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Giuseppe Lago, La Psicoterapia Psicodinamica Integrata: le basi e il metodo, Alpes Italia, Roma 2006, pp 223

Mentre ci accingiamo a presentare questo volume la preoccupazione di riuscire nell’intento è grande, per due motivi: il primo è dato dalla densità dei riferimenti che il libro contiene, da un lato alla storia e alla clinica psichiatrica e psicoterapeutica, dall’altro ai più attuali sviluppi delle neuroscienze, il secondo dalla veste che l’Autore ha voluto dargli -pensiamo volutamente, pensiamo in modo provocatorio- molto asciutta, quasi schematica, che potrebbe risultare fuorviante per chi non lo conosce. A partire dall’aridità del titolo e dall’uso di acronimi per arrivare agli schemi in forma grafica, peraltro utilissimi, della sezione clinica, tutto sembra concorrere a suggerirne una sbrigativa etichettatura nel novero di un déja vu, ossia del filone ormai non più di moda di una "integrazione" di facciata, che dietro una veste modernista nasconde vecchi riduzionismi e superficialità di contenuti. Non è certo il caso di questo volume, in cui il rapporto tra veste e contenuti segue una proporzione inversa: modesta la prima, profondi i secondi.

Lago è psichiatra da circa trent’anni, ha lavorato e lavora in ambito pubblico e privato, in maniera raffinata -si vede, si capisce leggendolo- e guidata da una solida formazione; da vari anni inoltre dirige una scuola privata riconosciuta di psicoterapia.

Il suo libro oltre a rappresentare la difficile sintesi di una gran mole di esperienze pratiche e intellettuali, corrisponde a un’esigenza che segna a nostro avviso il raggiungimento di una sorta di aurea maturità nella nostra professione, quando ci si sente sufficientemente esperti per comunicare ad altri come si lavora, cosa si fa con i pazienti, e si è ancora abbastanza giovani e disposti a cambiare da trarre vantaggi da un confronto. L’altro aspetto, altrettanto onesto e chiaro, purtroppo non del tutto consueto, riguarda la scuola di psicoterapia, di cui il libro rappresenta una specie di manifesto, illustrando e comunicando pubblicamente gli intendimenti e le direzioni impresse alla didattica e in genere alle attività formative che vi si svolgono. Siamo dunque portate a vedere nel modo in cui il volume si presenta più una scelta di understatement che la pretenziosità di voler aggiungere l’ennesima sigla al panorama già affollato delle psicoterapie esistenti.

Detto questo, si può andare avanti nel parlare del libro che a nostro parere è in grado coinvolgere soprattutto coloro che sono impegnati quotidianamente in un’attività clinica — comprendente un ampio spettro di situazioni psicopatologiche — e che non potranno fare a meno di apprezzare e di condividere se non tutte almeno gran parte delle osservazioni in esso contenute in quanto rispondenti a situazioni e problematiche che si incontrano nella pratica.

Inoltre, l’operazione di rielaborare per così dire in presa diretta alcuni nodi del fare in psicoterapia, collegandoli con la tradizione storica e con le nuove acquisizioni delle neuroscienze, corrisponde a una sorta di "elaborazione del controtransfert" in cui molti potranno riconoscersi: il libro propone infatti una forma di esercizio critico che indipendentemente dalle teorie di riferimento e dalle appartenenze di scuola può affascinare in sé in quanto corrispondente a un’esigenza realmente sentita. Lago insiste molto sul metodo, fattore di unificazione forse più potente di quello teorico, mentre per quanto riguarda gli aspetti teorici indica correttamente e in maniera argomentata le fonti da cui trae spunto. Il tema centrale dell’integrazione viene dunque proposto secondo un percorso che a partire dalla storia della psicoterapia, ai suoi esordi intrecciata a quella dell’isteria e delle pratiche ipnotiche e suggestive, lo porta a riconsiderare gli aspetti più salienti della tradizione psicodinamica.

Ed eccoci spiegate le ragioni, non banali, dell’acronimo PPI, ossia P(sicoterapia) P(sicodinamica) I(ntegrata).

