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PROSTITUZIONE E NOSTALGIA

Ruby Mariela Mejìa – Giuseppe Raniolo

PRIMO MOVIMENTO

Nostalgia

Desiderium patriae, mal du pays, homesickness, añoranza, saudade,  toska po rodine (male del paese),  heimweh,  caleniure sono modi di riferirsi alla stessa categoria di sentimenti compresi nel termine nostalgia.
Le vicende occorse a questo sentimento sono certamente singolari: conosciuto da sempre e fonte di ispirazione per gli artisti, con l’Odissea è assurto a mito fondante della cultura occidentale. E’ la nostalgia che costringe Ulisse al ritorno ma non ne impedisce la spinta alla conoscenza, alla ricerca. L’eroe è attratto da due forze: una ha a che fare con il  familiare e l’altra con l’estraneo; si muove quindi nel dominio del perturbante. Restare o partire? La legge del desiderio rende inevitabile confrontarsi con l’altrove (perché è sempre altrove l’oggetto del desiderio).
E’ solo il 22 giugno del 1688 che, da sentimento, si trasforma in malattia per opera di Johannes Hofer che presentava all’Università di Basilea una Dissertatio medica de nostalgia. Hofer coniò il termine nostalgiaunendo nòstos (ritorno) e àlgos (dolore) per descrivere una malattia ritenuta anche mortale che colpiva "i soldati svizzeri allontanati dai loro villaggi montani e confinati in lontane guarnigioni, in paesi e lingue e suoni stranieri" (Prete, 1992, p. 10). "La lontananza, l’inappartenenza, la privazione, la solitudine, sono piegate a un sapere che si difende dinanzi ai confini oscuri, e perturbanti, dell’angoscia da separazione, da estraneità. E, dopo ogni indagine, il fenomeno è recintato nel cerchio del visibile, nel dominio del certo: il rimedio considerato più sicuro è il ritorno" ( Prete, 1992, p. 10-11).
Occorreranno molti anni, diversi secoli, perché la nostalgia ritornasse ad essere un sentimento.
In base all’esperienza clinica che presentiamo in questo lavoro, noi riteniamo che il concetto di nostalgia non possa essere disgiunto da quello di identità costituendone una funzione. Pensiamo altresì che la capacità di provare nostalgia costituisca un indice di sanità mentale negli individui e che l’incapacità di provare nostalgia sia segno di gravi privazioni precoci o, come nei casi di cui parleremo, di traumi provocati consapevolmente per alterare o distruggere il senso dell’identità (effrazione dell’identità). Questa conclusione ci è apparsa in tutta la sua drammaticità quando ci siamo resi conto che, sia durante i trattamenti individuali che quelli di gruppo, le nostre pazienti avevano una reale incapacità a sentire nostalgia e che la ricostruzione della capacità di provarla consistette nel potere, da parte loro, recuperare parti della personalità e funzioni della stessa.
Noi riteniamo che condizione essenziale del senso di identità di un individuo sia il sentirsi parte (senso di appartenenza) di una cultura-società-famiglia dalla quale si senta "rappresentato" e che interiormente lui possa "rappresentarsi".
Ogni individuo può essere "capace di stare solo" e, a causa di ciò, paradossalmente, capace di stabilire rapporti sociali e di godere dell’arte come di accedere all’esperienza estatica, solo a condizione di essere costantemente in relazione con una rete interiore complessa e stratificata di significati che gli restituiscano il senso della propria identità.
Fatti e circostanze, emozioni e sentimenti, simboli e allegorie… lontani nel tempo o nello spazio devono convivere nello "spazio interno" anche generando inevitabili conflitti e manifestazioni sintomatiche. Winnicott, al quale dobbiamo il concetto di "capacità di essere solo", scrive che essa è "uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo" (Winnicott, trad. it. 1970, pag. 29) e che si stabilisce attraverso "l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre" (Winnicott, trad. it. 1970, p. 31) e aggiunge che "la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona" (Winnicott, trad. it. 1970, p. 31). "Con il passar del tempo, l’individuo introietta la madre che dà sostegno all’Io ed in questo modo diventa capace di essere solo senza avere bisogno di fare frequente riferimento alla madre o al simbolo materno" (Winnicott, trad. it. 1970,  p. 34); "la capacità di essere solo, [quindi] dipende dall’esistenza di un oggetto buono nella realtà psichica dell’individuo" (Winnicott, trad. it. 1970, p. 33). "Il rapporto dell’individuo con i propri oggetti interni, unito alla fiducia verso le relazioni interne offre di per sé una sufficiente pienezza di vita" (Winnicott, trad. it. 1970, p. 33). La mancanza di un adulto significativo che dia al bambino la possibilità di essere capace di stare da solo in sua compagnia, gli impedisce quindi di introiettare un oggetto buono che costituisca contemporaneamente anche l’ambiente in cui depositare le altre esperienze, gli altri oggetti e le relazioni che intercorrono tra di loro: "A poco a poco l’ambiente che sostiene l’Io viene introiettato e strutturato nella personalità dell’individuo, così che si forma una capacità di essere solo di fatto" (Winnicott, trad. it. 1970, p. 39).  A nostro avviso l’individuo in ogni momento può accedere, attraverso la nostalgia, agli oggetti  interni e alle relazioni tra di loro, collocandoli in un ambiente che probabilmente coincide con l’area transizionale di Winnicott, in modo da attivare e mantenere una disposizione all’accoglimento dell’idea nuova e della nuova esperienza anche nella drammatica condizione della solitudine (una solitudine piena di gente) o della mancanza. 
"Nella creatività artistica, nell’esperienza poetica, nelle dolci transitorie regressioni, la nostalgia funziona come tentativo più o meno riuscito di elaborazione della mancanza" (Oneroso Di Lisa, 1989, p. 45). "Si può pensare alla nostalgia… come compagna dell’evoluzione esistenziale, declinazione particolare della memoria sognante, e quindi costruzione mitica" (Ferruta – Galli, 1989, p. 82).
La nostalgia è il sentimento che rende  sincronico il diacronico e sintopico il diatopico in uno spazio simbolico e rappresentativo.
Essa è "un segnale affettivo della costituzione di un campo rappresentazionale, dunque di uno spazio-tempo psichico all’interno del quale le rappresentazioni mediante le quali le tracce mnestiche ritrovano la loro vita dentro di noi, riformulandosi continuamente nei termini del linguaggio verbale ed iconico attuale (Bearbeitung), perdono la necessità (non, ovviamente, la possibilità) della condensazione, divengono dunque disponibili ad una operazione di espressione dello spessore storico del soggetto e dei suoi contenuti psichici… [la]… nostalgia è un segnale nobile, la cui presenza fornisce un importante indice affettivo della crescita psicologica…" (Semi, 1989, p.  66) del soggetto. Questa è la "nostalgia che permette di attingere al patrimonio delle nostre memorie più care… per derivarne conforto, sostegno, indirizzi, stimoli e illuminazioni, per l’esistenza di quel filo che lega costruttivamente il passato al futuro sia nella storia dei singoli che dell’umanità" (Carloni, 1989, p. 128)
Distanze temporali e lontananze spaziali possono essere colmate con un ponte simbolico e rappresentativo o attraverso una oscillazione costantemente operante.
Il ponte e l’oscillazione si definiscono e diventano operativi a partire dalla nascita attraverso lo stabilirsi delle prime relazioni con la madre e quindi con la famiglia, con i gruppi, con le istituzioni, con il paesaggio antropico, che vivono all’interno di una specifica cultura (lingua, storia, costumi, religioni ecc.).
In questa accezione la cultura costituisce un "generatore di significato e di senso", operante di continuo (cioè che muta continuamente attraverso la costante opera trasformativa dei suoi fruitori in interazione tra di loro). Questo "generatore" fa diventare la differenza tra natura e cultura e tra corpo e mente, inconsistente, essendo la natura e il corpo dati culturali. Le percezioni sensoriali stesse, in concorso tra loro (un aspetto di quello che Bion definisce "senso comune"), forniscono informazioni oltre che sulla natura del percetto anche sul suo significato all’interno di una determinata cultura.
Un solo inciso per concludere ed andare oltre: L’indagine sulla nostalgia come malattia portò Hofer a riconoscere nell’udito una funzione attivante del sentimento. Egli ricorda che alle truppe fu proibito il canto o il suono di specifiche nenie ma che si constatò che anche certe parole o semplicemente l’idioma natio potevano scatenare un episodio di nostalgia.
Una delle ragazze che abbiamo seguito veniva picchiata ogni volta che parlava nella sua lingua così da impedirle di sentire nostalgia!

