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"PRIMO AMORE", un film di Matteo Garrone

 

Uno dei piaceri dell’agosto in citta’, almeno per me, e’ gironzolare per cinema semideserti alla ricerca dei film perduti durante l’anno. Si hanno spesso delle sorprese.

Quest’estate segnalo, per chi non lo avesse acchiappato in quelle due o tre serate in cui e’ rimasto nei cinema d’inverno, una piccola perla italiana, "Primo amore", per la regia di Matteo Garrone (che gia’ si era imposto all’attenzione con L’imbalsamatore).

Come per L’imbalsamatore, anche qui Garrone prende spunto da una vicenda di cronaca e dal libro che ne e’ derivato, ma se ne discosta liberamente, procedendo per una narrazione che mantiene il fulcro del fatto in se’ senza sentire la necessita’ di aderirvi del tutto.

La vicenda reale risale al ’97 ed e’, come molte tragedie di follia moderna, raccapricciante; la racconta il suo stesso autore, Marco Mariolini, in un libro-diario edito da Gruppo Edicom, "Il cacciatore di anoressiche" (ripreso in seguito anche dal programma di Rai3, ‘Storie maledette’).

Il Mariolini, antiquario quarantenne del bresciano, ossessionato da quella che lui stesso definiva "una vera e propria perversione", non riusciva a concepire una relazione se non con una ragazza che fosse magrissima, e che finiva con l’indurre lentamente e subdolamente all’anoressia. Un anno dopo la pubblicazione del diario — a cui aveva confessato il proposito di uccidere — commette in effetti l’omicidio per il quale e’ a tutt’oggi in carcere: uccide a Verbania la partner che lo aveva lasciato e si era ribellata alle imposizioni e ai digiuni a cui Mariolini la sottoponeva, come in seguito confesso’ di aver fatto su diverse altre ragazze e sulla ex moglie.

Trasferita sullo schermo, la storia mantiene il suo nucleo di veridicita’ nell’attenzione e nel dettaglio con cui narra del crescere della follia, della progressiva induzione all’anoressia da parte di Vittorio, il protagonista, verso Sonia, una ragazza solare e simpatica conosciuta con un appuntamento al buio, ma il regista si svincola dalla realta’ della cronaca per quanto riguarda il finale (sara’ nel film Sonia che riesce a liberarsi) e l’ambientazione. Vittorio e’ nel film un orafo di Vicenza, isolato e pensoso, seguito da cure psichiatriche alle quale non riesce ad affidarsi, che vive in una specie di casa bunker con le sbarre e sembra cercare una ragazza che corrisponda al suo modello. Confida allo psichiatra, ma soprattutto al suo diario, gli insoliti e tirannici ordini della sua mente: l’impossibilita’ di coniugare mente e corpo, il modellamento della donna e l’ideale ossessivo della magrezza.

Sulle prime, Sonia non sembra piacergli. Lei se ne accorge, lui candidamente dice "ti facevo piu’ magra". Lei si adombra, ma non da’ ascolto a questa prima offesa; e la loro storia ha inizio. Quando due solitudini si incontrano, tramite un annuncio su un giornale, forse e’ normale non andare troppo per il sottile. Sonia piace a Vittorio per la sua intelligenza e la sua freschezza, ma pur amandone "la testa" (per Vittorio sempre separata, come detto, drammaticamente dal corpo) deve comunque modificarne il corpo. Inizia cosi’ il lento instaurarsi di una prigionia tutta particolare, quella dei digiuni, delle mortificazioni e della dittatura della bilancia ma imposta da un altro, accettata per avere l’amore di un altro.

Non e’ una semplice anoressia, e non si puo’ chiamarla propriamente una folie a deux. Il fascino del film sta proprio, a mio avviso, in questa sorta di indefinibilita’: quello che viene spinto all’estremo e’ il tentativo di cambiare l’altro, di renderlo come noi lo vogliamo, di forgiarlo appunto come l’oro sotto il nostro sguardo. Una spinta che esiste in tutte le relazioni d’amore, che e’ sottaciuta e persino implicita tra amanti ma anche tra amici e tra genitori e figli, ma che qui diventa una follia lucida e solitaria, regolata da una sua logica irriducibile e ferrea che e’ quella di cambiare la materia, quella umana al pari di quella inanimata, di ottenere il massimo della leggerezza nel minimo spazio, il massimo del valore nell’infinitamente piccolo, cosi’ come si fa per i gioielli.