PSICOTERAPIA perché l’autore non si riconosce nella tradizione psicoanalitica propriamente detta, ossia freudiana, kleiniana, junghiana, lacaniana. Egli si rifà piuttosto alla tradizione antecedente, che dimostra di conoscere bene, ossia agli ipnotisti (Janet, Bernheim), dei quali accetta l’enfasi posta sul rapporto, che però quella tradizione ci consegna a suo dire non scevra da contaminazioni carismatiche, che rischiano di assimilare il terapeuta più a un guaritore che a un onesto medico della mente.

A Freud riconosce l’intuizione dell’importanza dell’interpretazione dei sogni, ma non propone di interpretare i sogni alla stessa maniera di Freud: giudica infatti la sua teoria molto lontana dal poter costituire la base per una moderna teoria della mente. In particolare non ne condivide le formulazioni riguardanti il desiderio e la pulsione e non ne accetta lo schema di sviluppo infantile. Particolarmente incisiva è la critica che muove all’idea di una sessualità già presente nell’infanzia a suo dire fonte di impostazioni sbagliate nella psicoterapia di soggetti adulti. Il pansessualismo che connota molte impostazioni psicoanalitiche, e questo ci trova molto d’accordo, risulta essere una deformazione che può compromettere sia una corretta ricostruzione delle biografie dei pazienti sia il loro trattamento troppo spesso incentrato sui rapporti con l’altro sesso prima ancora di esaminare ed eventualmente curare carenze più primitive di rapporto con la realtà e di affettività, e più sottilmente indirizza verso una visione adultomorfa della primissima infanzia. Come c’è da aspettarsi da queste premesse, Lago trova nella teoria delle relazioni oggettuali riferimenti più validi; è particolarmente interessato agli sviluppi della psicoanalisi negli anni ’60 e riconosce soprattutto a Bowlby teorizzazioni della relazione bambino-care giver in grado di fondare una moderna teoria della cura.

Oltre ai motivi teorici per non riconoscersi nella tradizione psicoanalitica, ci sarebbero ragioni scientifiche, poiché questa si sarebbe tenuta lontano dal confronto interdisciplinare con la biologia, e pratiche, poiché nella psicoanalisi l’idea di creare un uomo nuovo sarebbe prevalsa sull’intenzione di curare la patologia mentale mancando così un confronto con la stessa psichiatria.

PSICODINAMICA perché per Lago lo psicoterapeuta deve essere interessato alla dinamica cosciente e inconscia, alle sue motivazioni, alla sua genesi, ai sogni, ma anche all’espressione corporea come manifestazioni di una realtà di rapporto.

INTEGRATA perché dovrebbe mirare al superamento di schemi dualistici o settoriali e a mettere in relazione in modo virtuoso e sinergico i molteplici aspetti che entrano in gioco nel rapporto tra paziente e curante. Il corpo e la mente, lo stare insieme e l’interpretazione, il linguaggio del corpo e quello verbale, il pensiero cosciente e quello inconscio.

L’intenzione, dichiarata più volte, è quella di mettere a punto un metodo che funzioni e che sia trasmissibile, ma tale proposizione non vuole essere ateorica: evita piuttosto di proporre una nuova teoria e sceglie gli spunti ritenuti validi in quelle già esitenti. L’autore fa intendere che di speculazioni teoriche nella storia della psicoterapia ce ne siano state abbastanza e che oggi la sfida è quella di confrontarle con le pratiche terapeutiche e con i risultati della ricerca piuttosto che di proporre un sistema teorico a cui aderire in toto. La seconda preoccupazione di Lago, ossia la trasmissibilità, è che il metodo proposto sia tale da mettere il più possibile in secondo piano il fattore personale o meglio il "fattore carismatico", ossia quelle caratteristiche del terapeuta che possono fare assimilare il suo intervento a una pratica suggestiva. Come si può vedere, le questioni poste non sono particolarmente nuove e d’altra parte si può essere o non essere d’accordo con la radicalità di certe asserzioni dell’autore; fatto sta che si tratta di questioni attualmente ancora non risolte e di cruciale importanza.