SECONDO MOVIMENTO

Identità della prostituta

Noi riteniamo che le ragazze che vengono ridotte in schiavitù e indotte alla prostituzione, subiscono una effrazione dell’identità attraverso tecniche di iniziazione selvaggia o, per meglio dire, di tortura fisica e psicologica. Tali tecniche contribuiscono a decostruire la precedente identità per impiantare quella di prostituta e per collocare il carnefice all’interno dell’apparato psichico in modo da costituire un persecutore interno traumatogenetico. Queste tecniche devono potere azzerare o portare sullo sfondo ogni altro aspetto della vita psichica che non sia quello sessuale, devono pervertire l’affettività omologandola all’espressione della sessualità, devono portare sullo sfondo l’idea del corpo come totalità e come marcatore della presenza nel mondo per ridurlo a parti e funzioni erogene attraverso una operazione di regressione massiccia.
Riteniamo che una delle conseguenze dell’effrazione dell’identità consista nel deterioramento della funzione di ponte e di oscillazione da noi attribuita alla nostalgia con l’emergenza di vissuti di odio del passato, rinnegamento delle origini, ricostruzioni di biografie palesemente e macroscopicamente false.
In pratica intendiamo porre la questione di come si diventa prostitute quando la scelta di prostituirsi è indotta e provocata da altri, quando consiste in una "modificazione deliberata dell’identità" (f. Sironi, 2001). Intendiamo anche portare l’attenzione su fenomeni che rischiano di restare in ombra quando ci si occupa delle donne che si prostituiscono.
Tempo fa, quando uno di noi ha incontrato per la prima volta ragazze che sono state aiutate a lasciare la strada da una associazione di volontariato, ha scritto che: "Tra loro si [era] creato un rapporto molto intimo…fatto [non] solo di complicità, di confronto e di condivisione ma che comprende[va]… qualcosa di più profondo e ineffabile: tutte… [avevano]  conosciuto e vissuto la condizione di annichilimento della storia personale, del mentale, dell'affettivo, del sé…
Le… ragazze… avevano bisogno di credere di avere un passato che si ponesse in continuità con il presente cancellando, però, l'esperienza della prostituzione, che restava inelaborabile, avvertita come un'escrescenza temporale o come un buco nero che rischiava di sfaldare le stratificazioni della storia personale.
Ma a quale passato riferirsi, quale storia ripercorrere, visitare, quale nostalgia avvertire se la madre terra, la madre lingua, la famiglia originaria stessa [sono] sentite come complici dell'orrore che hanno vissuto? Terra, lingua, famiglia, evocano in loro una profonda angoscia di morte. Nelle loro menti restano solo frammenti di vita felice, evocati a volte quasi estaticamente, che riguardano quasi esclusivamente la loro infanzia o la fanciullezza.
…Le… ragazze comunicavano  il senso della loro non appartenenza: alla propria nazione, alla propria cultura, alla propria religione, alla propria lingua, alla propria famiglia; così come alla nostra nazione, cultura, religione, lingua. In loro è stata… compromessa, la possibilità di sentirsi parte di un gruppo, il senso dell'appartenenza ad un gruppo e con ciò è stato minato il sentimento di identità.
Per loro la gruppalità assume sembianze mostruose, diviene persecutoria… dirompente e frammentante: una sparirà nel nulla, senza lasciare tracce... qualcuno afferma che fugge da un persecutore, altri che sta tentando un improbabile ritorno alla sua terra. Un'altra sta provando a vivere un rapporto di coppia con chi fu un suo cliente, …[una] terza ha avuto un crollo psicotico…
Eppure è questa gruppalità che va bonificata e ricostruita in loro. Il gruppo, come strategia terapeutica, resta, la modalità di intervento elettiva quando l'estrema violenza è stata esercitata dai gruppi. L'operatore deve riferirsi alla gruppalità anche quando opera all'interno di un setting duale e del resto la coppia terapeutica può avvertire la presenza dei propri gruppi di riferimento anche quando questi sono assenti." (G. Raniolo,  2002, pag. 142-143, 145-146)