Il calvario di Sonia ricorda molto da vicino quello di molte anoressiche, che conosciamo o incontriamo nella pratica clinica: bilance davanti al letto, sempre piu’ precise e non manomettibili, diagrammi del peso sulle pareti, frigoriferi vuoti, penose cene al ristorante ordinando un’insalata, tentazioni di abbuffate notturne…..Lo scenario e’ ricorrente, una prigione dalle sbarre ben note, ma che l’anoressica stessa si impone, vittima e segregatore ad un tempo. Qui lo stupore e l’originalita’ ci deriva dall’induzione da parte dell’altro, colui che dovrebbe amarla; ecco allora che si confondono, nel nostro immaginario, i poveri rituali della malattia anoressica con il ricordo dei lager, l’umano desiderio di migliorare l’altro con il sadismo, l’umiliiazione e la vergogna di un corpo continuamente denudato perche’ continuamente pesato e osservato vanno ben aldila’ del classico corredo anoressico.

Deve essere per questo che, forse esagerando, qualche critico ha trovato in questo film anche, tra le altre cose, una metafora del Novecento e delle sue brutture. Sonia non perde solo chili; perde via via identita’, proprieta’ della sua persona, affetti e luoghi identitari (il fratello, gli amici, il lavoro le diventano estranei). Il film mostra, secondo questa chiave di lettura, come una relazione anonimizzante e improntata al sadismo porti al totale sopruso dell’uno sull’altro, ma senza via di uscita ne’ vera vittoria per nessuno dei due.

L’ambientazione si incastra perfettamente con la storia, e ci ricorda lo sfondo provinciale e desolato di tanti nostri delitti italiani, i piu’ recenti e noti. Pochi personaggi, anch’essi schivi ed essenziali, tutti con un forte accento veneto che e’ quasi una lingua a se’; una campagna che pare incontaminata, quella in cui Vittorio porta a vivere Sonia, staccata da ogni polso vitale urbano o familiare. Gli attori non sembrano recitare, tanto sono intensi; lei e’ Michela Cescon, attrice di teatro, e lui e’ lo scrittore veneto Vitaliano Trevisan, che ha preso parte con Garrone alla sceneggiatura. Non sono facce da grande cinema, e dunque l’impressione di verita’ risulta molto piu’ incisiva. Qualche critico avvicina Garrone — esemplare coraggioso nel giovane cinema italiano — non a torto al neorealismo.

La musica e’ cosi’ bella che e’ stata premiata al Festival di Berlino, dove il film e’ apparso come unico film italiano nella scorsa edizione (migliore colonna sonora alla Banda Osiris. che ha ricevuto recentemente un premio in Italia per la migliore colonna sonora dell'anno sempre per lo stesso film).

Si potrebbero dire molte cose su questo film, dal nostro punto di vista psicologico e che vuole essere attento al femminile. Qualunque ne sia l’angolo di lettura, il cuore portante resta il parallelo tra i due tipi di raffinazioni e di prosciugamenti: quello dell’oro e quello del corpo femminile. La stessa locandina del film e’ emblematica: mostra da dietro il cranio calvo di lui e la schiena nuda e ossuta di lei, dimagrita di 13 chili durante le riprese. Ma il perche’ di questa follia non viene spiegato. Viene lasciato intendere che per Vittorio non c’e’ altra scelta, dentro la sua mente non puo’ essere diversamente; e’ lui stesso un prigioniero.

Non si scade, per fortuna, nei percorsi prevedibili dell’indentificazione con l’aggressore (Sonia non diventa mai come lui, soltanto si adatta all’inizio per farlo contento, come avviene in molte relazioni, quando finalmente si e’ incontrato qualcuno dopo tanta solitudine); non arriva nessun salvatore a salvare, nessun evento fortuito a catalizzare (come sarebbe piaciuto in un film americano); non c’e’ neanche in Sonia una precisa presa di coscienza ‘al femminile’, una rivolta consapevole, ma piu’ banalmente per come sono fatti i percorsi mentali e’ il sopraggiungere in lei di una depressione che la porta a ribellarsi (scoppia a piangere in una boutique, costretta in un vestito che le toglie il respiro). Capisce, sente, di non poter continuare cosi’, di essere diventata troppo triste, di avere troppa fame.

E’ questa normalita’ che e’ straordinaria.

Puo’ essere significativo notare che il film non e’ piaciuto alla critica tedesca, che l’ha trovato eccessivamente duro e scabroso e l’ha sostanzialmente stroncato. In un’intervista subito dopo il Festival a Berlino, interrogato circa questa reazione della critica tedesca, Garrone ha risposto:

"….Non mi preoccupo molto, so che questo e’ un film che divide. Uno dei film a cui ho pensato, non tanto prima, ma rivedendolo, e’ stato ‘Martha’ di Fassbinder che ha molti elementi in comune a questi film, fatta la debita distanza. Anche Fassbinder era molto criticato in Germania, evidentemente esistono nervi scoperti in quel paese che nel momento in cui li tocchi provochi forti reazioni".

Non possiamo dargli torto.

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