La psicoterapia proposta da Lago si fonda comunque su una teoria dello sviluppo, ossia su un’idea di una fisiologia della mente formatasi attraverso la lettura di vari autori e su una fisiopatologia dello sviluppo stesso che dovrebbe informare di conseguenza l’intervento terapeutico. I cardini di questa fisiologia e fisiopatologia di base, trovano ispirazione e conferma sul versante delle neuroscienze nelle ricerche di Damasio, Kandel, Kempermann, Gallese; per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio i riferimenti sono più classici e meno consueti e propongono una rilettura attenta di autori meno frequentati dai giovani aspiranti psicoterapeuti di oggi, come Merleau-Ponty e Vygotskij; in campo psicoanalitico l’autore più seguito è Bowlby, ma ci sono riferimenti a Bion, Winnicott, Matte Blanco, e agli studi più recenti di Eagle e Fonagy, nonché in campo nazionale a Mancia. Questi nomi segnano le coordinate entro le quali Lago si muove per disegnare la sua proposta, che nella premessa di fisiopatologia dello sviluppo comprende tre tappe fondamentali, e nella parte speciale clinica raggruppa tutto il ventaglio psicopatologico attorno a tre situazioni di massima.

Le tre tappe fondamentali dello sviluppo circoscrivono territori che non si estinguono mai del tutto ma che prevalgono nella fisiologia mentale nelle diverse fasi della vita.

La prima è identificata con il primo anno di vita e sarebbe caratterizzata dall’incapacità di produrre e gestire processi simbolici: le prime fasi della vita sarebbero dunque caratterizzate da un livello denominato come "protomentale", in cui il ruolo fondamentale verrebbe giocato dalla relazione tra neonato e care-giver. Oltre ai già citati riferimenti alla teoria delle relazioni oggettuali, all’infant research, alla ricerca neurobiologica, molta importanza viene data alle più attuali acquisizioni sulla memoria, che in questa fase sarebbe quella cosiddetta implicita che codifica le esperienze in forma non simbolica. Sarebbe questo peraltro il terreno delle emozioni, che emerge anche in seguito, in età adulta, "rievocando un senso di sé nucleare come incontro del proto-sé con l’oggetto esterno" (Damasio).

Dal diciottesimo mese in poi si inizierebbe un vero e proprio processo di "mentalizzazione" ovvero comparirebbe la funzione riflessiva (Fonagy et al.2001, 2002) con la configurazione di tracce mnesiche costanti richiamabili alla coscienza attraverso il pensiero inconscio (sogni) e verbale. Con la comparsa di questa funzione il protomentale verrebbe ridimensionato e rimarrebbe nel nuovo equilibrio raggiunto grazie a un continuo processo di elaborazione. Le prime forme simboliche sarebbero inconsce e sarebbero rappresentazioni del rapporto con il care-giver. Comincerebbe così a configurarsi la memoria esplicita che non si sviluppa prima dei due anni di età. Comincerebbero a prodursi anche le prime fantasie e dunque un vero e proprio pensiero inconscio, che consterebbe di una funzione riflessiva (immagini mentali) e di una creativa (fantasie). Nei sogni, che rappresentano la principale espressione di questa forma di pensiero accanto alle immagini mentali e alle fantasie, permarrebbe come componente il protomentale, capace di imprimere alle immagini oniriche peculiari qualità e coloriture. Dall’altra parte si realizzerebbe l’immagine corporea che protomentale e pensiero inconscio concorrono a formare.

Si arriverebbe così a un terzo livello di sviluppo, quello del "pensiero verbale", che corrisponderebbe all’acquisizione piena del linguaggio. Qui i riferimenti a Merleu-Ponty sono molto presenti, soprattutto nel tracciare gli stretti legami che intercorrono tra linguaggio e immagine corporea.

Lago con questa visione dello sviluppo intende distanziarsi radicalmente dalla psicoanalisi freudiana, in particolare rifiutando in toto il concetto di pulsione, che a suo dire porterebbe a una visione di conflitto e di non possibilità di integrazione tra i diversi livelli. Dunque la sua proposta si situa su un piano del tutto diverso se non opposto rispetto a quel filone di studi (Solmes, Shevrin) che oggi si sforza e dichiara di fornire, tramite le neuroscienze, conferme oggettive, non sempre convincenti in verità, allo stesso concetto freudiano di pulsione.