 Vorremmo, aiutati dalle considerazioni di Julia O’Connell Davidson, che ha scritto un interessante libro dal titolo La prostituzione, soldi e potere, proporre alcune definizioni e introdurre delle questioni che a noi sembrano fondamentali.
"La prostituzione è un’istituzione che permette ai clienti di assicurarsi temporaneamente certi poteri di dominio sessuale sulle prostitute …con il denaro e/o altri benefici materiali…" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 14 e pag. 22).  
Chiunque abbia "la voglia e il denaro per entrare in transazioni sessuali di tipo commerciale…in ogni città, porto o località turistica del mondo…[può] comprarsi l’accesso ad una selezione di adulti e bambini che non trarranno alcuna gratificazione fisica, sessuale o psicologica (e spesso ben poca remunerazione finanziaria) dall’incontro. Si tratta di persone il cui ingresso nel mondo della prostituzione è condizionato da, ed è basato su, una serie particolare di rapporti sociali piuttosto che essere un’espressione specifica del loro sé individuale. [Spesso]… sono persone costrette a prostituirsi per mano di terzi" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 15-16).
Questo nostro contributo,  "non si occupa della piccola minoranza  di individui che sono attratti dalla prostituzione per le intrinseche qualità del  lavoro sessuale [e neppure] dell’esperienza di quelle persone per cui la prostituzione rappresenta…la migliore tra una manciata  di alternative non allettanti …" (J. O’ Connell Davidson, 2001, pag. 16) ma piuttosto si interessa, come ammesso in apertura, esclusivamente della prostituzione intesa come "una condizione a cui …[si è costretti] da altri" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 16).
"In ogni paese del mondo ci sono casi di terzi che fanno soldi prostituendo individui tenuti in condizione di prigionia…vittime di rapimenti, trappole o indebitamento…[Spesso gli]… agenti di reclutamento usano la promessa di un impiego [, in una città del loro paese o all’estero, ]  per sottomettere ai loro poteri le giovani delle aree rurali povere…  Altre sanno che [faranno le] prostitute, ma non si rendono conto che verranno tenute prigioniere e saranno vittime di abusi da parte dei loro datori di lavoro (J. O’Connell Davidson pag. 48).
Abbiamo potuto costatare che anche quando le ragazze lasciano i loro paesi di origine per fare le prostitute in Italia, non hanno ben chiaro in cosa consista in realtà questa attività; ci siamo sentiti raccontare diverse volte (ma solo quando le ragazze vengono dai paesi dell’est europeo) che della prostituzione avevano idee vaghe e romanzate, niente che abbia a che vedere con la strada, le botte, i clienti che non possono scegliere, le prestazioni che non possono rifiutare, il disprezzo e la violenza dei cittadini per bene.
Scrive ancora O’ Connell Davidson: "Una volta arrivate a destinazione, o sono fatte prigioniere e fisicamente costrette a prostituirsi o viene loro detto che devono una grossa somma di denaro all’agente per il costo del loro viaggio e di altre spese che possono essere state da lui sostenute e che tale somma dovrà essere pagata con la prostituzione. Se gli individui sono stati trasportati oltre i confini nazionali attraverso la rete del traffico internazionale, la loro vulnerabilità in rapporto ai terzi è di solito ancora più rafforzata dalla sottrazione delle loro carte di identità, dal loro status di immigrati clandestini nel paese ospitante e dal completo isolamento dal resto dei loro familiari (J. O’Connell Davidson, 2001 pag. 48-49). 
In poche parole si compie un azzeramento della identità e della personalità della persona coinvolta: prigionia e isolamento, costrizione, ricatto, strappo con la famiglia, la cultura, la religione, la lingua, immersione in una condizione di clandestinità che viene ritualizzata attraverso la sottrazione dei documenti di identità. Alla conclusione di questo vero e proprio, ma perverso, rito di passaggio si riemerge nella nuova condizione di prostitute.
Ma entriamo nel vivo dell’argomento, scrive O’Connell Davidson: "Per quanto riguarda la disciplina del lavoro, i dati disponibili sulla prostituzione…suggeriscono che la forza fisica è usata di routine… Le prostitute… raccontano in vario modo di essere state tenute a digiuno, picchiate, private del sonno, incatenate o chiuse in spazi isolati…; lo stupro è ampiamente impiegato come forma di violenza/tortura per ammorbidire le vittime appena catturate…" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 53-54).
In realtà  non si tratta di disciplina del lavoro ma di metodi per indurre cambiamenti spesso irreversibili dell’identità e di strategie per il mantenimento, una volta raggiunta, dell’identità di prostituta. I metodi comprendono: il dolore, le privazioni, il terrore, il disturbo dei riferimenti sensoriali, la scelta impossibile, l’instaurazione di un codice ossessivo totale come sistema, le situazioni di perversione logica.
E’ erroneo considerare queste pratiche solo metodi di disciplina perché così facendo si coltiva l’illusione che una volta sottratte a questi trattamenti le vittime possano, ipso facto, riacquistare l’antica identità o che possano farlo una volta lenite, per così dire, le ferite; in realtà un’opera di decostruzione dell’identità richiede uno specifico intervento di ricostruzione e di sradicamento del persecutore interno traumatogenetico.
Scrive ancora O’ Connell Davidson "…le risposte psicologiche al trauma di essere o venduti o rapiti o tenuti come ostaggi e poi ripetutamente stuprati includono forme estreme di ansia e depressione, idee di suicidio [ecc.], è ragionevole ipotizzare che [i carcerieri] usino sanzioni ed incentivi economici per gli effetti normalizzanti e legittimanti che possono avere sulla vittima" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 57).
Vengono quindi utilizzate forme di influenzamento basate sull’uso massiccio del paradosso e del condizionamento mentale per dosare l’impatto delle tecniche di destrutturazione dell’identità in modo da conservare nelle donne la semplice ed esclusiva capacità di offrire prestazioni sessuali.
"…Non è… raro che le prostitute esprimano il loro potere soggettivo attraverso atti di auto-lesionismo (come uso di droghe, varie forme di rischio e auto-mutilazione) che riproducono il male loro fatto da altri trasformandolo… Sebbene questo permetta alle singole persone che si prostituiscono di mostrare e ottenere un certo controllo sui loro corpi e sul loro stato psicologico, esso raramente rappresenta una resistenza al potere esercitato su di loro da terzi, e difficilmente altera l’equilibrio di potere a loro vantaggio" (J. O’Connel Davidson, 2001, pag. 60-61).
In questa opera di destrutturazione dell’identità  i cosiddetti protettori sono inconsapevolmente aiutati dai clienti. Infatti nella mente di questi ultimi "…la prostituta è costruita come un oggetto. All’interno dello scambio… l’essenza della transazione è che il cliente  paga la prostituta per essere una persona che non è persona…[riuscendo in tal modo ad ottenere prestazioni sessuali da] un essere umano reale, in carne ed ossa, e tuttavia ad evadere tutti gli obblighi, le dipendenze e le responsabilità che sono implicite nella fusione sessuale in contesti non commerciali. Riescono… [ad ottenere prestazioni sessuali da] una persona che è fisicamente viva ma socialmente morta... Una persona che è socialmente morta è una persona senza potere, nascita e onore. Lo schiavo…non può esercitare pretese, diritti e poteri su cose o altre persone… le persone che si prostituiscono… non hanno diritto a fare reciproche rivendicazioni o richieste nei confronti del cliente. La prostituta è priva di nascita nel senso che la sua vera identità e la sua storia personale sono invariabilmente occultate dal cliente, il quale non ha un vero interesse in esse, ed è senza onore nel senso che lo status degradato della puttana cancella qualsiasi diritto alla protezione e al rispetto concesso alle non prostitute… In un certo senso le prostitute sono socialmente morte nell’ambito di ciascuna transazione" (J. O’Connell Davidson, 2001, pag. 183-185).
E’ probabile che non ci si renda comunemente conto di quanto questa opera complessa di riduzione in schiavitù e di effrazione e trasformazione dell’identità e di mantenimento della nuova pseudoidentità così ottenuta, sia intrinsecamente simile a ciò che si verifica nell’ambito della tortura intesa non tanto o non solo come un insieme di tecniche tese ad ottenere confessioni ma piuttosto, come dice Marcello Vignar, "a distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità che la definisce come persona" (citato in F. Sironi, 2001, pag. 20).
Consideriamo questo binomio schiavitù – tortura, come centrale nell’analisi della prostituzione perché l’una rinforza l’altra e sono intrinsecamente e reciprocamente necessarie oltre ad essere fondamentalmente simili: la schiavitù può essere una forma di tortura e del resto una persona può essere mantenuta in condizione di schiavitù solo se la si fa vivere in una condizione perenne di terrore.
La dichiarazione contro la tortura firmata dalle Nazioni Unite nel dicembre 1975 dà questa definizione: "Per tortura si intende ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenza gravi, sia fisici sia mentali, allo scopo di ottenere da essa o da un’altra persona informazioni  o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso o è sospettata di avere commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona" (citato in F. Sironi, Milano 2001, pag. 19). Come si vede il concetto di tortura è ampio tanto che tra i metodi sono comprese anche le forme di tortura psicologica e tra gli obbiettivi l’intimidazione e la coercizione; tuttavia, osserva Francoise Sironi nel suo fondamentale lavoro sulla tortura, Persecutori e vittime, "…questo testo…non evidenzia le sofferenze croniche che la tortura genera…[e] non sembra considerare una forma di tortura il clima di terrore quotidiano in cui un’intera popolazione è costretta a vivere costantemente" (Francoise Sironi, 2001, pag.19). Nel caso in esame l’"intera popolazione" alla quale noi ci riferiamo  è quella costituita dalle prostitute.
Così alle ragazze di cui ci siamo occupati è accaduto di partecipare alla distruzione dentro di sé dell’appartenenza al proprio gruppo originale attraverso la distruzione programmata di ogni elemento significativo di tipo culturale, religioso, linguistico, affettivo, cognitivo per entrare, attraverso una serie di riti di iniziazione selvaggia a far parte del gruppo delle prostitute, gruppo marginale e marginalizzato. Esse sono sottoposte alla violenza congiunta degli sfruttatori e dei rappresentanti della società ospite e costrette ad essere portatrici ed interpreti di una identità che non gli appartiene ma che spesso sarà l’unica che verrà loro consentito di esprimere.
Quando le incontriamo una volta uscite dal giro bisognerà interrogarci sul destino della loro identità e sul ruolo che ancora svolge in loro lo sfruttatore, introiettato e diventato un oggetto interno persecutore. Bisognerà anche interrogarsi sulla forma di questa violenza che le ha deumanizzate facendole diventare meri oggetti sessuali e alterando, la relazione con l’affettività e la memoria, la storia personale, distruggendo in loro la capacità di provare nostalgia. 

