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Il linguaggio conteso
di Annalina Ferrante

L'incontro tra un giornalista e uno psichiatra sembra caratterizzato da un problema comune: la crisi della comunicazione che si propone come crisi del linguaggio.
Le note difficoltà in cui versa l'informazione scritta e parlata italiana, evidenziata ancora una volta da recenti interventi, denuncia senza mezzi termini la superficialità o la povertà di contenuti delle notizie. Notizie "urlate" ma inconsistenti, avvenimenti deformati o addirittura alterati da una comunicazione parziale o dall'uso di un linguaggio ambiguo e stereotipato che genera confusione hanno come corrispettivo l'allontanamento da parte di un pubblico che non gradisce più, evidentemente, un'informazione tanto piatta quanto astratta e avulsa dal vissuto reale.
Nello specifico della psichiatria, il problema risulta ancora più grave perché la comunicazione riguarda, più da vicino di altri temi, la realtà umana e il suo massimo disagio: la malattia mentale. Di psichiatria e delle problematiche ad essa connessa si parla poco e troppo spesso male. Le cronache dei media negli ultimi anni ripropongono a ondate statistiche ossessive e abusate o commenti tanto ripetitivi quanto banali su ciò che riguarda sanità e malattia, normalità o patologia,.

Il linguaggio spesso frettoloso o con la pretesa di un resoconto obiettivo nasconde in realtà le crepe di una mancanza di idee e di contenuti.
E la psichiatria? Come comunica, come legge e si legge?

Il Prof. Nicola Lalli, docente di Psicoterapia e Primario del Servizio di Psichiatria e Psicoterapia dell'Università La Sapienza di Roma é lapidario: "La psichiatria comunica male e lo fa con immagini distorte, ambigue, proteiformi." E' un atto di accusa forte ma forse potrebbe anche essere l'inizio di una ricerca o perlomeno di un'ipotesi di ricerca. "Sarebbe utile - continua il Prof. Lalli - andare a vedere le immagini proposte dal linguaggio corrente che colpiscono l'immaginario del lettore e possono portare o al nulla o a nozioni falsificanti. Esistono parole che hanno un potere suggestivo o evocano altre situazioni e diventano veicoli di disinformazione oppure di omogeneizzazione del discorso.

Possiamo fare qualche esempio?
"Per esempio la parola MULTIFATTORIALITA` termine assolutamente generico, molto ricorrente e abusato e utilizzato per spiegare in modo confuso la presunta origine di varie forme di disagio mentale e che nasconde in realtà un'altrettanta confusione di idee. In realtà un termine del genere denuncia la continua conclusione che si fa tra la causa del malessere e l'esplosione del malessere. La manifestazione di quest'ultimo può essere scatenata da più fattori ma la sua causa è unica. I1 vero problema è fare una ricerca seria sull'origine della malattia senza farsi confondere dal semplice comportamento o dal sintomo. Altra dizione che mi sorprende è quella di CURA SINTOMATICA nella somministrazione dei farmaci. un'espressione, tra l'altro, utilizzata da psichiatri appartenenti a scuole di pensiero diverse. La cura sintomatica non esiste: è una contraddizione in termini perchè il sintomo non è la malattia. I1 farmaco cura, o meglio, elimina, spesso solo temporaneamente, il sintomo ma non affronta l'origine della malattia e quindi non può curare.

E solo un problema di linguaggio?
No, è certamente un problema di sostanza, di contenuti, di idee soprattutto. Il linguaggio è espressione di un'incultura diffusa e diventa un cavallo di troia, comunica qualcosa che non è la verità o solo una verità parziale e nessuno va a verificare cosa realmente contiene. L'omogeneizzazione del linguaggio, i discorsi confusi e inflazionati forse fanno comodo. Probabilmente fa comodo dire, come ho sentito all'inizio dell'estate di un collega, che il suicidio è dovuto al caldo. Faccio un'altro esempio e mi riferisco alla tragedia delle tre ragazze aggredite sulla Maiella dal pastore macedone. In quell'occasione un'illustre collega è riuscito a fare ben sette diagnosi in 10 righe di giornale, una diversa dall'altra e una più generica dell'altra. Questi sono messaggi non solo confusi ma direi, a questo punto, anche violenti perchè su temi così delicati e complessi. come quelli che riguardano la salute mentale della gente, è responsabilità precisa dello psichiatra non solo di evitare di lanciare messaggi che hanno l'effetto di non dare la speranza di poter risolvere il problema, ma soprattutto di proporsi finalmente una ricerca seria sulle cause del disagio psichico. E qui tocchiamo un'altro problema che accenno soltanto cioè la formazione personale dello psichiatra che, oggi, a mio avviso, è inesistente. Ed è gravissimo perché è bene ribadire che la cura passa proprio attraverso la dimensione personale dello psichiatra, è lo psichiatra il principale strumento terapeutico nel rapporto con il paziente.

Qual' è la responsabilità del giornalista in questi casi?
Vista la crisi che sta attraversando 1' informazione, direi che il giornalista si fa portatore di un linguaggio e di contenuti che soddisfano più il bisogno di sicurezza che una informazione magari più dura da digerire ma che faccia porre delle domande. Così facendo, più o meno consapevolmente, il giornalismo italiano finisce per rendersi complice delle operazioni culturali di una èlite che sopravvive e non viene messa in discussione grazie alla mancanza di un confronto serio su contenuti più profondi. Certo, la domanda è: se uno psichiatra si esprime nei modi citati, come si deve esprimere il giornalista? Deve scrivere quello che ascolta perché parla l'esperto? Io sono convinto che il giornalista debba fare più attenzione: non può non capire se un discorso è incoerente. Ed è necessario quindi che si assuma la responsabilità di saper leggere meglio la realtà e di tradurla in un linguaggio che esprima il suo vero significato. Il che significa, prima di tutto, cambiare un modo di essere e di pensare

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