Ora non è certo questa la sede per impegnarsi in una critica alle posizioni di Lago che comporta l’addentrarsi in questioni teoriche complesse. Lui dice, e in un certo senso dimostra, che nella sua pratica clinica può fare tranquillamente a meno di certi costrutti. Ma fa di più: argomenta la sua opposizione a un armamentario che considera farraginoso e fuorviante con le ragioni della cura: in poche parole rimprovera alla psicoanalisi di aver perso la strada della clinica per abbracciare quella per così dire filosofica. Anche qui non si tratta di considerazioni nuovissime, ma la pretesa del volume non è quella di dire cose mai dette, bensì di far riflettere a partire dal campo di battaglia del lavoro psichiatrico e psicoterapeutico.

Pur tenendo conto di tutto ciò, pur condividendo molte delle osservazioni che il volume propone, ci viene comunque da sottolineare che non siamo d’accordo con tutto quello che c’è scritto, e che ci sono molti punti che andrebbero ulteriormente approfonditi e discussi. La questione della memoria implicita, ad esempio, merita un accenno: tale memoria che caratterizza le prime fasi della vita sarebbe suscettibile di essere riattivata in fasi successive. Lago, seguendo Damasio, parla a questo proposito di segni, tracce mnesiche non simbolizzate. Ecco, questa è una materia interessante, che mi sembra proposta in modo un po’ sbrigativo e non del tutto chiaro.

Potrebbe essere importante interrogarsi più a fondo su questi segni, queste tracce che non hanno una configurazione precisa, né tantomeno corrispondono a una funzione simbolica, come avviene successivamente, e pure permangono. Una di noi, poi, che con lo stesso Lago firmò, già nel 1992, un articolo sulla depersonalizzazione, in cui veniva valorizzata la "desanimazione" (Krapf 1950), è portata a chiedersi che posto trova oggi nella ricerca di Lago un’ipotesi — non certo basata su evidenze, forse corrispondente a fantasie — che allora lo appassionò: ossia quella di una prima attività di riconoscimento (non in termini simbolizzati, e qui non abbiamo tempo e modo di dire in che termini), da parte del neonato, dell’animato fuori di sé. Così come troviamo difficile affrontare la problematica della distanza nel rapporto senza far ricorso a una idea di pulsione. Insomma, il lavoro sulle situazioni infantili più primitive di alcuni pionieri, si pensi ai Balint, e in generale a tutti gli studiosi vecchi e nuovi che si sono occupati di narcisismo, sembra venire liquidato da Lago un po’ troppo drasticamente. Nell’abbandonare il concetto di pulsione vediamo altresì profilarsi un duplice rischio e una difficoltà: anzitutto il rischio di un riduzionismo della mente fondato sulla centralità della memoria, e quindi il rischio di rimanere in questo modo ancorati, mutatis mutandis, al paradigma della rimozione che ha contraddistinto proprio il secolo di Freud, come una brillante decostruzione di I.Hacking (La riscoperta dell’anima) ci ha raccontato; in secondo luogo la difficoltà a figurarsi e a comprendere i processi creativi della mente.

Ma queste sono problematiche che speriamo siano approfondite in altre sedi.

Ci piace invece, per come il volume lo presenta, il nuovo scenario aperto dalle ricerche neuroscientifiche, in particolare la sottolineatura di come esse, a differenza del positivismo, si muovano nel senso di un superamento del dualismo tra coscienza e inconscio. La ricerca di Damasco, a cui Lago largamente si ispira, così come le formulazioni di Kandel (2000) su memoria implicita e esplicita, le scoperte di Kempermann (1997) sulla plasticità cerebrale e la neurogenesi, così come le formulazioni di Gallese (2003) sui neuroni specchio, sembrano aver aperto la possibilità di creare un clima nuovo non già immediatamente segnato dagli schemi e dagli steccati a cui siamo abituati in ambito psicoterapeutico e fanno sorgere la speranza di poter ripensare un po’ tutto in una visione unificata della mente umana.