TERZO MOVIMENTO

Un’esperienza mancata

       La proposta di condurre un gruppo con donne riscattate dalla prostituzione, come parte di un progetto organizzato da una associazione di volontariato cattolica, fu rivolta a uno di noi sulla base di tre motivazioni: il fatto di essere immigrante, la conoscenza delle lingue, l’ essere donna. Era una sfida stimolante.
Senza volerlo, la mia mente cominciò a popolarsi di immagini vaghe e sensazioni miste portate da un vento lontano; avevo vissuto per ben due volte l’impatto duro, doloroso, e allo stesso tempo arricchente, dell’inserimento in due culture straniere molto diverse tra di loro, quella nord-americana e quella italiana. La scoperta di un nuovo mondo e il confronto con modi di fare, di pensare e, all’inizio mi sembrava, anche di sentire, diversi, si era sempre accompagnata in me a un alternarsi di sentimenti opposti e ugualmente totalizzanti: dall’arroccamento difensivo sul già conosciuto rinforzato dal giudizio moralistico su ciò che molte volte mi appariva incomprensibile e pertanto disprezzabile, all’estremo opposto in cui l’accettazione e conoscenza del nuovo, talvolta esaltante e causa di meravigliato stupore, poteva tramutarsi in un sentimento depressivo di perdita di ciò che fino ad allora mi sembrava parte del mio essere, di stati mentali dolorosi di estraneità e di isolamento, oppure in ansie persecutorie che svalutavano e scardinavano i miei punti di riferimento. In entrambi i casi, seppur vissuti in periodi diversi della mia vita, solo un lento e faticoso processo di andirivieni tra l’allora e l’ora, mi aveva gradualmente permesso di apprezzare colori, sapori, odori, luce e tonalità nuovi che cominciavano ad essere in qualche modo anche miei, pur ricordando e recuperando, talvolta con struggente nostalgia, le mie origini.   
La supposta "conoscenza delle lingue" mi rendeva perplessa visto che sapevo bene che gran parte della comunicazione vera, quella affettivo-emozionale, quella dei significati impliciti del discorso, dei referenti evocati, delle sfumature che aprono abissi di differenze di senso, ha più a che vedere con la storia socio-culturale vissuta e condivisa della realtà di appartenenza che non con la conoscenza formale della lingua.
La violenza e  prigionia del corpo, bersaglio e ostaggio di paure, divieti, diffidenze, somatizzazioni, chiusure e attacchi invasivi, fino alla sessualità mercificata mi intimoriva.
Tuttavia presi la decisione di assumermi quest’impegno dopo un sogno che segnò la nascita di questo gruppo nella mia mente. Solo un’immagine: una donna lucciola, molto piccola e luminosa, imprigionata in un lume, con le ali che sbattevano impotenti contro le pareti di vetro che la rinchiudevano. Era Trilly o Campanellino, la compagna di Peter Pan nel geniale film "Hook" di Spielberg. Capovolgendo la tradizionale fiaba dell’eterno fanciullo, il regista aveva adoperato qui il punto di vista di Capitan Uncino, un’ironico e divertente Dustin Hoffman, che dietro la sua apparente ferocia nascondeva il regressivo desiderio di recuperare il suo "luogo degli origini": è attraverso la nostalgia sottostante che può accedere al suo dinamico passato di nemico giurato del piccolo Pan per poter accettare il passaggio del tempo e la morte imminente. Ma soprattutto, la fatina che possedeva la polvere d’ oro che fa volare, era impersonata da Giulia Roberts, protagonista anche di un altro famoso film americano diventato una specie di mito popolare, "Pretty Woman". Mi ero rifiutata di vederlo per quello che ritenevo un banale romanticismo ma ne conoscevo la trama: una accompagnatrice o prostituta di alto bordo e un suo cliente, bello ricco e affascinante, si innamorano si sposano e così lei, moderna Cenerentola, viene riscattata. Sogno di prigionia e liberazione?

