault et Verdeaux, la traduzione del caso clinico di Suzanne Urban [Le cas Suzanne Urban. Étude sur la schizophrénie, Bruges, Desclée de Brouwer, 1957 (Paris, Gérard Monfort, 1988; 2002). È lo stesso Kuhn a ripercorrere l’episodio: cfr. L’essai de Ludwig Binswanger "Le rêve et l’existence" et sa signification pour la psychothérapie, cit., p. 311].

Si tratta di aneddoti che probabilmente ci verranno rimproverati come contingenti. Quel che è certo, tuttavia, è che dalla contingenza di questi incontri derivano delle importanti conseguenze sul piano stesso della concettualità fenomenologica quale viene sviluppandosi nell’opera di Kuhn e, in stretta connessione con quest’ultima, nell’ambito della "tradizione" della psichiatria esistenziale francese. Si tratta anzitutto, per la ricerca psichiatrica, della convinzione di poter utilizzare l’impianto concettuale della fenomenologia non tanto quale presupposto dottrinale, quanto piuttosto quale guida di un’attitudine clinico-terapeutica che della fenomenologia condivide anzitutto l’ispirazione metodologica, a prescindere, quindi, dal puntuale riferimento ad una concettualità all’occorrenza husserliana, heideggeriana, binswangeriana… Ora, ricollocata in una prospettiva eminentemente clinica, la concettualità filosofica perde il valore teoretico che essa possiede in ambito filosofico per trasformarsi ad uso e consumo di una ricerca che si serve di essa come di uno strumento, e questo è precisamente l’aspetto fondamentale che caratterizza, rispetto a Binswanger, la speculazione fenomenologico-psichiatrica delineata da Kuhn. E come Minkowski rileggeva l’"essere-nel-mondo" heideggeriano quale nucleo strutturale del comportamento umano quale "divenire nel mondo" (cfr. Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie, in "L’Évolution Psychiatrique", fasc. 1 (1948), pp. 137-185; poi in Id., Écrits cliniques, textes rassemblés par Bernard Granger, Ramonville-Saint-Agne, Erès, 2002, pp. 95-138), come egli interpretava il carattere essenziale dell’indagine husserliana all’interno della ricerca dell’organizzazione o "essenza della personalità vivente nei suoi rapporti con l’ambiente" (cfr. La schizophrénie, Paris, Payot, 1927; nuova ed. Desclée de Brouwer, 1953; Payot, 19973; tr. it di G. Ferri Terzian e A.M. Farcito, La schizofrenia, Torino, Einaudi, 1998, p. 100), così, analogamente, Kuhn si trova a fagocitare la concettualità fenomenologica a partire dall’ottica eminentemente pratico-terapeutica che caratterizza le sue analisi. Le "variazioni eidetiche" husserliane saranno allora concepite quale base strutturale del comportamento del malato, come quell’organizzazione spazio-temporale della presenza che è anche la sua condizione di possibilità (cfr. Approche de la pensée daseinsanalytique en psychiatrie et psychothérapie, cit., pp. 289-290), e sulla quale il terapeuta dovrà intervenire per dare un nuovo corso all’essere nel mondo del paziente, per aprire a quest’ultimo un nuovo "campo di possibilità" (cfr. L’oeuvre de Ludwig Binswanger, son origine et sa signification pour l’avenir, cit., p. 143). Allo stesso modo, la "genesi passiva" sarà individuata come il nucleo basale di quell’"assenza di ogni partecipazione al sopravvenire della malattia" che costituisce il quadro clinico della schizofrenia (cfr. Approche de la pensée daseinsanalytique…, cit., pp. 283-284), e la "disposizione affettiva" heideggeriana sarà concepita come la "condizione dell’azione" che costituisce la spazialità e la temporalità dei vissuti del malato [cfr. Psychopharmacologie et analyse existentielle (1990), pp. 167-199, vedi in particolare pp. 181 ss.].

E si tratta di un’impostazione che, nell’ottica di Kuhn, ha importanti conseguenze proprio nell’ambito della psicoterapia, nella misura in cui tale "condizione dell’azione" che egli pone quale premessa strutturale del comportamento psicopatologico dovrà essere posta alla base della ricerca psicofarmacologica. La stessa psicofarmacologia, infatti, a differenza di quelle prospettive che la vorrebbero posta su di un piano per essenza irriducibile ad un approccio puramente "psicologico" della terapia, nell’ottica della Daseinsanlyse kuhniana diviene parte integrante di un’indagine sull’"essere psichicamente malato" che viene focalizzata precisamente su quelle "condizioni dell’azione" del malato che altro non sono che le sue "possibilità esistenziali". Se gli psicofarmaci si trovano ad agire sulle "funzioni" della motricità e dell’umore – scrive Kuhn – non è perché essi intervengono puntualmente sul deficit neurologico che starebbe alla base di questi ultimi secondo una determinazione causale, ma perché essi agiscono sulla qualità di quella spazialità e quella temporalità che costituiscono appunto la "condizione di possibilità dell’azione" (cfr. ivi, p. 181). Non si spiegherebbe, altrimenti, come "delle idee morbose, ovvero dei fenomeni puramente intellettuali, possano essere normalizzati per mezzo di sostanze materiali" (ivi, p. 187). In altri termini: non è mai "il movimento in sé" ad essere disturbato, ma sempre quella configurazione spazio-temporale dell’esperienza che solo un approccio "esistenziale" è in grado di portare alla luce. Di conseguenza, non sarà in vista di specifi effetti a livello del sistema nervoso e della motricità considerati "in sé" che lo psichiatra dovrà far rientrare questi farmaci nella dinamica della terapia, ma sempre e soltanto nella prospettiva più ampia di quell’intreccio di "direzioni significative" che costituisce l’unicità della "presenza" del malato nel "mondo", e all’interno della quale la stessa relazione terapeutica va compresa.

Ma se così è, se cioè la ricerca psicofarmacologica non può essere pensata separatamente dalla terapia all’interno della quale essa trova la propria ragion d’essere, allora quella stessa creatività che abbiamo individuato quale cifra fondamentale della relazione psicoterapeutica kuhniana finirà per caratterizzare più in generale lo stesso discorso psicopatologico. In altre parole, è a partire dalla relazione terapeutica, e solo a partire da questa, che lo psichiatra-farmacologo potrà non soltanto scegliere e impiegare una determinata sostanza già esistente, ma "inventare quella stessa entità morbosa per la quale una certa sostanza può essere individuata – o ricercata – come farmaco specifico" [cfr. Clinique et expérimentation en psychopharmachologie, (p. 186), pp. 149-165, p. 164].

Solo in questo, modo, sostiene Kuhn, la psicofarmacologia potrà rientrare a pieno titolo in quella clinica che in ultima analisi è la ragion d’essere della psichiatria, quella stessa clinica a partire dalla quale la psichiatria – nella forma della Daseinsanalyse – ha avvertito il bisogno di "prendere coscienza dei propri fondamenti" [cfr. L’importance actuelle de l’oeuvre de Ludwig Binswanger (1995), pp. 239-258, p. 239].

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