Lago sostiene che in psicoanalisi alcuni autori sono stati tanto lungimiranti da potersi inserire in questo scenario con comodità, quasi con naturalezza, come è accaduto alla formulazione del sistema di attaccamento elaborata da Bowlby: autore al quale viene riconosciuto di aver fornito il modello dello sviluppo della mente più vicino al quadro che oggi ce ne danno le neuroscienze. Ad altri viene dato il merito degli sviluppi attualmente più interessanti, e questo è il caso di Eagle (1984) e Fonagy (2001). Altri ancora rimangono punti di riferimento imprescindibili per le intuizioni sulle prime relazioni infantili che a loro volta configurano modelli di intervento, come per Winnicott (fenomeno transizionale, capacità di essere solo, psicoterapia come gioco), ma anche per la Klein (identificazione proiettiva) o per aver configurato modelli complessi del funzionamento mentale come Bion (funzione alfa, visione binoculare) o Matte Blanco (bi-logica).

Arriviamo così alla parte speciale, clinica. Lago, sintetizzando, suddivide le patologie in tre grossi campi — quello per così dire isterico o nevrotico, quello borderline e quello psicotico — determinati dal livello dello sviluppo in cui sarebbe intervenuto qualcosa di traumatico e lesivo nel rapporto con il care-giver, tale da compromettere la formazione di una base sicura, per dirla alla Bowlby, e dunque il proseguimento di un fisiologico processo di sviluppo con conseguente blocco o carenza nel raggiungimento dei livelli successivi.

Per ognuno di questi ambiti patologici l’autore traccia uno schema di funzionamento e di interrelazione tra i tre livelli: protomentale, pensiero inconscio , pensiero verbale, dando indicazioni specifiche di intervento che tengono conto di una situazione di possibilità di contatto con il paziente a seconda delle sue caratteristiche. Sono idee, le sue, se si vuole semplici ma non per questo scontate. Chi legge viene opportunamente messo in guardia, ad esempio, contro un uso improprio dell’interpretazione con pazienti che mostrano una incapacità di elaborazione verbale. Inutile pensare di affrontare con il solo strumento della parola situazioni in cui l’ipertrofia del protomentale porta il paziente a esprimersi quasi esclusivamente con il corpo: situazioni che richiedono piuttosto un approccio empatico, ovvero di linguaggio non verbale. Analogamente, di fronte al problema di una rottura comunicativa tra i vari livelli di emozioni, rappresentazioni oniriche, formulazione di pensieri, è inutile insistere nel correre dietro al racconto ripetitivo di decine e decine di sogni che sembrano quasi una attività automatica in certi pazienti che invece andrebbero portati a una dimensione affettiva di rapporto con la realtà attraverso altri tipi di intervento come la partecipazione a gruppi capaci di costruire una funzione riflessiva e di formazione di immagini legate ad affetti. Visto poi che le patologie in esame possono essere anche molto gravi, diventa importantissimo l’inserimento intelligente dell’uso di farmaci in un panorama completo che disegni la situazione di ogni determinato paziente.

In questa parte speciale si possono trovare una serie di conferme alle proprie esperienze cliniche, si può capire perché è inutile imbarcarsi in una lunga terapia individuale con un borderline, o come fare a sbloccare un paziente che non sogna mai, o come è illusorio e forse anche deleterio intraprendere la strada suggestiva che apparentemente può produrre dei risultati ma in realtà conduce alla strutturazione gravissima di un falso sé ovvero a percorsi regressivi e iatrogeni.

Abbiamo trovato assolutamente interessanti anche le descrizioni di ambienti di lavoro, e le precisazioni sulla conduzione delle terapie individuali e dei gruppi ci sembrano dotate del pregio enorme della chiarezza e della trasparenza. Nel nostro mestiere troppo spesso non viene detto cosa si fa nelle sedute, e non si capisce perché.

Lago dimostra che si può fare, che non importa fare immediatamente il salto alla registrazione o alla videoregistrazione delle stesse — anche se ormai questa è considerata una pratica indispensabile in sede di ricerca — ma che basta avere le idee chiare su cosa si fa quotidianamente per permettere a chiunque di accedere al nostro modo di lavorare e per poterlo dunque confrontare. Non fosse che questo il merito del libro, quand’anche non se ne condividessero idee e formulazioni, resterebbe dopo la sua lettura l’ammirazione per il coraggio di proporre un metodo clinico confrontabile e insegnabile.

Albertina Seta, Sara Afshar

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