       Il gruppo è composto da cinque ragazze tra i 20 e i 25 anni di età, strappate alla prostituzione in vari modi  e con il loro consenso, in diverse città italiane, e approdate alla Comunità che, grazie al progetto finanziato dalla Regione, offre loro la possibilità di imparare la lingua italiana e un mestiere, fornisce l’indispensabile aiuto per l’ottenimento del permesso di soggiorno, documenti di identità che possano sostituire quelli sequestrati dagli sfruttatori e garantisce un piccolo contributo economico mensile. La loro partecipazione al gruppo per un anno è quindi praticamente "coatta": fa parte del pacchetto che deve essere accettato in blocco.
Nel tentativo di instaurare una "libertà" di partecipazione all’interno del gruppo e di stabilire una differenziazione  rispetto alla Comunità, organizzata in case-famiglia, dove la maggior parte delle ragazze coabita e condivide altre attività, viene loro comunicato che niente di ciò che riguarda il gruppo, sia la loro presenza o assenza, sia i contenuti e le dinamiche interne, verrà comunicato all’esterno. Questo fatto, insieme alla regola che, per svolgersi, il gruppo deve essere composto da almeno tre partecipanti, condizionerà molti degli attacchi successivi al gruppo che si esprimeranno nelle frequenti assenze di una o di un’altra delle partecipanti.
Il primo incontro è segnato da una forte tensione emotiva sfociata in una scissione tra due parti del gruppo che si confrontano con intensa ostilità: da un lato le tre ragazze africane, Julie, Elena e Mabel, provenienti da province diverse dello stesso paese, due di loro arrivate da poco, che si sentono derise e criticate dalle altre due ragazze, Ambra e Mara, provenienti dall’Europa dell’Est, che non solo sono "bianche" ma che inoltre sono uscite dal "giro" da più tempo. Con grande fatica potranno spiegarsi: Mara aveva sorriso sentendole parlare nella loro lingua e aveva subito pensato al tempo passato da quando lei non trovava qualcuno con cui parlare nella propria. La conduttrice si sentirà subito catapultata al primo impatto avuto in una città straniera quando, frequentando per invito un corso di etnologia, il professore aveva richiamato l’attenzione degli studenti sui suoi tratti etnici diversi, in quell’occasione si era sentita come se fosse appartenuta ad una specie rara da guardare allo zoo. Tuttavia, l’interpretazione paranoica di quel gesto era il segno di un sistema di classificazione razzista internalizzato con i suoi parametri di adeguatezza-inadeguatezza in funzione di quasi invisibili pigmentazioni della pelle. Nostalgia e persecutorietà segnano l’avvio del gruppo: nostalgia della lingua madre/materna, delle parole e dei suoni che accolgono, com-prendono e danno un senso, desiderio inaccessibile subito tramutato in ostilità proiettata.
Dopo questo scontro iniziale, segue un periodo in cui il tentativo di difendere il narcisismo individuale minacciato dall’esperienza di gruppo si esprime nella difesa strenua delle posizione dei due sottogruppi che tentano di asserire la "superiorità" delle proprie visioni.
Julie si rifiuterà di sentire i consigli per rendere lisci i cappelli perché:"io non voglio nessuna crema di qua, io vado all’ African shop e solo là trovo la crema giusta"; negano con risolutezza la notizia, riportata da un quotidiano, di un aereo caduto in Nigeria affermando che "nel nostro paese queste cose non succedono", oltre ai piccoli commenti nella loro lingua per il resto di noi incomprensibile; in maniera simmetrica Ambra e Mara ostentano il loro apparentemente riuscito inserimento nella realtà italiana: parlano abbastanza bene l’italiano, difendono le nuove opportunità che sonostate loro offertei, entrambe seguono dei corsi di formazione professionale a cui non avrebbero avuto accesso nei loro paesi d’origine… .
Come già evidenziato dai Grinberg (1984), gli immigranti fanno spesso inconsapevolmente ricorso a meccanismi di scissione e idealizzazione allo scopo di evitare il lutto, i sensi di colpa e le angosce depressive riacutizzati dallo stesso evento della migrazione, in particolare quando si tratta di una migrazione, almeno in  principio, volontaria. L’idealizzazione può riguardare le nuove esperienze nel paese ospite con la conseguente svalutazione del luogo e delle persone lasciate indietro o, viceversa, viene evocata con rimpianto la terra abbandonata come unica fonte di benessere possibile e il paese d’accoglienza, connotato negativamente, diviene il luogo della "delusione della terra promessa" (Grinberg L. e Grinberg R. 1996, p. 21).  Il fatto essenziale è mantenere rigidamente la scissione tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, anche al prezzo di mettere a rischio la valutazione della realtà: bisogna precludere il riconoscimento dei propri vissuti invidiosi e distruttivi sentiti come troppo minacciosi per l’oggetto e per l’Io.
Solo dopo la presa di coscienza che l’esperienza di gruppo è nuova per tutte, così come è comune la difficoltà di parlare dei propri sentimenti, Mara potrà affermare che: "in realtà uno si stanca, lavorando e facendo una gran fatica, per non pensare, per evitare di sentirsi male dopo", ciò che permetterà di affrontare in modo più diretto la diffidenza e il sospetto tra di loro. Tra accuse reciproche e alterni attacchi al gruppo –ritardi e assenze- le partecipanti cominciano a interrogarsi sulla funzione interna del gruppo, su una funzione che potesse essere sentita come propria a livelli molto primitivi, oscillando da una possibile funzione evacuativa, di deposito di ciò che è sentito come sporco, aggressivo e indigeribile, a una dipendenza frustrante da figure avide e denigrate, incapaci di offrire l’accudimento richiesto.
La messa in discussione dell’atteggiamento di Elena, che racconta di non essere venuta perché è stata male e "quando è nervosa se la prende con chiunque e non era giusto prendersela con qualcuno del gruppo che non ha nessuna colpa…", serve da spunto per riflettere su come utilizzare lo spazio offerto dal gruppo. Ambra perplessa e un po’ ironica segnala che proprio quando si sta male si va dallo psicologo. "Certo – aggiunge Mara - sarebbe molto bello poter raccontare ciò che ti fa male e sapere come reagiscono le altre quando hanno gli stessi problemi, e questo si potrebbe fare se tutte diventassimo amiche…". Mabel, asciutta, segnala che lei ha già dato una risposta perché è venuta al gruppo nonostante stesse male, ma anche ora ha male di stomaco, non riesce ad andare di corpo da tanto tempo, "forse perché non è abituata al cibo italiano, ha lo stomaco sporco…". Inizia una discussione sul cibo, sul fatto che in comunità mangiano spaghetti e non verdure, che lei non può cucinare perché non è a casa sua… "è strano, in Africa, quando stai male di stomaco dicono che non devi mangiare riso, e invece qua in Italia, se stai male, ti danno il riso come astringente… -Ma qui mangiano il riso in brodo, a me non piace-, dice Julie… -E’ vero, noi lo mangiamo asciutto, commenta Elena, ma anche in brodo è buono, poi ti ci abitui…"
La domanda implicita sul tipo di nutrimento mentale da ricevere segnala l’idealizzazione con caratteristiche regressive focalizzate sull’oralità, espressa nei discorsi prevalenti sull’alimentazione e la sensorialità primitiva. La nostalgia latente sembra frantumarsi denotando sia il timore della perdita dell’oggetto idealizzato terra-madre-seno che nutre e da sollievo, sia le ansie ipocondriache per la paura dell’internalizzazione del persecutore.
La devastazione subita sembra impedire la differenziazione tra esterno ed interno, le barriere di contatto tra conscio e inconscio. T. Nathan (1990) mette di rilievo la rottura tra spazio interno –la psiche- e spazio esterno –l’ambiente culturale- nelle psicopatoplogie degli emigranti. La confusione dentro-fuori, segno della perdita di confini del sé si esprime in diversi modi, portando dentro il gruppo rivalità, gelosie e conflitti insorti nella convivenza e che mirano a ingraziarsi o screditarsi davanti al responsabile della comunità, figura paterna assente ma costantemente presente nel loro immaginario in quanto soggetto reale della loro attuale dipendenza, con le loro richieste implicite alla conduttrice-madre, e arrivando al culmine in una seduta piena di rabbia e confusione che mette a dura prova la pazienza e la capacità di ascolto del  conduttore. Per motivi organizzativi,  visto che la comunità richiede che le partecipanti siano accompagnate per recarsi al luogo d’incontro,  con la scusa di fare delle telefonate oppure di andare in bagno, in quell’occasione c’è un continuo entrare ed uscire dalla stanza (credo fino a 16 volte) in un agito compulsivo e quasi masturbatorio che potrà essere fermato solo con la comprensione del vero senso del loro comportamento; di fatto una di loro era appena tornata a mani vuote dal viaggio intrapreso con la speranza di riuscire ad ottenere finalmente un riconoscimento legale della sua permanenza in Italia. Tutte loro senza eccezioni, da anni o da mesi, si trovano incastrate in una situazione in cui, essendo stati i loro documenti sequestrati dai loro aguzzini, le ambasciate si dichiarano impossibilitate a rilasciare nuovi passaporti per cui le ragazze dovrebbero tornare nei loro paesi d’origine; le Questure italiane richiedono i loro passaporti per emettere il permesso di soggiorno indispensabile non solo per studiare e/o lavorare ma perfino per camminare liberamente per strada. Non sono né là né qua, non appartengono a  nessun luogo, non sono riconosciute da nessuno,  non hanno un posto loro, la loro identità è nulla/anullata.
La condivisione della loro impotenza e disperazione sembra aprire un varco verso la possibilità di mettersi in sintonia tra di loro, di approfondire e rendere esprimibili e pensabili le loro angosce. "L’esperienza di comunanza in gruppo è specificamente legata al fatto che l’individualità delle persone a poco a poco si attenua o addirittura si dissolve e quindi si percepisce l’insiemità" (Corrao 1995b, p. 196-7). Capita ora che si formino dei sottogruppi ma la linea divisoria non è più il colore della pelle; si oscilla tra speranza e disperazione, tra desiderio e  resistenza ad affrontare le proprie problematiche:
Emergono così i sentimenti di abbandono, isolamento ed estraniazione  di Julie e Mabel, che non riescono a dare un senso ai loro vissuti attuali, sono passivamente dipendenti dalle decisioni prese per loro, non osano chiedere né denaro né spiegazioni, lavorano senza sapere se saranno pagate, rabbia e frustrazione appaiono senza uscita; dall’altra parte Elena e Ambra le sollecitano a esprimere i loro bisogni, oppongono le loro esperienze, raccontano quanto siano pesanti e faticosi i lavori che svolgono attualmente ma riconoscono anche di avere trovato delle persone in grado di dare e di capire, delle possibilità di lavorare in nero vista la tolleranza della Sicilia. Elena racconta dei suoi primi momenti di disperazione e di come è stata accolta dalle suore che l’hanno fatta uscire dalla prigione dove era finita per la denuncia della sua sfruttatrice quando era riuscita a scappare, che le hanno offerto lavoro e una casa, della sua graduale conquista di autonomia, della loro umanità e della sua gratitudine.  Appare come un fantasma il ricordo di un’altra compagna dei primi tempi, una ragazza lituana, brava a fare le pulizie ma anche a bere i liquori dei padroni, ridono, ma poi subentra una atmosfera di tristezza, un giorno ha chiamato a casa dicendo che stava tornando ma non è mai arrivata, l’hanno cercata dappertutto, chissà dove sarà …
Gradualmente il gruppo sembra coagularsi intorno a una fantasia messianica che coincide con il sogno iniziale del conduttore:
Mara, la bella ragazza slava, è fidanzata con un ragazzo di origine straniera, figlio adottivo di una coppia alternativa e molto aperta, ben inserita nel tessuto cittadino. Si tratta di un suo ex-cliente che, essendosene innamorato, è riuscito a "salvarla". Ora stanno costruendo una casa, lavorano duramente nell’impresa agricola di lui e hanno il progetto di sposarsi quest’estate e di fare venire in Italia la madre di lei. Il gruppo sembra diventare il luogo mentale della speranza, ciascuna racconta i propri progetti e desideri; alcune,molto creative e abili nei lavori artigianali, portano i loro prodotti. Tuttavia non mancano degli attacchi invidiosi e svalutativi che tradiscono il loro scetticismo: Mara lavora ma il fidanzato non le da uno stipendio e poi come si può desiderare di andare a vivere in campagna quando hanno fatto migliaia di chilometri per sfuggire a un destino che le condannava a coltivare la terra? Vissuti che non impediscono di seguire con particolare attenzione le vicende di Mara.
Questo mito collettivo non tarderà a sgretolarsi, sia per i fatti di realtà sia per le correnti omertose che impediscono di affrontare i vissuti inesprimibili dei periodi di prostituzione con le loro sequele, nonché l’impossibilità di trovare dentro di sé un’àncora, delle radici da cui partire. Timidi accenni a  ricollegarsi con nostalgia alle proprie origini sono evitati, non accolti; appaiono come frammenti sensoriali disintegrati (gusto, odore) che non possono raggiungere un "senso comune" (Bion) oppure attivano tendenze distruttive usate persecutoriamente come proiettili colpevolizzanti scagliati con violenza e odio dall’una all’altra, scambiandosi vicendevolmente o attribuendo al conduttore i ruoli di carnefice e vittima, nel tentativo di allontanare da sé un dolore insopportabile:
Mabel, che incarna l’impotenza e la disperazione, d’improvviso non verrà più: subito dopo essere stata "riscattata" in cambio di una grossa somma di denaro da un cliente innamorato scopre di essersi contagiata di Aids, ciò che si sa ma rimane non detto; la Comunità è riuscita a farle assegnare una casa popolare e un lavoro al Nord da accettare subito.
Elena, che lavora come ausiliaria in un istituto di suore dove si accolgono bambini orfani, riferisce, ad esempio, di nuovi genitori cattivi che, avendo inizialmente preso in adozione tre fratelli, li hanno separati restituendo una bambina: "In Africa le famiglie non abbandonano i propri figli". Ignorata, alla sua insistenza qualcuna con ostilità le dirà: "Ma tu hai lasciato una figlia in Africa, non è vero? Come sta?" zittendola. Elena, che non riuscirà ad affrontare il senso di colpa per l’incendio della casa dei suoi genitori al villaggio, da lei attribuito a una vendetta dei suoi sequestratori per la sua fuga, vede  crollare il suo sogno perché il fidanzato non ha il coraggio di sposare una donna di colore…Nessuna delle tre ragazze nigeriane del gruppo vuole raccontare dei cruenti riti magici e dei feticci personali con cui sono ricattate non soltanto loro, visto che avendo osato sottrarsi ai loro schiavisti, hanno messo in pericolo la vita dei loro cari attraverso temuti rituali di magia nera e minacce che spesso diventano realtà. Non possono neanche sognare di ritornare in patria perché sanno che  al rientro saranno bandite per legge dalla società in quanto prostitute, chiuse in carcere oppure lapidate dai fanatici musulmani (Seminara E. 2002) .
Elena non capisce perché Ambra non può farsi mandare il passaporto dalla sua famiglia e finisce per  suggerirle di tornare nel suo paese da clandestina, con le stesse persone con le quali è venuta, con discorsi moralistici del tipo "devi avere fiducia in tua madre, non vuoi vedere la tua famiglia?"… Ambra risponde che "non è possibile, l’Albania è troppo piccola, si sa tutto, poi chissà come finirebbe… sono sei anni che non ci vado, i miei fratelli saranno cresciuti, chissà come sono, ma non posso tornare…". Non può e non vuole raccontare che per sedici volte, rimpatriata e riagganciata all’uscita dell’aeroporto, ha attraversato l’Adriatico in gommone, cercando di sopravvivere in mezzo al buio, alle onde, alle urla dei compagni che stavano affogando, lei che non sa nuotare… L’unica volta che è riuscita a raggiungere casa, credendosi liberata, si è vista riconsegnare dal suo stesso padre al "professore" che con false promesse l’ha sposata appena adolescente per  avviarla alla prostituzione….
Il gruppo in blocco farà fallire il tentativo di inserire dopo sei mesi una diciassettenne colombiana, rifiutata dai genitori adottivi, incapaci di contenere le sue bufere adolescenziali tra droga e instabilità sessuale. Si rifiutano di sentirla e tassativamente la espellono "se sono andati a prenderti fin là quando avevi 10 anni vuol dire che sono buoni, devi ubbidire e tornartene a casa".
Il gruppo preferisce seguire Mara che ribadisce "sono molto stanca… ho lavorato tanto, ma va bene così, è meglio non pensare"; sua madre, analfabeta, è così povera e ignorante che non può comunicare nemmeno telefonicamente, ciò che alle altre appare incomprensibile.
È come se il gruppo fosse popolato di oggetti bizzarri, di schegge impazzite, di genitori che uccidono, espellono ed abbandonano, dell’impossibilità di sviluppare una funzione contenitiva che possa dare nuova vita alle figlie adottive, accedere ad altri livelli mentali e di significazione…È la catastrofe anziché il cambiamento catastrofico.

     L’impossibilità di tornare al paese d’origine, sia nella realtà che a livello dell’elaborazione interna, sembra la punizione meritata per avere osato "migrare" e avere desiderato un cambiamento, conoscere un mondo nuovo, ciò che accomuna queste ragazze alla condizione del esiliato. "L’idea dell’esilio per sempre è intollerabile" segnala Corrente (lavoro inedito) sottolineando che uno dei mezzi per salvaguardare la propria identità è il mantenimento di un "segreto" che consenta un approccio alla nuova realtà con modalità meno definite o meno definitive.  Nel gruppo la minaccia di disintegrazione narcisista e gruppale è così pregnante che il "segreto" da proteggere sembra coagularsi in un assunto di omertà come tentativo strenuo di difesa. Secondo Romano (1998): "Il benessere del gruppo in assunto di omertà è collegato al controllo di vissuti di delusione, paura, diffidenza, sospetto, disperazione. Ma il lavoro deve essere effettuato in forma sotterranea, nascondendo le buone intenzioni, tuffandosi nella fusionalità, sebbene questa sia distruttiva, per evitare la delusione, la pietà, l’insorgere della speranza, di affrontare l’impotenza".
Un sogno raccontato nel gruppo può forse aiutare a capire la dinamica sottostante: 
"C’era un gruppo di gente, incluso alcune di voi, c’era una macchina che faceva diventare carta la sabbia e anche le pietre…".
Dopo qualche mese sono arrivati i soldi del progetto, le partecipanti sono contente e hanno comprato vestiti che hanno portato al gruppo per farli vedere. Julie si toglie le scarpe nuove, "non puoi stare con i piedi scalzi, siamo da una dottoressa, non è buona educazione, non si fa così". Elena chiede: "Perché non si può fare? Nel mio paese se ti fanno male i piedi, ci si toglie le scarpe… tutti lo fanno…, tranne che ci sia puzza…" ; Julie reagisce subito, non c’è puzza, prende le scarpe e le porta vicino al naso di Mara che si allontana… ridono". Ricordano la fiaba dell’asinello che trasformava le feci in oro, si scambiano diverse versioni, Mara ricorda "si tratta di una principessa che per problemi nel regno vogliono far sposare con un uomo anziano e brutto, ma aiutata da una fatina riesce a scappare. C’era nel regno un asinello che defecava oro anziché cacca e alla principessa viene data la pelle dell’asinello e così nasconde il suo vero aspetto mentre lavora, ma un giorno un giovane la intravede senza la pelle e scopre com’era veramente e si innamora di lei…". Ambra, che dinnanzi al sempre rievocato matrimonio salvifico di Mara non  potrà più rispecchiarsi nelle altre partecipanti del gruppo, preannunciando il crollo psicotico che la porterà al ricovero e ad interrompere il tirocinio pochi giorni prima di ricevere l’attestato finale, asserisce: "Da noi era una gallina… c’erano un gallo e una gallina che si sono separati, allora la gallina si è presa l’uovo e il gallo se ne va, emigra a cercare un lavoro; arriva alla corte di un re ma poiché è un impertinente è punito e viene messo nella stanza del tesoro e qui mangia tutto l’oro possibile finché sta’ quasi per scoppiare, poi se ne va e torna nella sua terra e la gallina, quando lo vede, si rimette con lui per interesse perché ora ha i soldi…".

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Il pensiero istituzionalizzato che sorregge l’associazione che accoglie le ragazze, nonostante la sua sincera spinta solidaristica, è impregnato di diffidenza, sospetto e giudizio critico verso l’esperienza alienante vissuta dalle donne che sono viste ora come vittime, ora come artefici del loro destino. Come potrà dire una di loro solo alla fine dell’esperienza del gruppo:
"Quando lavoravo per strada ero libera in tutto, di giorno potevamo uscire, camminare, vestire come volevamo, comprare tutto ciò che desideravamo, reagivo con scherno e spavalderia anche se, sotto sotto, ti faceva male lo sguardo della gente perbene; l’unica cosa che non potevo evitare era di andare con 10/12 uomini ogni sera…anche il corpo si abitua…. Quando sono arrivata in comunità mi sentivo prigioniera in tutto, sì, mi ero liberata da quell’incubo notturno, dalla paura, dalle botte, dalle fotografie fatte di nascosto con la minaccia perenne di inviarle alla mia famiglia, ma poi non potevo uscire, non potevo telefonare, non potevo vestire come volevo, non avevo soldi per comprare niente, dovevo rincasare presto, fare i lavori domestici, mi sentivo forse ancora più sola in mezzo alle loro famiglie, piangevo ogni notte…"
Nel gruppo si verifica "la sospensione dell’ordine razionale precostituito o, come è forse preferibile dire, del pensiero istituzionale o istituzionalizzato" (Corrao 1995b, p. 198). Solo col senno del poi sarà possibile capire che anche il conduttore rimane intrappolato nelle trame del pensiero istituzionalizzato a diversi livelli. Da una parte c’è la tirannia interna di un super-io professionale che impone di rispettare un modello ideale (il gruppo a due sedute, minimo di tre partecipanti, partecipazione volontaria) in condizione in cui sia il gruppo che il setting sono costantemente violati dalla stessa istituzione committente, ma, il che è ancora più grave, la consegna stessa porta un messaggio paradossale e confusivo che annebbia la verità. Dall’altra, solo gradualmente il conduttore potrà rendersi consapevole che al di là delle dichiarazioni d’intenti, anch’egli ha stabilito un rapporto di mercificazione con le partecipanti essendo tutti coinvolti in una relazione in cui in cambio delle proprie prestazioni saranno pagati.
L’ideologia implicita di normalizzazione o inserimento sociale e adattamento a modelli prestabiliti, si rende possibile solo in quanto i diversi operatori coinvolti sono spinti a colmare il vuoto trasmesso e a imporre la loro identità (sociale, religiosa, etica, psicoanalitica) a chi ne è privo, a chi ha subito l’effrazione dell’identità, a chi è precluso l’accesso alla nostalgia.
É paradossale asserire che dopo le esperienze effettuate ciò che ci rimane impresso è il non detto, le assenze o mancanze, i buchi, la sensazione di sospensione, l’inesprimibilità che diventa conturbante: "L’angoscia è quindi inevitabile ogni volta che si teme di aver perduto l’elemento comune al luogo e al nome, ogni volta che si teme di essere caduti o di cadere nel vuoto (un altro termine dell’atopia o dell’afasia; atopia non c’è più luogo, afasia non c’è più parola)…" asserisce Corrao (op.cit., p.209), pur sostenendo che sia necessario fare prima la pratica per poi affrontare l’inquietante e l’incertezza inevitabili nel cercare di costruire una conoscenza. 
Ogni incontro tra membri di culture diverse presenta un’ambivalenza tra movimenti centripeti e centrifughi, di aperture e chiusura, in cui i soggetti coinvolti possono oscillare tra il rischio di imporre le proprie visioni misconoscendo l’altro e la possibilità di riconoscersi nell’incontro al prezzo di ripercorrere in modo nuovo, come con uno sguardo che arriva dall’esterno, le proprie origini ed appartenenze, scoprendo sostrati identitari inconsapevoli finora assunti come scontati, in una tensione dirompente che porta all’autoesposizione/ad esporsi quasi senza pudore.
Pensiamo tuttavia che in casi come questi il gruppo sia lo strumento privilegiato per confrontarsi con la identità come molteplice, ciò che diventa ancor più rilevante nell’incontro con persone provenienti da culture diverse. Come afferma Neri: "La molteplicità non come momento transitorio, ma al contrario come base della identità" (1992, p. 11).  Il gruppo dunque quale spazio mentale che permetta di conoscere e tollerare l’inquietudine che ci produce "lo straniero che ci abita (…) Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui." (Kristeva 1991, p. 9). 
Concordiamo inoltre pienamente con le conclusioni a cui parallelamente arriva G. Corrente in un articolo sull’ identità in esilio che abbiamo potuto leggere di recente. Quest’autore infatti ritiene che l’oscillazione affettiva "esilio↔nostalgia" favorisca la coesione del Sé e dell’identità: anziché "curare" l’esilio bisogna trasformarlo in "nostalgia da nostalgia". "La consapevolezza della propria identità si raggiunge considerando se stessi da un punto di vista storico e retrospettivo più che prospettico" asserisce Neri (op.cit., p. 12). La possibilità di ricostruire l’identità e di elaborare l’esperienza traumatica disorganizzante verso la pensabilità comporta la condivisione in gruppo della nostalgia come ponte interno tra l’esperienza presente e quella precedente, nostalgia come attraversamento del dolore della perdita che recuperando un passato bonificato permetta un’apertura verso il cambiamento.

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Bibliografia

G. Carloni, Tragitti della nostalgia, in Nostalgia. Scritti psicoanalitici, Pierluigi Lubrina Editore, 1989.
J. O’Connell Davidson, La prostituzione, sesso soldi e potere, Edizioni Dedalo, Bari 2001.
F. Corrao (1995b), Ti koinon: per una metateoria generale del gruppo a funzione analitica, in Orme, vol. I, Contributi alla psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.
G. Corrente Identità in esilio. Lavoro inedito.
Ferruta – T. Galli, Quell’irripetibile "salto" tra corpo e mente, in Nostalgia. Scritti psicoanalitici, Perluigi Lubrina Editore, 1989.
L. Grinberg e R. Grinberg  (1984)            Migración y Exilio. Estudio Psicanalítico. Editorial Biblioteca Nueva, Madrid, 1996.
J. Kristeva (1988) Extranjeros para nosotros mismos. Plaza&Janes Editores, Barcelona, 1991.
T. Nathan (1990) La follia degli altri, Saggi di etnopsichiatria, Ponte delle grazie, Firenze.
C. Neri, L’identità gruppale. Intervista a Claudio Neri a cura di Stefania Marinelli, in Koinos. Gruppo e funzione analitica, Anno XIII, n.2, luglio-dicembre 1992.
F. Oneroso Di Lisa, Nostalgia e narcisismo, in Nostalgia. Scritti psicoanalitici, Pierluigi Lubrina Editore, 1989.
G. Raniolo, Il marinaio, sogno di un gruppo, in Il racconto della mente, il mito nella relazione psicoanalitica, a cura di R. Romano, Edizioni Dedalo, Bari 2002.
G. Raniolo, Un’esperienza di psichiatria transculturale. La prostituzione, problemi sociali ed operativi. L’identità della prostituta, in Etnie, arti e terapie, a cura di S. Inglese, P. Affettuoso e N. Romano, edito da Fenascop, Genova 2005.
A. A. Semi, Cultura e nostalgia: l’esilio della psicoanalisi, in Nostalgia. Scritti psicoanalitici, Perluigi Lubrina Editore, 1989.
R. Romano, L’assunto base di omertà, inedito,  presentato alla Bion97 Conference di Torino.
Seminara E. "Rimpatriandole rischiano di più". Giornale La Sicilia, mercoledì 20 febbraio 2002, p.5.
F. Sironi, Persecutori e vittime, strategie di violenza, Feltrinelli Editore, Milano 2001.
A. Prete, a cura di, Nostalgia. Storia di un sentimento,  Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
D. W. Winnicott , La capacità di essere solo, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando editore, Roma, 1970.

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